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Agenda delle buone notizie: l’industria sostenibile cresce e traina ancora la ripresa dell’economia

Agenda delle buone notizie, un’agenda “anticatastrofista”, per usare la brillante categoria analitica de “Il Foglio”, un po’ stanco della tendenza italiota alle facili lamentazioni. Ecco la prima notizia: il Master in Business Administration della SDA Bocconi di Milano è tra i primi sei al mondo, in base alla classifica del “Financial Times”, superando mostri sacri come Yale, Mit di Boston, Berkeley ma anche la London Business School e la Hec di Parigi. Ed ecco la seconda buona notizia: quattro grandi imprese italiane, Brembo, Intesa Sanpaolo, Italgas e Pirelli sono inserite nella lista mondiale delle 294 aziende con ‘rating A’ sulla lotta al cambiamento climatico, secondo l’organizzazione no profit Cdp (Carbon Disclosure Project): una conferma della sapiente strategia di chi ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale una leva di crescita (ne fanno fede anche le posizioni di vertice raggiunte nel Dow Jones Sustainability Index e nel Sustainability Yearbook ‘23 di S&P Global).

La terza buona notizia: secondo la Commissione Ue l’Italia crescerà nel 2023 dello 0,8%, più di Francia e Germania e comunque meglio dello 0,6% previsto poco tempo fa dal Fondo Monetario Internazionale.

La recessione, tanto temuta, non è più, adesso, d’attualità, come confermano pure le valutazioni della Banca d’Italia e di Confindustria. Dopo la crescita record dell’11% nel biennio post Covid ‘21-‘22, l’economia italiana va ancora avanti, trainata dalle imprese, quelle manifatturiere innanzitutto, che anche in tempi difficili hanno investito, retto le sfide dei mercati globali e della ricomposizione delle catene del valore, innovato prodotti e processi grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale e ai criteri di gestione data driven, usato bene le leve fiscali per stimolare l’Industria 4.0, creato lavoro e valore (profitti per gli azionisti, andamenti di Borsa per gli investitori) con una sapiente strategia che ha fatto perno sui valori sociali e, appunto sulla sostenibilità (come documentano i rapporti di Symbola sulla green economy).

Ecco dunque una sintesi delle tre buone notizie. C’è un sistema formativo d’eccellenza su cui fare leva (anche se restano i limiti d’una mano d’opera poco qualificata, con appena il 20% di laureati tra gli italiani tra i 25 e i 64 anni, contro il 32,8% della media Ue). Ci sono ottime imprese che sanno muoversi bene nella twin transition ambientale e digitale, rafforzando i propri asset di competitività. E il dinamismo industriale continua a fare, nonostante tutto, da motore di sviluppo.

Guardiamo meglio all’economia reale, dunque. E a un altro dato esemplare sulla crescita: nel ‘22 l’industria manifatturiera, secondo il Rapporto Prometeia-Intesa San Paolo, ha avuto ricavi per 1.200 miliardi, con un aumento di 164 miliardi rispetto all’anno precedente, anche grazie all’export che supera i 600 miliardi (“Il Sole24Ore”, 10 febbraio), con l’elettronica, il sistema moda e la farmaceutica a fare da traino. Anche le macchine utensili e robotica tirano la volata, come ricorda Marco Taisch, professore al Politecnico di Milano e autorevole esperto di Industria 4.0: il settore dell’automazione industriale, secondo i dati Ucimu (l’associazione di categoria) ha chiuso il ‘22 con una produzione superiore ai 7,2 miliardi, con un incremento del 14,6% sul ‘21 e si prepara a un ‘23 comunque positivo: hanno tirato bene il mercato interno (+27%: segno di una continuazione dei processi di innovazione dell’industria italiana) sia il mercato internazionale.

Ci sono anche altri dati su cui riflettere. Nel 2022, nonostante lo shock energetico, la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8% (dopo un rimbalzo del 12,8% nel 2021), mentre le manifatture di Germania e Francia hanno sofferto di più, con livelli produttivi ancora inferiori, a fine ‘22, al periodo pre-Covid. “La più robusta dinamica italiana è confermata dai dati dell’export di beni, in crescita più che nelle altre due economie e più della domanda mondiale”, rileva l’economista Sergio De Nardis su “InPiù” (13 febbraio).

Il boom dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, è stato attenuato dalla capacità di adattamento del settore, con un calo dell’intensità energetica: “Modifiche di composizione (contrazione dei comparti energivori), sforzi di risparmio e, presumibilmente, un’elasticità di sostituzione tra fonti energetiche più elevata di quel che si presumeva hanno consentito l’aggiustamento”, commenta De Nardis.

C’è dell’altro: una crescita di qualità e di efficienza produttiva. “Tra il 2007 e il 2020 – calcola ancora De Nardis – la nostra manifattura ha perso circa 112.000 imprese, quasi un quarto della sua iniziale consistenza. Un processo continuo e doloroso di erosione della base produttiva, non riscontrabile nelle altre economie”. Ma c’è stato anche “un mutamento in meglio”: la diminuzione del numero dei produttori “si è accompagnato all’innalzamento della produttività del settore per lo spostamento di risorse dalle unità peggiori alle più efficienti”. La conferma? Nell’aumento della quota di imprese esportatrici, caratterizzate da più elevata produttività, sul totale dei produttori. Una quota passata in un decennio dal 20 al 23%, mentre in Francia è rimasta stabile e in Germania si è ridotta.

Insiste De Nardis: “La resilienza manifatturiera ha dunque in Italia una coloritura specifica. E’ frutto di un aggiustamento strutturale di lungo periodo, tuttora in corso. Per questo motivo è sbagliato dire che i buoni risultati sono dovuti alla solita piccola pattuglia di imprese “super”, con una restante massa arretrata. Non è mai stata un’immagine adatta, meno che mai ora: è l’intero settore che si muove”.

Dall’analisi dei dati finora considerati sull’industria in generale, su alcuni settori (robotica e macchine utensili) e sulle scelte di sostenibilità come caratteristica produttiva e competitiva si ricava un’altra costante: una idea diffusa dell’innovazione non solo e non tanto come automazione high tech, ma come pensiero generale che investe prodotti e processi produttivi, materiali, servizi, linguaggi, criteri di governance e relazioni industriali. E che si traduce in un paio di formule di sintesi: la “cultura politecnica” delle nostre imprese, la loro originale inclinazione all’“umanesimo industriale”.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismi, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità proprio in nome della competitività del sistema Paese, con una lungimirante politica economica e industriale di respiro europeo.

L’orizzonte è quello di un’Italia attiva, produttiva, capace di futuro. Da valorizzare.

(foto Getty Images)

Agenda delle buone notizie, un’agenda “anticatastrofista”, per usare la brillante categoria analitica de “Il Foglio”, un po’ stanco della tendenza italiota alle facili lamentazioni. Ecco la prima notizia: il Master in Business Administration della SDA Bocconi di Milano è tra i primi sei al mondo, in base alla classifica del “Financial Times”, superando mostri sacri come Yale, Mit di Boston, Berkeley ma anche la London Business School e la Hec di Parigi. Ed ecco la seconda buona notizia: quattro grandi imprese italiane, Brembo, Intesa Sanpaolo, Italgas e Pirelli sono inserite nella lista mondiale delle 294 aziende con ‘rating A’ sulla lotta al cambiamento climatico, secondo l’organizzazione no profit Cdp (Carbon Disclosure Project): una conferma della sapiente strategia di chi ha fatto della sostenibilità ambientale e sociale una leva di crescita (ne fanno fede anche le posizioni di vertice raggiunte nel Dow Jones Sustainability Index e nel Sustainability Yearbook ‘23 di S&P Global).

La terza buona notizia: secondo la Commissione Ue l’Italia crescerà nel 2023 dello 0,8%, più di Francia e Germania e comunque meglio dello 0,6% previsto poco tempo fa dal Fondo Monetario Internazionale.

La recessione, tanto temuta, non è più, adesso, d’attualità, come confermano pure le valutazioni della Banca d’Italia e di Confindustria. Dopo la crescita record dell’11% nel biennio post Covid ‘21-‘22, l’economia italiana va ancora avanti, trainata dalle imprese, quelle manifatturiere innanzitutto, che anche in tempi difficili hanno investito, retto le sfide dei mercati globali e della ricomposizione delle catene del valore, innovato prodotti e processi grazie all’uso dell’Intelligenza Artificiale e ai criteri di gestione data driven, usato bene le leve fiscali per stimolare l’Industria 4.0, creato lavoro e valore (profitti per gli azionisti, andamenti di Borsa per gli investitori) con una sapiente strategia che ha fatto perno sui valori sociali e, appunto sulla sostenibilità (come documentano i rapporti di Symbola sulla green economy).

Ecco dunque una sintesi delle tre buone notizie. C’è un sistema formativo d’eccellenza su cui fare leva (anche se restano i limiti d’una mano d’opera poco qualificata, con appena il 20% di laureati tra gli italiani tra i 25 e i 64 anni, contro il 32,8% della media Ue). Ci sono ottime imprese che sanno muoversi bene nella twin transition ambientale e digitale, rafforzando i propri asset di competitività. E il dinamismo industriale continua a fare, nonostante tutto, da motore di sviluppo.

Guardiamo meglio all’economia reale, dunque. E a un altro dato esemplare sulla crescita: nel ‘22 l’industria manifatturiera, secondo il Rapporto Prometeia-Intesa San Paolo, ha avuto ricavi per 1.200 miliardi, con un aumento di 164 miliardi rispetto all’anno precedente, anche grazie all’export che supera i 600 miliardi (“Il Sole24Ore”, 10 febbraio), con l’elettronica, il sistema moda e la farmaceutica a fare da traino. Anche le macchine utensili e robotica tirano la volata, come ricorda Marco Taisch, professore al Politecnico di Milano e autorevole esperto di Industria 4.0: il settore dell’automazione industriale, secondo i dati Ucimu (l’associazione di categoria) ha chiuso il ‘22 con una produzione superiore ai 7,2 miliardi, con un incremento del 14,6% sul ‘21 e si prepara a un ‘23 comunque positivo: hanno tirato bene il mercato interno (+27%: segno di una continuazione dei processi di innovazione dell’industria italiana) sia il mercato internazionale.

Ci sono anche altri dati su cui riflettere. Nel 2022, nonostante lo shock energetico, la produzione manifatturiera è aumentata dello 0,8% (dopo un rimbalzo del 12,8% nel 2021), mentre le manifatture di Germania e Francia hanno sofferto di più, con livelli produttivi ancora inferiori, a fine ‘22, al periodo pre-Covid. “La più robusta dinamica italiana è confermata dai dati dell’export di beni, in crescita più che nelle altre due economie e più della domanda mondiale”, rileva l’economista Sergio De Nardis su “InPiù” (13 febbraio).

Il boom dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, è stato attenuato dalla capacità di adattamento del settore, con un calo dell’intensità energetica: “Modifiche di composizione (contrazione dei comparti energivori), sforzi di risparmio e, presumibilmente, un’elasticità di sostituzione tra fonti energetiche più elevata di quel che si presumeva hanno consentito l’aggiustamento”, commenta De Nardis.

C’è dell’altro: una crescita di qualità e di efficienza produttiva. “Tra il 2007 e il 2020 – calcola ancora De Nardis – la nostra manifattura ha perso circa 112.000 imprese, quasi un quarto della sua iniziale consistenza. Un processo continuo e doloroso di erosione della base produttiva, non riscontrabile nelle altre economie”. Ma c’è stato anche “un mutamento in meglio”: la diminuzione del numero dei produttori “si è accompagnato all’innalzamento della produttività del settore per lo spostamento di risorse dalle unità peggiori alle più efficienti”. La conferma? Nell’aumento della quota di imprese esportatrici, caratterizzate da più elevata produttività, sul totale dei produttori. Una quota passata in un decennio dal 20 al 23%, mentre in Francia è rimasta stabile e in Germania si è ridotta.

Insiste De Nardis: “La resilienza manifatturiera ha dunque in Italia una coloritura specifica. E’ frutto di un aggiustamento strutturale di lungo periodo, tuttora in corso. Per questo motivo è sbagliato dire che i buoni risultati sono dovuti alla solita piccola pattuglia di imprese “super”, con una restante massa arretrata. Non è mai stata un’immagine adatta, meno che mai ora: è l’intero settore che si muove”.

Dall’analisi dei dati finora considerati sull’industria in generale, su alcuni settori (robotica e macchine utensili) e sulle scelte di sostenibilità come caratteristica produttiva e competitiva si ricava un’altra costante: una idea diffusa dell’innovazione non solo e non tanto come automazione high tech, ma come pensiero generale che investe prodotti e processi produttivi, materiali, servizi, linguaggi, criteri di governance e relazioni industriali. E che si traduce in un paio di formule di sintesi: la “cultura politecnica” delle nostre imprese, la loro originale inclinazione all’“umanesimo industriale”.

Nella stagione difficile delle crisi e delle opportunità, senza indulgere a facili ottimismi, l’industria italiana ha dunque ottime carte da giocare, in termini di sviluppo. Ed è responsabilità delle forze politiche e degli attori sociali non perdere l’opportunità proprio in nome della competitività del sistema Paese, con una lungimirante politica economica e industriale di respiro europeo.

L’orizzonte è quello di un’Italia attiva, produttiva, capace di futuro. Da valorizzare.

(foto Getty Images)

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