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Al di là dei rischi e delle paure quotidiane ricostruire fiducia su istituzioni e imprese

“Nessuno può tornare indietro e ricominciare da capo, ma chiunque può andare avanti e decidere il finale”. Affidarsi alla saggezza di Karl Barth, teologo svizzero, acuta mente critica del Novecento, aiuta a trovare strade possibili di comportamento in una “società del rischio” (Ulrich Beck) che amplifica la crescente sensazione di incertezza e di fragilità che continua a ferire la nostra condizione umana. Emergenze ambientali, pandemia, cybercrime invasivo, violenze razziali, ma anche tensioni economiche sull’energia e sulle materie prime, sui microchip, sul lavoro e sui prezzi acuiscono la portata dei problemi aperti. E aggravano la nostra sensazione di insicurezza, fanno crescere l’ansia personale e sociale di fronte alle ombre del futuro. Ecco il punto di Barth. Decidere il finale come? Con quali scelte? E come fare vivere il riformismo responsabile, in tempi di crisi radicali e metamorfosi?
Guardiamo, innanzitutto, lo stato delle cose. La globalizzazione estrema ha mostrato da tempo i suoi limiti (“Left Behind” era il titolo di un’efficace copertina di “The Economist” dell’ottobre 2017, già quattro anni fa, per illustrare una documentata inchiesta su persone e luoghi “hurt by globalisation”, colpiti dolorosamente dalle diseguaglianze crescenti e dalle speculazioni della finanza rapace internazionale). E lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie digitali ha travolto gli assetti tradizionali di produzione, consumo, distribuzione del reddito. Vita civile, ambiente, mercati ne risentono pesantemente. E il disagio sociale crescente turba profondamente anche gli equilibri politici, soprattutto nelle sensibili democrazie liberali.

A che rischi andiamo incontro? Le cronache di questi mesi controversi ci offrono alcune delle tante rappresentazioni. La pandemia da Covid19, che ancora dura, pur ridimensionata dalla diffusione dei vaccini e di terapie finalmente efficaci. Le devastazioni ambientali, determinate dalle scelte inquinanti dell’aria e delle acque. E il proliferare del cybercrime, che rende insicure e fragili tutte le reti di connessione che riguardano l’economia, i trasporti, le comunicazioni, i mille aspetti della vita quotidiana.
Eccola, la “società del rischio”. Con fenomeni aggravati dalla crescente intolleranza per i tanti aspetti dei divari e delle diseguaglianze di genere, generazione, religione, razza, cultura.
A rendere il quadro più cupo concorrono le nuove dimensioni di quella che “The Economist” ha definito la “shortage economy” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa), un’economia della scarsità che riguarda le fonti energetiche (con impennata dei prezzi del petrolio e del gas) e una serie di materie prime, ma anche la componentistica essenziale di parte ampia dell’industria e dei servizi (i microchip) e, nel cambiamento radicale degli assetti produttivi, anche la mano d’opera qualificata e i mezzi di trasporto marittimo (il sovraffollamento dei porti del Pacifico, con le gigantesche navi porta-container in rada a Los Angeles, ferme perché non riescono a caricare e scaricare, ne è oggi immagine esemplare, dopo quella del luglio scorso del blocco del Canale di Suez).
“Questo eterno presente non ci fa pensare al futuro”, nota Giuseppe De Rita (“Corriere della Sera”, 23 ottobre), rilevando criticamente il nostro chiudersi nel piccolo recinto delle paure e degli interessi privati, familisti, egoisticamente localisti e nazionalisti.
Eppure, proprio la crisi da pandemia e recessione ci mostra come sia necessario uscire dall’angustia degli egoismi particolari e partecipare alla scommessa ragionevole su un migliore futuro.

La collaborazione internazionale tra scienziati, centri di ricerca pubblici e privati, imprese e, naturalmente, governi ha dato all’umanità, in tempi molto brevi, i vaccini, mettendo ben a frutto una lunga stagione di ricerche di base su biologia, genomica, farmaceutica. Ed è chiaro come su questa strada sia necessario continuare ad andare: la salute è un bene pubblico fondamentale, le sinergie tra istituzioni e imprese può fare moltissimo.
Gli Stati, i governi e le autorità monetarie internazionali, che hanno messo da canto l’ortodossia ideologica dell’austerità e promosso spesa pubblica contro la caduta dei redditi e per investimenti di sviluppo, hanno aperto una nuova stagione economica. Il “Recovery Plan” dell’ Ue centrato su green economy e digital economy, pensando soprattutto alla Next Generation, è una delle scelte migliori in questa direzione. Ed è un’Europa generosa, lungimirante e impegnata sui progetti di sviluppo sostenibile cui continuare a guardare con fiducia. Il Governo Draghi, in Italia, ne è protagonista di grande rilievo.
Eccola, la strada da seguire. Un riformismo lungimirante e sensibile. Una ricostruzione di fiducia grazie a una capacità di governo competente e autorevole, attento agli interessi generali.
Decidere il finale, dunque. Alla Barth. Con consapevolezza della fragilità, ma senza cedere alle paure, alle emozioni irrazionali, al pensiero magico o agli egoismi di corporazione e di comunità chiuse, escludenti, gelose d’un piccolo o grande privilegio. E facendosi carico, con senso di responsabilità, dei progetti e dei costi di un futuro migliore. “I care” era un’espressione cara ad alcune delle personalità che segnano ancora positivamente il nostro tempo. Don Milani, per esempio. O l’ex presidente degli Usa Obama. “I care” e cioè ho a cuore, mi faccio carico di un problema, mi prendo cura delle persone con cui entro in rapporto, per “simpatia” (sun e pathos, affrontare insieme una tensione, un dolore) e solidarietà. Per spirito di comunità. Una buona indicazione.

“Nessuno può tornare indietro e ricominciare da capo, ma chiunque può andare avanti e decidere il finale”. Affidarsi alla saggezza di Karl Barth, teologo svizzero, acuta mente critica del Novecento, aiuta a trovare strade possibili di comportamento in una “società del rischio” (Ulrich Beck) che amplifica la crescente sensazione di incertezza e di fragilità che continua a ferire la nostra condizione umana. Emergenze ambientali, pandemia, cybercrime invasivo, violenze razziali, ma anche tensioni economiche sull’energia e sulle materie prime, sui microchip, sul lavoro e sui prezzi acuiscono la portata dei problemi aperti. E aggravano la nostra sensazione di insicurezza, fanno crescere l’ansia personale e sociale di fronte alle ombre del futuro. Ecco il punto di Barth. Decidere il finale come? Con quali scelte? E come fare vivere il riformismo responsabile, in tempi di crisi radicali e metamorfosi?
Guardiamo, innanzitutto, lo stato delle cose. La globalizzazione estrema ha mostrato da tempo i suoi limiti (“Left Behind” era il titolo di un’efficace copertina di “The Economist” dell’ottobre 2017, già quattro anni fa, per illustrare una documentata inchiesta su persone e luoghi “hurt by globalisation”, colpiti dolorosamente dalle diseguaglianze crescenti e dalle speculazioni della finanza rapace internazionale). E lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie digitali ha travolto gli assetti tradizionali di produzione, consumo, distribuzione del reddito. Vita civile, ambiente, mercati ne risentono pesantemente. E il disagio sociale crescente turba profondamente anche gli equilibri politici, soprattutto nelle sensibili democrazie liberali.

A che rischi andiamo incontro? Le cronache di questi mesi controversi ci offrono alcune delle tante rappresentazioni. La pandemia da Covid19, che ancora dura, pur ridimensionata dalla diffusione dei vaccini e di terapie finalmente efficaci. Le devastazioni ambientali, determinate dalle scelte inquinanti dell’aria e delle acque. E il proliferare del cybercrime, che rende insicure e fragili tutte le reti di connessione che riguardano l’economia, i trasporti, le comunicazioni, i mille aspetti della vita quotidiana.
Eccola, la “società del rischio”. Con fenomeni aggravati dalla crescente intolleranza per i tanti aspetti dei divari e delle diseguaglianze di genere, generazione, religione, razza, cultura.
A rendere il quadro più cupo concorrono le nuove dimensioni di quella che “The Economist” ha definito la “shortage economy” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa), un’economia della scarsità che riguarda le fonti energetiche (con impennata dei prezzi del petrolio e del gas) e una serie di materie prime, ma anche la componentistica essenziale di parte ampia dell’industria e dei servizi (i microchip) e, nel cambiamento radicale degli assetti produttivi, anche la mano d’opera qualificata e i mezzi di trasporto marittimo (il sovraffollamento dei porti del Pacifico, con le gigantesche navi porta-container in rada a Los Angeles, ferme perché non riescono a caricare e scaricare, ne è oggi immagine esemplare, dopo quella del luglio scorso del blocco del Canale di Suez).
“Questo eterno presente non ci fa pensare al futuro”, nota Giuseppe De Rita (“Corriere della Sera”, 23 ottobre), rilevando criticamente il nostro chiudersi nel piccolo recinto delle paure e degli interessi privati, familisti, egoisticamente localisti e nazionalisti.
Eppure, proprio la crisi da pandemia e recessione ci mostra come sia necessario uscire dall’angustia degli egoismi particolari e partecipare alla scommessa ragionevole su un migliore futuro.

La collaborazione internazionale tra scienziati, centri di ricerca pubblici e privati, imprese e, naturalmente, governi ha dato all’umanità, in tempi molto brevi, i vaccini, mettendo ben a frutto una lunga stagione di ricerche di base su biologia, genomica, farmaceutica. Ed è chiaro come su questa strada sia necessario continuare ad andare: la salute è un bene pubblico fondamentale, le sinergie tra istituzioni e imprese può fare moltissimo.
Gli Stati, i governi e le autorità monetarie internazionali, che hanno messo da canto l’ortodossia ideologica dell’austerità e promosso spesa pubblica contro la caduta dei redditi e per investimenti di sviluppo, hanno aperto una nuova stagione economica. Il “Recovery Plan” dell’ Ue centrato su green economy e digital economy, pensando soprattutto alla Next Generation, è una delle scelte migliori in questa direzione. Ed è un’Europa generosa, lungimirante e impegnata sui progetti di sviluppo sostenibile cui continuare a guardare con fiducia. Il Governo Draghi, in Italia, ne è protagonista di grande rilievo.
Eccola, la strada da seguire. Un riformismo lungimirante e sensibile. Una ricostruzione di fiducia grazie a una capacità di governo competente e autorevole, attento agli interessi generali.
Decidere il finale, dunque. Alla Barth. Con consapevolezza della fragilità, ma senza cedere alle paure, alle emozioni irrazionali, al pensiero magico o agli egoismi di corporazione e di comunità chiuse, escludenti, gelose d’un piccolo o grande privilegio. E facendosi carico, con senso di responsabilità, dei progetti e dei costi di un futuro migliore. “I care” era un’espressione cara ad alcune delle personalità che segnano ancora positivamente il nostro tempo. Don Milani, per esempio. O l’ex presidente degli Usa Obama. “I care” e cioè ho a cuore, mi faccio carico di un problema, mi prendo cura delle persone con cui entro in rapporto, per “simpatia” (sun e pathos, affrontare insieme una tensione, un dolore) e solidarietà. Per spirito di comunità. Una buona indicazione.

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