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Addio patti di sindacato, migliora il “rating etico”

Addio ai patti di sindacato, rating etico migliore. E’ successo per la Pirelli: allo scioglimento del patto, alla fine di ottobre, Standard Etichs ha alzato l’outlook da “stabile” a “positivo” e ha fatto sapere che il rating etico dell’azienda potrebbe migliorare a “E+”. Trasparenza, efficienza, contendibilità indicano regole e criteri di gestione che hanno una relazione diretta, positiva con l’etica d’impresa, con il suo rispetto, cioè, dei valori che ispirano un mercato aperto, efficamente regolato. La buona cultura d’impresa, infatti, è anche questo: chiudere la stagione degli accordi tra pochi azionisti per mantenere lo “status quo” e aprire le porte a una governance migliore, secondo criteri appunto di mercato e di merito. Senza barriere protettive, il giudizio di chi investe su un’azienda dipende della sua redditività di breve ma anche e soprattutto di lungo periodo, dalla sua capacità di crescita, dal suo rispetto di una serie di valori che riguardano le persone, la sicurezza, la qualità, la sostenibilità. Una capacità che va giudicata. Su una platea aperta. E non chiusa da sistemi di relazione, accordi preferenziali, privilegi per alleati forti, scambi di protezioni e favori. Etica come trasparenza. Maggiore responsabilità. E consapevolezza di dover essere giudicati: premiati o sanzionati.

Il capitalismo italiano è stato, a lungo, un “capitalismo di relazione”. I “patti di sindacato”, una attitudine speciale del nostro Paese, sotto la regia di Mediobanca, hanno a lungo protetto le grandi imprese dal rischi di crisi e dalle invadenze di una “mano pubblica” che, dalle grandi banche alle industrie di Stato, si muoveva secondo criteri del tutto estranei alle competitività di mercato. Ma le hanno contemporaneamente ingessate. Sono stati una barriera contro le inefficienze e la concorrenza impropria dell’economia dipendente dalla cosiddetta “partitocrazia”, salvaguardando così quel poco di grande impresa privata che ancora restava. Ma hanno rallentato l’evoluzione di una vera e propria economia di mercato.

Adesso si è chiusa un’epoca. Toccherà agli storici, naturalmente, dare un giudizio sul nostro capitalismo familiare (spesso degradato nel familismo), sugli intrecci di potere conservativi, sulle relazioni d’affari talvolta ai limiti dell’incestuosità finanziaria. Su Mediobanca guidata da Enrico Cuccia, sul cosiddetto “salotto buono”, sulle “grandi famiglie”. Di certo, in attesa di farne storia critica e consapevole, oggi sappiamo che quella stagione è finalmente finita, dopo un lungo tramonto (avviato dalla crisi tra Fiat e Mediobanca e dall’uscita di Cesare Romiti dal ponte di comando di Torino). Oramai, insomma, non c’è più patto di sindacato che regga. In Rcs, in Generali, in Mediobanca, etc.

Si apre una stagione di economia di mercato. Di apertura delle imprese, di contendibilità. E si lavora per una vera e propria metamorfosi dal capitalismo familiare tradizionale a società aperte a nuovi investitori finanziari e industriali, a nuove relazioni tra l’azionariato (anche d’origine familiare) e la gestione manageriale. “Public company” comincia a essere espressione d’attualità, e soprattutto chiara indicazione di prospettiva.

Sono aperti, d’altronde, i mercati finanziari, ricchi di capitali in cerca di buona collocazione. E la globalizzazione porta in scena protagonisti disponibili a sostenere le buone imprese, che abbiano progetti concreti di crescita, di conquista di nuovi mercati di sbocco per prodotti e servizi, di migliore redditività nel corso del tempo (e non solo rapidamente speculativa). Un mondo che con i patti di sindacato non ha e non poteva avere più nulla a che fare.

Aumenta il numero di investitori internazionali che guardano anche alle imprese italiane (anche se purtroppo, come sistema Paese, l’Italia è fanalino di coda europeo per attrazione di investimenti esteri). In Pirelli, il 36% del capitale è nei portafogli di investitori istituzionali internazionali, attenti cioè ai rendimenti per un tempo lungo. E la quota è crescente: nel 2011 era il 27%. La presentazione, nei giorni scorsi, agli analisti finanziari, a Londra del piano sino al 2017, fondato su “industria e tecnologia”, “strategia premium” e rafforzamento sui mercati più dinamici, dal Far East alla Russia e all’America Latina, ha accentuato l’attenzione sulla società, Innovativa. Aperta. Responsabile. Pronta a dare conto ai suoi vecchi e nuovi azionisti. Efficiente e trasparente. Valore da creare. E valori da realizzare e da trasmettere. Scelta d’efficienza. E di cultura, appunto.

Addio ai patti di sindacato, rating etico migliore. E’ successo per la Pirelli: allo scioglimento del patto, alla fine di ottobre, Standard Etichs ha alzato l’outlook da “stabile” a “positivo” e ha fatto sapere che il rating etico dell’azienda potrebbe migliorare a “E+”. Trasparenza, efficienza, contendibilità indicano regole e criteri di gestione che hanno una relazione diretta, positiva con l’etica d’impresa, con il suo rispetto, cioè, dei valori che ispirano un mercato aperto, efficamente regolato. La buona cultura d’impresa, infatti, è anche questo: chiudere la stagione degli accordi tra pochi azionisti per mantenere lo “status quo” e aprire le porte a una governance migliore, secondo criteri appunto di mercato e di merito. Senza barriere protettive, il giudizio di chi investe su un’azienda dipende della sua redditività di breve ma anche e soprattutto di lungo periodo, dalla sua capacità di crescita, dal suo rispetto di una serie di valori che riguardano le persone, la sicurezza, la qualità, la sostenibilità. Una capacità che va giudicata. Su una platea aperta. E non chiusa da sistemi di relazione, accordi preferenziali, privilegi per alleati forti, scambi di protezioni e favori. Etica come trasparenza. Maggiore responsabilità. E consapevolezza di dover essere giudicati: premiati o sanzionati.

Il capitalismo italiano è stato, a lungo, un “capitalismo di relazione”. I “patti di sindacato”, una attitudine speciale del nostro Paese, sotto la regia di Mediobanca, hanno a lungo protetto le grandi imprese dal rischi di crisi e dalle invadenze di una “mano pubblica” che, dalle grandi banche alle industrie di Stato, si muoveva secondo criteri del tutto estranei alle competitività di mercato. Ma le hanno contemporaneamente ingessate. Sono stati una barriera contro le inefficienze e la concorrenza impropria dell’economia dipendente dalla cosiddetta “partitocrazia”, salvaguardando così quel poco di grande impresa privata che ancora restava. Ma hanno rallentato l’evoluzione di una vera e propria economia di mercato.

Adesso si è chiusa un’epoca. Toccherà agli storici, naturalmente, dare un giudizio sul nostro capitalismo familiare (spesso degradato nel familismo), sugli intrecci di potere conservativi, sulle relazioni d’affari talvolta ai limiti dell’incestuosità finanziaria. Su Mediobanca guidata da Enrico Cuccia, sul cosiddetto “salotto buono”, sulle “grandi famiglie”. Di certo, in attesa di farne storia critica e consapevole, oggi sappiamo che quella stagione è finalmente finita, dopo un lungo tramonto (avviato dalla crisi tra Fiat e Mediobanca e dall’uscita di Cesare Romiti dal ponte di comando di Torino). Oramai, insomma, non c’è più patto di sindacato che regga. In Rcs, in Generali, in Mediobanca, etc.

Si apre una stagione di economia di mercato. Di apertura delle imprese, di contendibilità. E si lavora per una vera e propria metamorfosi dal capitalismo familiare tradizionale a società aperte a nuovi investitori finanziari e industriali, a nuove relazioni tra l’azionariato (anche d’origine familiare) e la gestione manageriale. “Public company” comincia a essere espressione d’attualità, e soprattutto chiara indicazione di prospettiva.

Sono aperti, d’altronde, i mercati finanziari, ricchi di capitali in cerca di buona collocazione. E la globalizzazione porta in scena protagonisti disponibili a sostenere le buone imprese, che abbiano progetti concreti di crescita, di conquista di nuovi mercati di sbocco per prodotti e servizi, di migliore redditività nel corso del tempo (e non solo rapidamente speculativa). Un mondo che con i patti di sindacato non ha e non poteva avere più nulla a che fare.

Aumenta il numero di investitori internazionali che guardano anche alle imprese italiane (anche se purtroppo, come sistema Paese, l’Italia è fanalino di coda europeo per attrazione di investimenti esteri). In Pirelli, il 36% del capitale è nei portafogli di investitori istituzionali internazionali, attenti cioè ai rendimenti per un tempo lungo. E la quota è crescente: nel 2011 era il 27%. La presentazione, nei giorni scorsi, agli analisti finanziari, a Londra del piano sino al 2017, fondato su “industria e tecnologia”, “strategia premium” e rafforzamento sui mercati più dinamici, dal Far East alla Russia e all’America Latina, ha accentuato l’attenzione sulla società, Innovativa. Aperta. Responsabile. Pronta a dare conto ai suoi vecchi e nuovi azionisti. Efficiente e trasparente. Valore da creare. E valori da realizzare e da trasmettere. Scelta d’efficienza. E di cultura, appunto.

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