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Addio casalinga di Voghera, nuovo spazio alle donne nell’Italia della crisi e delle possibilità di ripresa

C’era una volta la casalinga di Voghera, icona dell’immaginario sociologico tra gli anni Sessanta e Ottanta. Dotata di buon senso, qualità positiva, ben diversa dal senso comune che ha il sapore del familismo qualunquista (oggi diremmo populista). E poi, nel tempo, invece, sempre più disattenta ai temi sociali, diventando un archetipo del pubblico televisivo femminile di scarsa cultura. Oggi, cambiati radicalmente consumi e costumi, in un’Italia sempre in lacerante trasformazione, vale la pena fare un bilancio delle figure cardine della nostra controversa modernità. Parlando appunto della casalinga di Voghera, per esempio. E delle figure dell’universo femminile tra storia e contemporaneità.

Viviamo infatti giorni inquieti, carichi d’incertezza, densi di violenze e discriminazioni di genere, affollati da domande, cui però mancano un’infinità di risposte. Siamo diventati un paese di “sonnambuli”, incerti nella direzione da prendere, vecchi, fragili e sempre più soli, quasi tutti convinti che l’Italia sia un paese in declino, come racconta il Censis, lucido e severo analista dei nostri umori politici e sociali. Abbiamo paura della distruzione del mondo, per effetto dei cambiamenti climatici, ma anche delle guerre e delle incognite legate alle nuove tecnologie. Le nuove generazioni non fanno più figli (sono una coppia su quattro avrà un bambino, nel 2040) e volentieri abbandonano l’Italia, in cerca di un migliore destino di lavoro e di vita (sono 6 milioni, gli italiani residenti all’estero). Tutto negativo, dunque?

Il ritratto – stando sempre al Censis – è più complesso di così. Ci sentiamo coinvolti (tra i 70 e il 60%), nelle discussioni sui diritti civili, l’adozione per i single e le coppie omosessuali, il matrimonio egualitario tra persone dello stresso sesso e soprattutto lo ius soli, la cittadinanza italiana a chi nasce o studia in Italia). E manifestiamo un robusto senso di comunità (nelle realtà locali) e di spirito di assistenza e servizio pubblico (la diffusione del volontariato). Le donne, in queste dimensioni, hanno ruoli di primo piano.

L’Italia ha molte facce, insomma. Si può raccontare adeguatamente solo scavando tra contrasti e contraddizioni. Sapendo bene che le vecchie, rassicuranti mete piccolo-borghesi del benessere hanno lasciato il posto a un’infinita serie di timori e preoccupazioni. E ricordando comunque l’acuta riflessione di Ennio Flaiano: “In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”.

Siamo entrati davvero “nell’inverno del nostro scontento”?

Saranno utili, per capire meglio, anche le capacità delle casalinghe di Voghera, privilegiando il buon senso ed evitando le trappole del senso comune, cercando di ragionare sulle persone e non più sulla “ggente”?

Se ne parla al Teatro Sociale di Voghera, appena riaperto e subito intitolato a Valentino Garavani, famoso stilista (vogherese di nascita, appunto: forse di “casalinghe” ne aveva vestite poche, di belle e ricche donne del gran mondo invece tantissime). Per una “riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi”, con il contributo di personalità della cultura e dell’economia (Nando Pagnoncelli, Andrée Ruth Shammah, Maria Latella, Emanuela Scarpellini, Germano Lanzoni, protagonista della serie del “milanese imbruttito”, Camilla Sernagiotto e Andrea Zatti).

Il dibattito è organizzato da Assolombarda, tra le iniziative per “Pavia capitale della cultura d’impresa”. Per capire come stanno cambiando gli assetti sociali e culturali e come reagire allo sconforto diffuso sul nostro futuro. A individuare, cioè, quali scelte fare per non cedere alla generale crisi di nervi da desperate housewives (anche gli americani avevano il loro quasi equivalente delle nostre “casalinghe”). E insistere invece su prospettive, pur faticose, di ripresa e sviluppo.

C’è una virtù, che può essere d’aiuto: proprio quel buon senso pragmatico, molto lombardo, che Alberto Arbasino, inventore a metà degli anni Sessanta della definizione “casalinga di Voghera”, attribuiva alla sue zie, solide borghesi della provincia. “Ci salveranno le vecchie zie?”, d’altronde, s’era già chiesto, nei primi anni Cinquanta, Leo Longanesi, campione d’ironia dissacratoria, romagnolo, parlando di signore “tutte maestre”, “fusti di quercia dalle radici ben solide”, “fedeli gendarmi dello Stato”, “custodi dell’ordine classico” e inclini “all’avarizia come segno di decoro… atto di fede… norma pedagogica… e principio morale”. Pur parenti della “signorina Felicita” delle “piccole cose di pessimo giusto” messe in versi da Guido Gozzano (torinese, lui, però). E comunque, nel corso del Novecento, punto di riferimento borghese d’un paese che usciva dalla retorica fascista strapaesana della cosiddetta “Italietta” e s’inoltrava nella luccicante modernità della ricostruzione del dopoguerra, del “miracolo economico”, d’un mondo di stravolgenti cambiamenti politici, economici e sociali.

Eccola, l’Italia della Tv, dei quiz di Mike Buongiorno (“Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”) e di Mario Riva (“Il Musichiere”), delle pubblicità di “Carosello” e dei varietà del sabato sera con le fascinose Gemelle Kessler e le coreografie di Don Lurio. L’Italia dell’Oscar di moneta più stabile attribuito dal “Financial Times” alla lira nel 1959 e nel 1964. Del premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta, padre della “plastica che svecchiò l’Italia” ( titola il “Corriere della Sera” nel ricordare la ricorrenza di sessant’anni fa). E del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato nel 1960, simbolo metropolitano della modernità industriale. Ma anche l’Italia in cui, nel 1966, il Servizio Opinioni della Rai, in un’indagine sulla comprensibilità delle parole dette nei programmi del piccolo schermo, aveva individuato nelle “casalinghe di Voghera” il pubblico meno capace di capire termini come “leader” o “scrutinio”.

Stanno qui, forse, le radici dello stereotipo: donna di provincia, bassa scolarità, lavoro familiare o comunque poco qualificato, scarsa dimestichezza con i temi della politica e della società. Fastidioso, come tutti gli stereotipi. Eppur di successo. Con un richiamo polemico anche alla letteratura popolare di Carolina Invernizio, vogherese anche lei, lingua facile, emozioni a buon mercato.

Ci si ritornerà, negli anni Ottanta, con Beniamino Placido, puntuto e colto critico televisivo, per parlare su “la Repubblica” del pubblico che amava il salotto di Bruno Vespa.

Tutto un altro mondo, comunque, rispetto alle arbasiniane zie di Voghera.

Ne è passato, di tempo. Quelle casalinghe hanno attraversato la storia recente, hanno fatto buon viso alla durezza della crisi energetica del 1973 e ai primi tentativi di “austerità” (erano in piazza, con le loro famiglie, per le “domeniche a piedi”, cominciate nel dicembre di quell’anno, per limitare i consumi di benzina, il cui prezzo era schizzato al cielo). Hanno votato in maggioranza per dire “no” al tentativo clericale di abolire la legge sul divorzio, nel 1974. Hanno contributo, ognuna a suo modo, a tenere compatto il paese negli “anni di piombo” del terrorismo e dei durissimi conflitti sociali. E hanno respirato di soddisfazione quando sono arrivati gli anni Ottanta, soldi in tasca, consumi opulenti.

E oggi? Senza cedere alla nostalgia canaglia del bel tempo che fu, archiviate casalinghe vogheresi o “di Treviso” (evoluzione della categoria secondo “Sogni d’oro” di Nanni Moretti nel 1981), adesso vale la pena abbandonare etica ed estetica del “tinello” e dei salotti con i centrini ricamati sui tavolini e valorizzare, invece, tensioni e aspettative delle donne e delle ragazze di una provincia che sempre più spesso, anche in tempi incerti, si rivela tutt’altro che provinciale.

Donne decise, intraprendenti, capaci nei lavori dell’economia digitale, determinate nel rivendicare diritti e doveri, anche contro violenze e divari di genere. Donne ai vertici di istituzioni e imprese. Donne cuore della “onda fucsia” che ha animato le piazza italiane il 25 novembre, per dire basta alle violenze contro di loro e dunque anche contro democrazia e civiltà. Donne in cammino, felici di riconoscersi nel bel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Un domani faticoso e contrastato, ma necessario e possibile.

Forse, varrà la pena di rileggere bene, con occhi nuovi, anche il pragmatismo lombardo caro ad Arbasino.

C’era una volta la casalinga di Voghera, icona dell’immaginario sociologico tra gli anni Sessanta e Ottanta. Dotata di buon senso, qualità positiva, ben diversa dal senso comune che ha il sapore del familismo qualunquista (oggi diremmo populista). E poi, nel tempo, invece, sempre più disattenta ai temi sociali, diventando un archetipo del pubblico televisivo femminile di scarsa cultura. Oggi, cambiati radicalmente consumi e costumi, in un’Italia sempre in lacerante trasformazione, vale la pena fare un bilancio delle figure cardine della nostra controversa modernità. Parlando appunto della casalinga di Voghera, per esempio. E delle figure dell’universo femminile tra storia e contemporaneità.

Viviamo infatti giorni inquieti, carichi d’incertezza, densi di violenze e discriminazioni di genere, affollati da domande, cui però mancano un’infinità di risposte. Siamo diventati un paese di “sonnambuli”, incerti nella direzione da prendere, vecchi, fragili e sempre più soli, quasi tutti convinti che l’Italia sia un paese in declino, come racconta il Censis, lucido e severo analista dei nostri umori politici e sociali. Abbiamo paura della distruzione del mondo, per effetto dei cambiamenti climatici, ma anche delle guerre e delle incognite legate alle nuove tecnologie. Le nuove generazioni non fanno più figli (sono una coppia su quattro avrà un bambino, nel 2040) e volentieri abbandonano l’Italia, in cerca di un migliore destino di lavoro e di vita (sono 6 milioni, gli italiani residenti all’estero). Tutto negativo, dunque?

Il ritratto – stando sempre al Censis – è più complesso di così. Ci sentiamo coinvolti (tra i 70 e il 60%), nelle discussioni sui diritti civili, l’adozione per i single e le coppie omosessuali, il matrimonio egualitario tra persone dello stresso sesso e soprattutto lo ius soli, la cittadinanza italiana a chi nasce o studia in Italia). E manifestiamo un robusto senso di comunità (nelle realtà locali) e di spirito di assistenza e servizio pubblico (la diffusione del volontariato). Le donne, in queste dimensioni, hanno ruoli di primo piano.

L’Italia ha molte facce, insomma. Si può raccontare adeguatamente solo scavando tra contrasti e contraddizioni. Sapendo bene che le vecchie, rassicuranti mete piccolo-borghesi del benessere hanno lasciato il posto a un’infinita serie di timori e preoccupazioni. E ricordando comunque l’acuta riflessione di Ennio Flaiano: “In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”.

Siamo entrati davvero “nell’inverno del nostro scontento”?

Saranno utili, per capire meglio, anche le capacità delle casalinghe di Voghera, privilegiando il buon senso ed evitando le trappole del senso comune, cercando di ragionare sulle persone e non più sulla “ggente”?

Se ne parla al Teatro Sociale di Voghera, appena riaperto e subito intitolato a Valentino Garavani, famoso stilista (vogherese di nascita, appunto: forse di “casalinghe” ne aveva vestite poche, di belle e ricche donne del gran mondo invece tantissime). Per una “riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi”, con il contributo di personalità della cultura e dell’economia (Nando Pagnoncelli, Andrée Ruth Shammah, Maria Latella, Emanuela Scarpellini, Germano Lanzoni, protagonista della serie del “milanese imbruttito”, Camilla Sernagiotto e Andrea Zatti).

Il dibattito è organizzato da Assolombarda, tra le iniziative per “Pavia capitale della cultura d’impresa”. Per capire come stanno cambiando gli assetti sociali e culturali e come reagire allo sconforto diffuso sul nostro futuro. A individuare, cioè, quali scelte fare per non cedere alla generale crisi di nervi da desperate housewives (anche gli americani avevano il loro quasi equivalente delle nostre “casalinghe”). E insistere invece su prospettive, pur faticose, di ripresa e sviluppo.

C’è una virtù, che può essere d’aiuto: proprio quel buon senso pragmatico, molto lombardo, che Alberto Arbasino, inventore a metà degli anni Sessanta della definizione “casalinga di Voghera”, attribuiva alla sue zie, solide borghesi della provincia. “Ci salveranno le vecchie zie?”, d’altronde, s’era già chiesto, nei primi anni Cinquanta, Leo Longanesi, campione d’ironia dissacratoria, romagnolo, parlando di signore “tutte maestre”, “fusti di quercia dalle radici ben solide”, “fedeli gendarmi dello Stato”, “custodi dell’ordine classico” e inclini “all’avarizia come segno di decoro… atto di fede… norma pedagogica… e principio morale”. Pur parenti della “signorina Felicita” delle “piccole cose di pessimo giusto” messe in versi da Guido Gozzano (torinese, lui, però). E comunque, nel corso del Novecento, punto di riferimento borghese d’un paese che usciva dalla retorica fascista strapaesana della cosiddetta “Italietta” e s’inoltrava nella luccicante modernità della ricostruzione del dopoguerra, del “miracolo economico”, d’un mondo di stravolgenti cambiamenti politici, economici e sociali.

Eccola, l’Italia della Tv, dei quiz di Mike Buongiorno (“Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”) e di Mario Riva (“Il Musichiere”), delle pubblicità di “Carosello” e dei varietà del sabato sera con le fascinose Gemelle Kessler e le coreografie di Don Lurio. L’Italia dell’Oscar di moneta più stabile attribuito dal “Financial Times” alla lira nel 1959 e nel 1964. Del premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta, padre della “plastica che svecchiò l’Italia” ( titola il “Corriere della Sera” nel ricordare la ricorrenza di sessant’anni fa). E del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato nel 1960, simbolo metropolitano della modernità industriale. Ma anche l’Italia in cui, nel 1966, il Servizio Opinioni della Rai, in un’indagine sulla comprensibilità delle parole dette nei programmi del piccolo schermo, aveva individuato nelle “casalinghe di Voghera” il pubblico meno capace di capire termini come “leader” o “scrutinio”.

Stanno qui, forse, le radici dello stereotipo: donna di provincia, bassa scolarità, lavoro familiare o comunque poco qualificato, scarsa dimestichezza con i temi della politica e della società. Fastidioso, come tutti gli stereotipi. Eppur di successo. Con un richiamo polemico anche alla letteratura popolare di Carolina Invernizio, vogherese anche lei, lingua facile, emozioni a buon mercato.

Ci si ritornerà, negli anni Ottanta, con Beniamino Placido, puntuto e colto critico televisivo, per parlare su “la Repubblica” del pubblico che amava il salotto di Bruno Vespa.

Tutto un altro mondo, comunque, rispetto alle arbasiniane zie di Voghera.

Ne è passato, di tempo. Quelle casalinghe hanno attraversato la storia recente, hanno fatto buon viso alla durezza della crisi energetica del 1973 e ai primi tentativi di “austerità” (erano in piazza, con le loro famiglie, per le “domeniche a piedi”, cominciate nel dicembre di quell’anno, per limitare i consumi di benzina, il cui prezzo era schizzato al cielo). Hanno votato in maggioranza per dire “no” al tentativo clericale di abolire la legge sul divorzio, nel 1974. Hanno contributo, ognuna a suo modo, a tenere compatto il paese negli “anni di piombo” del terrorismo e dei durissimi conflitti sociali. E hanno respirato di soddisfazione quando sono arrivati gli anni Ottanta, soldi in tasca, consumi opulenti.

E oggi? Senza cedere alla nostalgia canaglia del bel tempo che fu, archiviate casalinghe vogheresi o “di Treviso” (evoluzione della categoria secondo “Sogni d’oro” di Nanni Moretti nel 1981), adesso vale la pena abbandonare etica ed estetica del “tinello” e dei salotti con i centrini ricamati sui tavolini e valorizzare, invece, tensioni e aspettative delle donne e delle ragazze di una provincia che sempre più spesso, anche in tempi incerti, si rivela tutt’altro che provinciale.

Donne decise, intraprendenti, capaci nei lavori dell’economia digitale, determinate nel rivendicare diritti e doveri, anche contro violenze e divari di genere. Donne ai vertici di istituzioni e imprese. Donne cuore della “onda fucsia” che ha animato le piazza italiane il 25 novembre, per dire basta alle violenze contro di loro e dunque anche contro democrazia e civiltà. Donne in cammino, felici di riconoscersi nel bel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Un domani faticoso e contrastato, ma necessario e possibile.

Forse, varrà la pena di rileggere bene, con occhi nuovi, anche il pragmatismo lombardo caro ad Arbasino.

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