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Una scuola in altalena, tra record di abbandoni e università ai vertici della qualità mondiale

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

Guardare più attentamente alla scuola, nella stagione del primato dell’economia della conoscenza. E considerarla sia alla luce della Costituzione (l’articolo 34 la vuole giustamente “aperta a tutti” e prescrive che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più altri degli studi”) sia nel contesto delle sfide poste dai fenomeni di più stretta attualità. Il declino demografico, da compensare con lungimiranti politiche di gestione dell’immigrazione e di inclusione sociale, culturale ed economica. E la necessità di risposte alla transizione ambientale e digitale e alla diffusione dell’AI (l’Artificial Intelligence) in tutti e settori della nostra vita. Sfide civili. E di sistema economico. Di cittadinanza. e di costruzione di sviluppo sostenibile, con lo sguardo rivolto alle nuove generazioni.

Come sta, dunque, la scuola italiana? Molto bene, a leggere il Qs World Ranking 2024 che analizza oltre 1.500 università e colloca le nostre al settimo posto nel mondo e al secondo in Europa per presenza nelle varie liste “Top 10” per discipline sia umanistiche che scientifiche. La scuola sta invece ancora abbastanza male, se guardiamo i dati Eurostat sulla dispersione scolastica, che ci vedono al quinto posto tra i paesi Ue per abbandono prematuro degli studi: ne sono colpiti l’11,5% dei nostri ragazzi, tra gli 11 e i 24 anni, ben due punti sopra la media europea (9,6%).

Migliora, insomma, l’istruzione superiore, anche se continuiamo ad avere troppo pochi laureati (soprattutto nella materie “Stem” e cioè scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma restiamo drammaticamente indietro nella formazione media e medio-superiore, bruciando aspettative e speranze di decine di migliaia di ragazze e ragazzi. Disapplicando la Costituzione. E sprecando opportunità per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Guardando attentamente i dati, scopriamo comunque che qualche passo avanti si è fatto: in vent’anni s’è dimezzato il numero di giovani che lasciano il sistema scolastico avendo appena la licenza media, o poco più, in mano (il tasso italiano era del 24%, rispetto a una media Ue del 17%). Restiamo tra gli ultimi, è vero. Ma, nell’impegno al recupero di posizioni, abbiamo raggiunto l’obiettivo fissato a livello comunitario per il 2020, che era del 16%: facciamo cinque punti meglio del previsto. Nel 2030, il target sarà al 9%. Riusciremo a raggiungerlo? Si spera di sì.

Sono sempre forti, comunque, i divari regionali. Il portale specializzato Skuola.net, analizzando nel dettaglio i dati Eurostat di cui stiamo parlando, documenta che ci sono dieci regioni con livelli di dispersione inferiori al 10%, in linea con quanto stabilito dalla Ue: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Abruzzo, Molise, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, per arrivare alle regioni più virtuose Umbria (7,3%), Marche (5,8%) e Basilicata (5,3%).

Ma nel Sud, purtroppo, va male: la dispersione sale al 13,8% di media, in Sardegna al 15%, in Campania al 16% e in Sicilia, un disastro, quasi al 19%.

Sono dati che si riflettono, naturalmente, anche sulle prospettive occupazionali. Tra il 2008 e il 2020 il tasso di collocamento dei giovani 18-24enni che hanno lasciato la scuola prima del tempo è crollato, passando dal 51% al 33,2%.

Abbandono scolastico allarmante, dunque. Con un aggravamento dei già pesanti divari territoriali e sociali. Ma anche caduta della qualità dell’istruzione, considerando ciò che rivelano i dati delle prove Invalsi: alla licenza media superiore, la metà dei diplomandi non arriva ai livelli attesi in almeno una delle tre discipline osservate (matematica, italiano, inglese). E quasi uno studente su dieci non raggiunge la sufficienza in tutte e tre le materie contemporaneamente. Con picchi nei contesti sociali più svantaggiati, nel Mezzogiorno: Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna in maniera particolare.

Dal punto di vista degli equilibri di sviluppo futuri, il contesto è appesantito dall’emigrazione continua, proprio dalle regioni meridionali, di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi, i più colti, formati, intraprendenti, capaci di costruire futuro.

Un quadro sbilenco, squilibrato, diseguale. Ma tutt’altro che privo di possibilità di ripresa.

Sarà pur vero che un pessimista non è altro che un ottimista ben informato, per dirla con il famoso aforisma di Oscar Wilde. Ma è probabilmente altrettanto vero che, nell’analisi dell’attuale momento storico, il confronto tra l’Italia e il resto dei paesi con cui siamo in competizione rivela attitudini e qualità da valorizzare meglio, per farne non solo e non tanto leva di orgoglio nazionale, quanto soprattutto cardine di scelte politiche e di consapevoli possibilità di sviluppo.

Ecco perché, allora, accanto alla critica ragionata e ben fondata sulle tante carenze del nostro sistema universitario, vale la pena prendere in mano i resoconti del Qs Ranking 2024 di cui abbiamo parlato all’inizio (Corriere della Sera, IlSole24Ore, la Repubblica 11 aprile) e sottolineare i buoni risultati della Sapienza di Roma e della Scuola Normale di Pisa, della Bocconi e dei Politecnici di Milano e Torino, della Luiss di Roma e della Federico II di Napoli, etc. Eccellenze, sia per gli studi umanistici che per le conoscenze scientifiche, per l’ingegneria e l’architettura, il design e l’arte. Primati su cui insistere, per continuare a investire sulla didattica e la ricerca, la valorizzazione dell’esperienza e l’attitudine all’innovazione.

L’orizzonte di riferimento è quello della “cultura politecnica”, un’originale dimensione italiana che sa tenere insieme i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. E su cui anche le imprese possono continuare a fare leva, per migliorare la competitività dei propri prodotti e servizi su mercati internazionali particolarmente selettivi.

Per dirla in sintesi: la formazione deve puntare sulle conoscenze più che sulle competenze. Perché sono le conoscenze che consentono di sapere cosa fare, come fare e perché. Sono, appunto, il frutto di una cultura politecnica diffusa, cioè capace di fondere l’innovazione tecnologica, come portato della ricerca scientifica, e il gusto del bello, come espressione del sapere umanistico. E rivelare così l’essenza del fare impresa italiano.

Se ne è discusso, nei giorni scorsi, a Trento, a “CamLab: dialoghi su impresa e innovazione”, per iniziativa della Camera di commercio. Insistendo sul fatto che in un grande Paese aperto come l’Italia, contemporaneamente competitivo e inclusivo la formazione vada concepita come un processo di filiera, un reticolato che investe tutte le imprese che ruotano intorno a un prodotto. L’abilità nel fare. E l’impegno a “fare sapere”, a costruire cioè un nuovo racconto dell’intraprendenza, della creatività e della produttività.

D’altronde, proprio nella radice etimologica di competere, c’è l’idea di tendere insieme verso un obiettivo: la crescita economica e sociale, con una produzione del valore diffusa, nelle imprese e nei territori. E dunque con una attrattività per gli investimenti e per le persone di qualità, per le idee e i portatori di conoscenze. Ecco perché la formazione non può che essere uno sforzo che deve mobilitare imprese, politica e associazioni di categoria. E la leva della fiscalità di vantaggio va utilizzata maggiormente, per stimolare imprese, territori, associazioni a investire in conoscenza, appunto in formazione. Formazione scolastica e professionale. E di lungo periodo. Lifelong learning, come dicono i manuali di gestione d’impresa.

Il ragionamento torna alle università e ai primati rivelati da Qs Ranking. Seguendo le valutazioni di Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino, ex ministro dell’Istruzione ed ex presidente del Cnr e della Compagna di San Paolo: “Siamo in una fase storica in cui c’è bisogno di ibridare i saperi. Ci siamo accorti, fortunatamente, che i soli risultati della tecnologia non bastano. Serve una visione più “rotonda” che abbia componenti etiche, sociali, umanistiche. Sotto questo profilo la nostra cultura ha radici profonde che certo vanno inserite nella modernità di oggi. L’anno scorso è stato il centenario della riforma Gentile e anche abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario dalla nascita della scuola media unica. Siamo un Paese molto interessante a cui altre culture guardano con attenzione” (HuffingtonPost Italia, 11 aprile).

Ha appunto ragione Profumo quando sostiene che “il modello culturale in cui ci ritroviamo insieme a Germania e Francia, anche a prescindere dalle singole posizioni in classifica, è attuale e moderno, e il Qs Ranking lo dimostra. Il tema centrale è che questi Paesi hanno conservato una tradizione mentre il mondo anglosassone è più tarato sull’immediatezza. Noi puntiamo sulla conoscenza, loro sulle competenze che però diventano obsolete più velocemente e vanno di tanto in tanto riviste e rigenerate. La conoscenza, invece, è un valore vero e duraturo nel tempo per le persone che lo possiedono”.

La sfida è politica, di scelte di lungo periodo sia nazionali che europee. E se è vero che l’Europa, in questa difficile stagione di grandi conflitti geopolitici, ha un peso purtroppo marginale, proprio l’insistenza della Ue sulla cultura, le conoscenze, la formazione può ridarci ruolo e qualità di partecipazione.

(foto Getty Images)

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