“A parità di merito assumiamo le donne”. L’indicazione della Normale di Pisa e le scelte per colmare il “gender gap”
“A parità di merito assumiamo le donne”. L’annuncio arriva da Vincenzo Barone, direttore della Scuola Normale di Pisa, una delle eccellenze universitarie italiane ed europee (“la Repubblica”, 29 novembre). Ed è il segnale forte d’una tendenza a intervenire sul “gender gap” (il divario di carriere, ruoli, redditi e prospettive tra uomini e donne) che può contagiare non solo il resto del mondo dell’università, ma anche gli ambienti dell’economia, delle imprese, della finanza. Un acceleratore di trasformazioni positive.
“L’università è ancora un sistema maschile. L’assumere preferenzialmente donne, appunto a parità di merito, può essere una buona idea”, commenta Cristina Messa, rettore dell’Università Bicocca di Milano, una delle cinque rettori donna tra i 79 “magnifici” ai vertici degli atenei italiani. I dati confermano che le donne sono il 40% del corpo docente complessivo, ma appena il 21% dei professori ordinari e il 36% dei professori associati, in un’università che però, tra gli studenti, per numero e qualità dei risultati, vede prevalere le donne: 56,2% le studentesse, 59,2% le laureate, con un’età media di laurea a 26,1 anni, rispetto ai 26,5 degli uomini. Le ragazze, insomma, si laureano un po’ prima e soprattutto si laureano meglio: 103,2 su 110 come media del voto di laurea “femminile” rispetto al 101,1 di media “maschile”. Un mondo in movimento, insomma, anche se lentamente, un po’ troppo lentamente.
Guardiamo altri dati, per capire meglio il contribuito che può arrivare dalle laureate alla crescita della competitività delle imprese, in una regione chiave per l’economia italiana, la Lombardia: su 116 mila studenti universitari iscritti alle “facoltà Steam” (l’acronimo che raggruppa le iniziali di science, technology, engineering ma anche environment e cioè la “green economy”, arts e cioè il complesso delle competenze umanistiche e creative e, infine, manifacturing), le donne sono già il 47,6% e solo per le lauree in ingegneria la percentuale si ferma al 22%, un dato comunque in crescita anno dopo anno. In dettaglio: il 62% nel “gruppo medico” e in quello chimico-farmaceutico, il 59,7% nel “gruppo geo-biologico”, il 52,9% in architettura, il 50,2% nel “gruppo agrario”, il 43,8% in matematica e scienze, il 22% in ingegneria.
Come interpretare questi dati, raccolti ed elaborati da Irs e Università Cattolica per Assolombarda? Come una crescita della consapevolezza sia dei soggetti sociali più dinamici (le studentesse, le laureate) sia dei settori più avanzati della formazione e delle imprese a insistere sul ruolo femminile come fattore fondamentale d’innovazione e di sviluppo. Uno sguardo in avanti, una sfida.
“Un progetto per colmare il gap di genere”, annuncia il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca (Il Sole24Ore, 18 novembre). Dall’università al mondo del lavoro. Per rafforzare dimensioni e qualità della crescita economica italiana, partendo proprio da Milano, metropoli innovativa che può fare da locomotiva dell’intero Paese. Ancora numeri, per capire meglio: “Nel 2015 – sostiene Rocca – le donne tra i 15 e i 64 anni erano in Lombardia 3,2 milioni, di cui 2 milioni attive: il che equivale a un tasso di partecipazione femminile nel mondo del lavoro del 62,7%”. Molto meglio della media italiana, il 47,2% e in linea con la media della Ue a 15 paesi. Ma “peggio dei nostri competitors industriali, il Baden-Württemberg, il Bayern e la Cataluña, che consideriamo benchmark e in cui la media è del 74%. Se fossimo al loro livello, insomma, conteremmo ben 360mila donne in più nel mercato del lavoro, vale a dire più di un terzo delle attuali inattive”.
Presenza femminile da fare crescere, dunque. Sul mercato del lavoro, nei ruoli delle imprese, sino ad arrivare ai livelli più alti e al top management. Come? Spiega Carlo Bonomi, vicepresidente di Assolombarda: “Bisogna lavorare su due aspetti. Quello culturale, che impedisce oggi alle donne di avere un ruolo importante all’interno delle imprese e un altro legato alle politiche pubbliche” che migliorino molto la compatibilità tra maternità, famiglia e lavoro.
Ancora dati, partendo proprio da quella media nazionale sulla partecipazione femminile, che mostra come una donna su due non lavori, un dato che ci mette in coda alla Ue (solo Malta fa peggio) e che determina una perdita di Pil del 15%, secondo stime del Fondo Monetario Internazionale (guardando il tutto da un altro punto di vista, se in Italia lavorasse il 60% delle donne, se tutto il Paese cioè fosse allineato alla Lombaerdia, secondo stime della Banca d’Italia il Pil crescerebbe del 7%).
“Pochi asili, stipendi bassi. E le donne lasciano il lavoro”, sintetizza un’inchiesta de “La Stampa” (4 dicembre), mostrando, con ricchezza di dati e storie, che le “inattive” tra i 25 e i 54 anni sono il 34,1% in Italia, rispetto all’11,6% in Svezia, e con un forte divario geografico (nel Mezzogiorno si va oltre il 60%), che la percentuale di contratti a tempo indeterminato è del 44% tra le donne e del 56% tra gli uomini e che le differenze in busta paga sono alte anche ai livelli più qualificati: la retribuzione media mensile, a cinque anni dalla laurea, è di 1.316 euro per le donne e di 1.597 euro per gli uomini: 281 euro di differenza, un sacco di soldi.
Un evidente “gender gap”, insomma. Più vistoso man mano che si sale verso i vertici delle imprese: “In Italia si passa da una presenza femminile del 46% nei livelli bassi d’impiego al 24% a livello di senior manager al 19% appena nel top management”, ricorda Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School (“la Repubblica- Affari&Finanza”, 28 novembre). E se la legge Golfo-Mosca, con l’obbligo di una quota di presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle società quotate ha rafforzato la presenza femminile nei board di vertice e ha fatto evolvere la cultura d’impresa (più qualità, più flessibilità intelligente, maggiore sensibilità per l’innovazione in senso ampio), ancora molto resta da fare, ai piani alti e in quelli intermedi delle aziende, sia grandi che piccole e medie.
Documenta l’inchiesta de “La Stampa”: “Il gender gap è in crescita: su 144 paesi analizzati dall’Ocse, l’Italia è al 50° posto, in calo di nove posizioni rispetto al 2015. Nelle opportunità economiche e nella partecipazione il divario è passato dal 60% al 57%. Sulle differenze di salario l’Italia è scesa dal 109° posto al 127°. E calano anche i ruoli manageriali e tecnici ricoperti dalle donne, dall’85° all’87° posto. Un grave danno per tutto il sistema Paese”.
Cosa c’è alla base di questa distorsione? Commenta Chiara Saraceno, una delle migliori sociologhe del lavoro italiane: “La mentalità, i modelli culturali di genere e di famiglia incidono molto sul basso tasso di occupazione femminile”. E ancora: “Accanto alle aspettative rispetto alla famiglia, che fanno pesare sulla donna la maggior parte delle incombenze e delle responsabilità casalinghe, persiste una cultura aziendale largamente maschilista, che ritiene le donne inaffidabili, o meno competenti degli uomini e che considera la necessità di conciliare lavoro e famiglia un’interferenza fastidiosa o non accettabile”.
L’effetto di pregiudizi, discriminazioni, “gender gap” è grave: meno Pil, minore qualità della crescita economica, minore e peggiore competitività. Tutti limiti da cui uscire, il più rapidamente possibile. Le scelte della Scuola Normale di Pisa, ma anche le “buone pratiche” oramai diffusa in parecchie aziende su parità, inclusione, welfare aziendale e opportunità per le donne possono fare da buon paradigma da seguire.
“A parità di merito assumiamo le donne”. L’annuncio arriva da Vincenzo Barone, direttore della Scuola Normale di Pisa, una delle eccellenze universitarie italiane ed europee (“la Repubblica”, 29 novembre). Ed è il segnale forte d’una tendenza a intervenire sul “gender gap” (il divario di carriere, ruoli, redditi e prospettive tra uomini e donne) che può contagiare non solo il resto del mondo dell’università, ma anche gli ambienti dell’economia, delle imprese, della finanza. Un acceleratore di trasformazioni positive.
“L’università è ancora un sistema maschile. L’assumere preferenzialmente donne, appunto a parità di merito, può essere una buona idea”, commenta Cristina Messa, rettore dell’Università Bicocca di Milano, una delle cinque rettori donna tra i 79 “magnifici” ai vertici degli atenei italiani. I dati confermano che le donne sono il 40% del corpo docente complessivo, ma appena il 21% dei professori ordinari e il 36% dei professori associati, in un’università che però, tra gli studenti, per numero e qualità dei risultati, vede prevalere le donne: 56,2% le studentesse, 59,2% le laureate, con un’età media di laurea a 26,1 anni, rispetto ai 26,5 degli uomini. Le ragazze, insomma, si laureano un po’ prima e soprattutto si laureano meglio: 103,2 su 110 come media del voto di laurea “femminile” rispetto al 101,1 di media “maschile”. Un mondo in movimento, insomma, anche se lentamente, un po’ troppo lentamente.
Guardiamo altri dati, per capire meglio il contribuito che può arrivare dalle laureate alla crescita della competitività delle imprese, in una regione chiave per l’economia italiana, la Lombardia: su 116 mila studenti universitari iscritti alle “facoltà Steam” (l’acronimo che raggruppa le iniziali di science, technology, engineering ma anche environment e cioè la “green economy”, arts e cioè il complesso delle competenze umanistiche e creative e, infine, manifacturing), le donne sono già il 47,6% e solo per le lauree in ingegneria la percentuale si ferma al 22%, un dato comunque in crescita anno dopo anno. In dettaglio: il 62% nel “gruppo medico” e in quello chimico-farmaceutico, il 59,7% nel “gruppo geo-biologico”, il 52,9% in architettura, il 50,2% nel “gruppo agrario”, il 43,8% in matematica e scienze, il 22% in ingegneria.
Come interpretare questi dati, raccolti ed elaborati da Irs e Università Cattolica per Assolombarda? Come una crescita della consapevolezza sia dei soggetti sociali più dinamici (le studentesse, le laureate) sia dei settori più avanzati della formazione e delle imprese a insistere sul ruolo femminile come fattore fondamentale d’innovazione e di sviluppo. Uno sguardo in avanti, una sfida.
“Un progetto per colmare il gap di genere”, annuncia il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca (Il Sole24Ore, 18 novembre). Dall’università al mondo del lavoro. Per rafforzare dimensioni e qualità della crescita economica italiana, partendo proprio da Milano, metropoli innovativa che può fare da locomotiva dell’intero Paese. Ancora numeri, per capire meglio: “Nel 2015 – sostiene Rocca – le donne tra i 15 e i 64 anni erano in Lombardia 3,2 milioni, di cui 2 milioni attive: il che equivale a un tasso di partecipazione femminile nel mondo del lavoro del 62,7%”. Molto meglio della media italiana, il 47,2% e in linea con la media della Ue a 15 paesi. Ma “peggio dei nostri competitors industriali, il Baden-Württemberg, il Bayern e la Cataluña, che consideriamo benchmark e in cui la media è del 74%. Se fossimo al loro livello, insomma, conteremmo ben 360mila donne in più nel mercato del lavoro, vale a dire più di un terzo delle attuali inattive”.
Presenza femminile da fare crescere, dunque. Sul mercato del lavoro, nei ruoli delle imprese, sino ad arrivare ai livelli più alti e al top management. Come? Spiega Carlo Bonomi, vicepresidente di Assolombarda: “Bisogna lavorare su due aspetti. Quello culturale, che impedisce oggi alle donne di avere un ruolo importante all’interno delle imprese e un altro legato alle politiche pubbliche” che migliorino molto la compatibilità tra maternità, famiglia e lavoro.
Ancora dati, partendo proprio da quella media nazionale sulla partecipazione femminile, che mostra come una donna su due non lavori, un dato che ci mette in coda alla Ue (solo Malta fa peggio) e che determina una perdita di Pil del 15%, secondo stime del Fondo Monetario Internazionale (guardando il tutto da un altro punto di vista, se in Italia lavorasse il 60% delle donne, se tutto il Paese cioè fosse allineato alla Lombaerdia, secondo stime della Banca d’Italia il Pil crescerebbe del 7%).
“Pochi asili, stipendi bassi. E le donne lasciano il lavoro”, sintetizza un’inchiesta de “La Stampa” (4 dicembre), mostrando, con ricchezza di dati e storie, che le “inattive” tra i 25 e i 54 anni sono il 34,1% in Italia, rispetto all’11,6% in Svezia, e con un forte divario geografico (nel Mezzogiorno si va oltre il 60%), che la percentuale di contratti a tempo indeterminato è del 44% tra le donne e del 56% tra gli uomini e che le differenze in busta paga sono alte anche ai livelli più qualificati: la retribuzione media mensile, a cinque anni dalla laurea, è di 1.316 euro per le donne e di 1.597 euro per gli uomini: 281 euro di differenza, un sacco di soldi.
Un evidente “gender gap”, insomma. Più vistoso man mano che si sale verso i vertici delle imprese: “In Italia si passa da una presenza femminile del 46% nei livelli bassi d’impiego al 24% a livello di senior manager al 19% appena nel top management”, ricorda Paolo Boccardelli, direttore della Luiss Business School (“la Repubblica- Affari&Finanza”, 28 novembre). E se la legge Golfo-Mosca, con l’obbligo di una quota di presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle società quotate ha rafforzato la presenza femminile nei board di vertice e ha fatto evolvere la cultura d’impresa (più qualità, più flessibilità intelligente, maggiore sensibilità per l’innovazione in senso ampio), ancora molto resta da fare, ai piani alti e in quelli intermedi delle aziende, sia grandi che piccole e medie.
Documenta l’inchiesta de “La Stampa”: “Il gender gap è in crescita: su 144 paesi analizzati dall’Ocse, l’Italia è al 50° posto, in calo di nove posizioni rispetto al 2015. Nelle opportunità economiche e nella partecipazione il divario è passato dal 60% al 57%. Sulle differenze di salario l’Italia è scesa dal 109° posto al 127°. E calano anche i ruoli manageriali e tecnici ricoperti dalle donne, dall’85° all’87° posto. Un grave danno per tutto il sistema Paese”.
Cosa c’è alla base di questa distorsione? Commenta Chiara Saraceno, una delle migliori sociologhe del lavoro italiane: “La mentalità, i modelli culturali di genere e di famiglia incidono molto sul basso tasso di occupazione femminile”. E ancora: “Accanto alle aspettative rispetto alla famiglia, che fanno pesare sulla donna la maggior parte delle incombenze e delle responsabilità casalinghe, persiste una cultura aziendale largamente maschilista, che ritiene le donne inaffidabili, o meno competenti degli uomini e che considera la necessità di conciliare lavoro e famiglia un’interferenza fastidiosa o non accettabile”.
L’effetto di pregiudizi, discriminazioni, “gender gap” è grave: meno Pil, minore qualità della crescita economica, minore e peggiore competitività. Tutti limiti da cui uscire, il più rapidamente possibile. Le scelte della Scuola Normale di Pisa, ma anche le “buone pratiche” oramai diffusa in parecchie aziende su parità, inclusione, welfare aziendale e opportunità per le donne possono fare da buon paradigma da seguire.