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Ambiente, la Ue vara un piano ambizioso, da applicare senza distruggere l’industria

Incendi devastanti. E rovinose alluvioni, dopo piogge e grandinate violente. Sono oramai avvenimenti che segnano drammaticamente la nostra attualità e saranno purtroppo sempre più frequenti in futuro. I cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale ne sono la causa principale. “The Economist”, con la forza del buon giornalismo, li mette al centro dell’inchiesta di copertina di questa settimana, titolando “No safe place” per dire che tutti siamo in pericolo, nello scenario del “3°C future”, di un riscaldamento della Terra di 3 gradi maggiore rispetto all’era pre-industriale (ci siamo sempre più vicini: il 2021 rischia di essere l’anno più caldo del secolo). L’immagine dei due pinguini spettatori, nel bel mezzo dell’oceano, degli spettacoli Tv sui roghi di foreste e città è esemplare, grazie anche alla forza di un’efficace ironia molto anglosassone.

“I fenomeni estremi delle alluvioni” (in Germania e in Cina, le ultime) e degli incendi (in Canada, in Australia e, adesso, qui da noi in Sardegna) non spariranno, ma “gli adattamenti economici e sociali potrebbero fare diminuire il loro impatto”, scrive il settimanale britannico, indicando anche cosa fare: tagliare le emissioni di CO2, certo, ma soprattutto investire per cambiare i meccanismi di produzione e di consumo (trasporti, condizioni di vita urbane, energie rinnovabili), rendendo concreti di accordi di Parigi sulla sostenibilità e con un impegno dei paesi più ricchi a dare una mano, in questa prospettiva, ai paesi più poveri e fragili.

“The Economist” riflette l’intelligenza di un paio di secoli di buon pragmatismo, con scarse concessioni all’estremismo ideologico (vale la pena leggere, su un altro tema, anche l’editoriale, pubblicato sullo stesso numero, sulle ricerche neurologiche e l’etica scientifica, ricordando che le democrazie liberali non devono cedere il passo alla Cina sulle neuroscienze). E le indicazioni di “The Economist” possono essere un buon viatico nelle elaborazioni delle posizioni Ue in vista della Cop 26 (la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, presieduta da Italia e Regno Unito) in programma in novembre a Glasgow, in Scozia. Conferma il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Vogliamo raggiungere un accordo ambizioso, che coinvolga le economie ricche e quelle emergenti”.
L’Accordo di Parigi sul clima del 2015 aveva già indicato il contenimento dell’aumento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C, a 1,5°C. Ma nel lungo periodo. Una scelta strategica importante. Seguita però da incertezze, carenze e veri e propri disimpegni, come quello degli Usa nella stagione avventurosa della presidenza Trump. Adesso il tema torna sul tavolo delle strategie politiche responsabili, grazie anche al radicale cambiamento di rotta della presidenza Biden, più sensibile ai temi ambientali.

La Ue, a Bruxelles, si muove con grande determinazione. E il Green Deal annunciato nelle scorse settimane dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen indica obiettivi ambiziosi: riduzione del 100% delle emissioni di CO2 (la “neutralità carbonica”) entro il 2050, con un obiettivo intermedio del taglio del 55% nel 2030 (rispetto ai livelli del 1990); premiare la decarbonizzazione; introdurre una tariffa sui beni extra Ue prodotti con bassi standard ambientali (nel mirino soprattutto le importazioni da Cina e India); tassare i carburanti in base al contenuto energetico; piantare nei paesi Ue 3 miliardi di alberi, per assorbire grandi quantità di anidride carbonica; attivare un fondo sociale da 72 miliardi per co-finanziare incentivi nazionali di altrettanto peso per la green economy.
E’ un piano quanto mai impegnativo. Che viene incontro alla sensibilità delle opinioni pubbliche europee sui temi climatici. E che, nell’attuazione rapida prevista sai responsabili Ue, ha bisogno di una serie di articolazioni.
C’è un tema di politica internazionale, per cercare di convincere le grandi economie manifatturiere e i produttori di energia (Cina, India e altri paesi industriali nel Far East ma anche i paesi arabi e il Brasile) ad accelerare le trasformazioni industriali, mettendo da canto gli impianti a carbone e l’uso massiccio degli altri combustibili fossili (il petrolio, il gas), usando anche le armi della tassazione (la “Cbam”, Carbon border adjustment mechanism, la cosiddetta “tassa sul carbonio”, apprezzata anche da grandi economisti come Paul Krugman, Nobel per l’economia nel 2008: “Lo sforzo di Usa e Ue rischia di essere vanificato, la Terra sta morendo, punire gli irresponsabili”, “La Stampa”, 23 luglio 2021).

E c’è una transizione da definire, per non mettere in ginocchio l’industria europea, a cominciare da quella dell’auto, fortemente colpita dal blocco delle vendite di automobili non elettriche nel 2035 (300mila addetti diretti nel settore automotive in Italia) ma anche quella dei trasporti, del cemento, dell’acciaio e dell’alluminio.
“Ci sono margini di manovra”, assicura Bruxelles. Ci sono misure da prendere, all’interno del Recovery Plan, per la transizione energetica strettamente legata a quella digitale. C’è insomma da definire una nuova politica industriale europea che premi le imprese che hanno già investito sulla sostenibilità e stimolare quelle che ancora non lo hanno fatto o si sono mosse solo parzialmente. E’ una sfida importante, urgente, necessaria, che impegna il governo e le parti sociali, imprese e sindacati. E che ha bisogno di grande attenzione culturale e politica, di informazione attenta e ben documentata, di sensibilità generale da parte di un’opinione pubblica che deve ragionare, capire, condividere obiettivi (come la parte più ampia e responsabile degli italiani sta facendo contro la pandemia, nonostante le fake news e la propaganda dei no vax).
“E’ bene muoversi presto. La transizione ecologica non è un giro di giostra. Sarà necessario convertire e cambiare modelli e lavori. E tutto ciò richiede scelte anche dolorose, ma necessarie. E governare la transizione in maniera ordinata, riducendo i profili di rischio, aumentando l’occupazione e stimolando l’imprenditoria”, sostiene Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel (“Il Sole24Ore”, 17 luglio).

Ci sono, proprio in Italia, imprese all’avanguardia. 432mila aziende dell’industria e dei servizi hanno investito, tra il 2015 e il 2019, in prodotti e tecnologie green, documenta uno studio recente di Symbola e Unioncamere. E oggi, dunque, “il Next Generation Ue e quindi il Pnrr – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – sono cruciali per affrontare la crisi e costruire un futuro migliore per l’Italia e l’Europa. La transizione verde è il suo cuore, insieme alla coesione sociale e all’innovazione digitale”. In altri termini, un “Safe place”, per quanto difficile, è ancora possibile.

Incendi devastanti. E rovinose alluvioni, dopo piogge e grandinate violente. Sono oramai avvenimenti che segnano drammaticamente la nostra attualità e saranno purtroppo sempre più frequenti in futuro. I cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale ne sono la causa principale. “The Economist”, con la forza del buon giornalismo, li mette al centro dell’inchiesta di copertina di questa settimana, titolando “No safe place” per dire che tutti siamo in pericolo, nello scenario del “3°C future”, di un riscaldamento della Terra di 3 gradi maggiore rispetto all’era pre-industriale (ci siamo sempre più vicini: il 2021 rischia di essere l’anno più caldo del secolo). L’immagine dei due pinguini spettatori, nel bel mezzo dell’oceano, degli spettacoli Tv sui roghi di foreste e città è esemplare, grazie anche alla forza di un’efficace ironia molto anglosassone.

“I fenomeni estremi delle alluvioni” (in Germania e in Cina, le ultime) e degli incendi (in Canada, in Australia e, adesso, qui da noi in Sardegna) non spariranno, ma “gli adattamenti economici e sociali potrebbero fare diminuire il loro impatto”, scrive il settimanale britannico, indicando anche cosa fare: tagliare le emissioni di CO2, certo, ma soprattutto investire per cambiare i meccanismi di produzione e di consumo (trasporti, condizioni di vita urbane, energie rinnovabili), rendendo concreti di accordi di Parigi sulla sostenibilità e con un impegno dei paesi più ricchi a dare una mano, in questa prospettiva, ai paesi più poveri e fragili.

“The Economist” riflette l’intelligenza di un paio di secoli di buon pragmatismo, con scarse concessioni all’estremismo ideologico (vale la pena leggere, su un altro tema, anche l’editoriale, pubblicato sullo stesso numero, sulle ricerche neurologiche e l’etica scientifica, ricordando che le democrazie liberali non devono cedere il passo alla Cina sulle neuroscienze). E le indicazioni di “The Economist” possono essere un buon viatico nelle elaborazioni delle posizioni Ue in vista della Cop 26 (la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, presieduta da Italia e Regno Unito) in programma in novembre a Glasgow, in Scozia. Conferma il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Vogliamo raggiungere un accordo ambizioso, che coinvolga le economie ricche e quelle emergenti”.
L’Accordo di Parigi sul clima del 2015 aveva già indicato il contenimento dell’aumento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C, a 1,5°C. Ma nel lungo periodo. Una scelta strategica importante. Seguita però da incertezze, carenze e veri e propri disimpegni, come quello degli Usa nella stagione avventurosa della presidenza Trump. Adesso il tema torna sul tavolo delle strategie politiche responsabili, grazie anche al radicale cambiamento di rotta della presidenza Biden, più sensibile ai temi ambientali.

La Ue, a Bruxelles, si muove con grande determinazione. E il Green Deal annunciato nelle scorse settimane dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen indica obiettivi ambiziosi: riduzione del 100% delle emissioni di CO2 (la “neutralità carbonica”) entro il 2050, con un obiettivo intermedio del taglio del 55% nel 2030 (rispetto ai livelli del 1990); premiare la decarbonizzazione; introdurre una tariffa sui beni extra Ue prodotti con bassi standard ambientali (nel mirino soprattutto le importazioni da Cina e India); tassare i carburanti in base al contenuto energetico; piantare nei paesi Ue 3 miliardi di alberi, per assorbire grandi quantità di anidride carbonica; attivare un fondo sociale da 72 miliardi per co-finanziare incentivi nazionali di altrettanto peso per la green economy.
E’ un piano quanto mai impegnativo. Che viene incontro alla sensibilità delle opinioni pubbliche europee sui temi climatici. E che, nell’attuazione rapida prevista sai responsabili Ue, ha bisogno di una serie di articolazioni.
C’è un tema di politica internazionale, per cercare di convincere le grandi economie manifatturiere e i produttori di energia (Cina, India e altri paesi industriali nel Far East ma anche i paesi arabi e il Brasile) ad accelerare le trasformazioni industriali, mettendo da canto gli impianti a carbone e l’uso massiccio degli altri combustibili fossili (il petrolio, il gas), usando anche le armi della tassazione (la “Cbam”, Carbon border adjustment mechanism, la cosiddetta “tassa sul carbonio”, apprezzata anche da grandi economisti come Paul Krugman, Nobel per l’economia nel 2008: “Lo sforzo di Usa e Ue rischia di essere vanificato, la Terra sta morendo, punire gli irresponsabili”, “La Stampa”, 23 luglio 2021).

E c’è una transizione da definire, per non mettere in ginocchio l’industria europea, a cominciare da quella dell’auto, fortemente colpita dal blocco delle vendite di automobili non elettriche nel 2035 (300mila addetti diretti nel settore automotive in Italia) ma anche quella dei trasporti, del cemento, dell’acciaio e dell’alluminio.
“Ci sono margini di manovra”, assicura Bruxelles. Ci sono misure da prendere, all’interno del Recovery Plan, per la transizione energetica strettamente legata a quella digitale. C’è insomma da definire una nuova politica industriale europea che premi le imprese che hanno già investito sulla sostenibilità e stimolare quelle che ancora non lo hanno fatto o si sono mosse solo parzialmente. E’ una sfida importante, urgente, necessaria, che impegna il governo e le parti sociali, imprese e sindacati. E che ha bisogno di grande attenzione culturale e politica, di informazione attenta e ben documentata, di sensibilità generale da parte di un’opinione pubblica che deve ragionare, capire, condividere obiettivi (come la parte più ampia e responsabile degli italiani sta facendo contro la pandemia, nonostante le fake news e la propaganda dei no vax).
“E’ bene muoversi presto. La transizione ecologica non è un giro di giostra. Sarà necessario convertire e cambiare modelli e lavori. E tutto ciò richiede scelte anche dolorose, ma necessarie. E governare la transizione in maniera ordinata, riducendo i profili di rischio, aumentando l’occupazione e stimolando l’imprenditoria”, sostiene Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel (“Il Sole24Ore”, 17 luglio).

Ci sono, proprio in Italia, imprese all’avanguardia. 432mila aziende dell’industria e dei servizi hanno investito, tra il 2015 e il 2019, in prodotti e tecnologie green, documenta uno studio recente di Symbola e Unioncamere. E oggi, dunque, “il Next Generation Ue e quindi il Pnrr – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – sono cruciali per affrontare la crisi e costruire un futuro migliore per l’Italia e l’Europa. La transizione verde è il suo cuore, insieme alla coesione sociale e all’innovazione digitale”. In altri termini, un “Safe place”, per quanto difficile, è ancora possibile.

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