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Ascoltare il cuore di Milano e conciliare la produttività e l’inclusione sociale

“Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie”. Il giudizio lucido e lungimirante di Renzo Piano sta in copertina dell’ultimo semestrale della Società Umanitaria di Milano, dedicato a “La città ideale 2.0”, un quaderno ricco di analisi e documenti sull’evoluzione urbana contemporanea, umanistica e tecnica.

Una città da ascoltare, dunque. Come ben sapeva anche un artista sofisticato e sensibile come Alberto Savinio: “Ascolto il tuo cuore, città”, aveva scritto nel 1944, raccontando Milano e la sua amabile bellezza elegante e discreta (pubblicato inizialmente da Bompiani, il libro è adesso edito da Adelphi). Un ascolto necessario non solo per comprendere umori e aspettative, ma anche per costruire sapienti scelte di progettazione dello sviluppo, di indirizzo, governo, buona amministrazione. Perché “la città non è una forma astratta, un ibrido, un monolite, ma va intesa come una specie vivente, in continua evoluzione, con cui bisogna fare i conti, regolando le dinamiche territoriali con le molteplicità di sviluppo delle città”, come sostiene l’editoriale della rivista dell’Umanitaria. Con una consapevolezza chiara, nelle parole di Stefano Boeri, architetto e buon interprete delle biodiversità urbane: “Il futuro è di chi costruisce e progetta oggi. Ma la buona politica deve fare buone scelte urbanistiche, che guardano a quello che saremo fra 30/50 anni”.

I giudizi di Piano e Savinio e la visione di Boeri vengono in mente proprio riflettendo su un serie di passaggi critici di Milano, alcuni in linea con le “fragilità” delle altre metropoli (ne abbiamo scritto nel blog del 28 febbraio) e altri invece specifici per la città che più di altre, in Italia, cresce e continua ad attrarre persone e idee innovative, risorse intellettuali e finanziarie, investimenti, progetti.

Ascoltare cosa, dunque? Gli scricchiolii sociali ed economici, innanzitutto, perché fanno temere cambiamenti negativi e declino, perché sono quelli che minacciano una frattura nel complesso equilibrio che da sempre tiene insieme Milano: tra produttività e inclusione sociale, crescita della ricchezza e benessere diffuso, aperture per le avanguardie culturali ed economiche più innovative e senso forte della responsabilità solidale. Perchè, insomma, bisogna rilanciare il paradigma metropolitano tutt’altro che semplice ma comunque vitale che riguarda il lavoro, la qualità della vita, la capacità di scrivere “una storia al futuro”.

Gli scricchiolii sono chiari. Basta scorrere le cronache quotidiane dei giornali, tra carta e online, per averne conferme. I negozi che chiudono, anche in zone centrali e semicentrali (via Mazzini, via Lazzaretto) per costi eccessivi degli affitti e di una mano d’opera sempre più difficile da trovare. Il livello dei prezzi delle case, sempre meno accessibili per giovani single e famiglie di ceto medio. Gli aumenti generali del costo della vita, anche in quartieri di periferia coinvolti da processi stravolgenti di “gentrificazione”. Una percezione crescente di insicurezza personale e sociale, anche se non è confortata dai dati oggettivi dei fenomeni di criminalità comune, ma genera comunque inquietudine e disagio. Tutto un complesso di cose che fanno precipitare Milano dal secondo all’ottavo posto nella classifica annuale de “Il Sole24Ore” sulla qualità della vita.

Ecco il punto critico: l’idea diffusa che Milano stia diventando sempre più un’insopportabile “città per ricchi”, per effimeri privilegiati dei circuiti della finanza d’assalto, della new economy, dei consumi di lusso. Un’idea in netto contrasto con la storia, le tradizioni e la cultura di una città aperta, inclusiva, con l’anima generosa di una metropoli “vicina all’Europa” ma anche profondamente capace di accoglienza per chiunque abbia idee, intraprendenza, capacità di lavoro, senso civile.

“Una vetrina identificata come modernità vincente da chi deve investire nel lusso… una global city che piace alla finanza e un po’ meno al cittadino scontento del taglio ai servizi, della sicurezza, del costo degli alloggi e della vita”, sintetizza Giangiacomo Schiavi sulle pagine del “Corriere della Sera” (12 marzo), invitando comunque a “cambiare senza sparare sul pianista”, al termine di un’inchiesta approfondita sul “processo alla città: una metropoli da cui fuggire?”.

No, certo. Niente fuga. Semmai, scelte di buon governo locale, a cominciare dagli indirizzi urbanistici, dai provvedimenti per la casa e dagli investimenti in servizi con attenzione per le classe medie e i ceti sociali più fragili: i cardini della comunità, gli assi portanti di una buona democrazia. Come tradizione milanese, appunto, insegna.

Da anni, peraltro, proprio le più sensibili firme della letteratura noir (Alessandro Robecchi, Gianni Biondillo, Piero Colaprico, Sandrone Dazieri, Dario Crapanzano, Gian Andrea Cerone, per fare solo alcuni dei tanti nomi possibili, eredi originali della lezione di Giorgio Scerbanenco) mettono in guardia dal cedere al mito effimero delle “mille luci” dei grattacieli e delle tante weeks alimentate da una diffusa tendenza alla traduzione delle relazioni sociali in “eventi speciali”.

E da anni, però, dall’Expo in poi, sono proprio le forze dell’economia, ancora incardinata in una robusta propensione alla manifattura di qualità, a tenere Milano con i piedi per terra nel connubio, ricordato qualche riga fa, tra produttività, competitività e solidarietà, nelle relazioni virtuose tra “la capitale del sapere e il contado industriale”, come sintetizza Dario Di Vico (“Il Foglio”, 11 marzo), notando che “oggi Milano ha davanti a sé l’esigenza di accorciare una doppia corsia di distanze, quella che la allontana dai territori e quella che al suo interno vede allargarsi la polarizzazione e i rischi di fratture sociali. Per affrontarle entrambe c’è bisogno di una visione di sistema, che fatica ad emergere”.

Scommessa difficile, naturalmente. Ma possibile da affrontare a vincere, proprio facendo leva sulle capacità milanesi di dialogo, confronto, lavoro, innovazione economica e sociale. Le relazioni virtuose tra industria, servizi, finanza d’impresa e formazione (le università di livello internazionale) ne sono un pilastro.

La forza baricentrica tra il Nord Ovest in cerca di un nuovo e migliore futuro (su cui si muovono, concordi, l’Unione Industriali di Torino, l’Assolombarda e la Confindustria Genova), l’Emilia produttiva e il Nord Est delle “multinazionali tascabili” è un altro dei pilastri. L’asse tra Europa e Mediterraneo ne è lo scenario geopolitico. Tutto un gran lavoro da fare, coinvolgendo pubbliche amministrazioni, imprese, cultura, strutture sociali.

Ecco, dunque, cosa vuol dire ascoltare attentamente il cuore di Milano e non più soltanto il batticuore delle emozioni istantanee.

(foto Getty Images)

“Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola. Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie”. Il giudizio lucido e lungimirante di Renzo Piano sta in copertina dell’ultimo semestrale della Società Umanitaria di Milano, dedicato a “La città ideale 2.0”, un quaderno ricco di analisi e documenti sull’evoluzione urbana contemporanea, umanistica e tecnica.

Una città da ascoltare, dunque. Come ben sapeva anche un artista sofisticato e sensibile come Alberto Savinio: “Ascolto il tuo cuore, città”, aveva scritto nel 1944, raccontando Milano e la sua amabile bellezza elegante e discreta (pubblicato inizialmente da Bompiani, il libro è adesso edito da Adelphi). Un ascolto necessario non solo per comprendere umori e aspettative, ma anche per costruire sapienti scelte di progettazione dello sviluppo, di indirizzo, governo, buona amministrazione. Perché “la città non è una forma astratta, un ibrido, un monolite, ma va intesa come una specie vivente, in continua evoluzione, con cui bisogna fare i conti, regolando le dinamiche territoriali con le molteplicità di sviluppo delle città”, come sostiene l’editoriale della rivista dell’Umanitaria. Con una consapevolezza chiara, nelle parole di Stefano Boeri, architetto e buon interprete delle biodiversità urbane: “Il futuro è di chi costruisce e progetta oggi. Ma la buona politica deve fare buone scelte urbanistiche, che guardano a quello che saremo fra 30/50 anni”.

I giudizi di Piano e Savinio e la visione di Boeri vengono in mente proprio riflettendo su un serie di passaggi critici di Milano, alcuni in linea con le “fragilità” delle altre metropoli (ne abbiamo scritto nel blog del 28 febbraio) e altri invece specifici per la città che più di altre, in Italia, cresce e continua ad attrarre persone e idee innovative, risorse intellettuali e finanziarie, investimenti, progetti.

Ascoltare cosa, dunque? Gli scricchiolii sociali ed economici, innanzitutto, perché fanno temere cambiamenti negativi e declino, perché sono quelli che minacciano una frattura nel complesso equilibrio che da sempre tiene insieme Milano: tra produttività e inclusione sociale, crescita della ricchezza e benessere diffuso, aperture per le avanguardie culturali ed economiche più innovative e senso forte della responsabilità solidale. Perchè, insomma, bisogna rilanciare il paradigma metropolitano tutt’altro che semplice ma comunque vitale che riguarda il lavoro, la qualità della vita, la capacità di scrivere “una storia al futuro”.

Gli scricchiolii sono chiari. Basta scorrere le cronache quotidiane dei giornali, tra carta e online, per averne conferme. I negozi che chiudono, anche in zone centrali e semicentrali (via Mazzini, via Lazzaretto) per costi eccessivi degli affitti e di una mano d’opera sempre più difficile da trovare. Il livello dei prezzi delle case, sempre meno accessibili per giovani single e famiglie di ceto medio. Gli aumenti generali del costo della vita, anche in quartieri di periferia coinvolti da processi stravolgenti di “gentrificazione”. Una percezione crescente di insicurezza personale e sociale, anche se non è confortata dai dati oggettivi dei fenomeni di criminalità comune, ma genera comunque inquietudine e disagio. Tutto un complesso di cose che fanno precipitare Milano dal secondo all’ottavo posto nella classifica annuale de “Il Sole24Ore” sulla qualità della vita.

Ecco il punto critico: l’idea diffusa che Milano stia diventando sempre più un’insopportabile “città per ricchi”, per effimeri privilegiati dei circuiti della finanza d’assalto, della new economy, dei consumi di lusso. Un’idea in netto contrasto con la storia, le tradizioni e la cultura di una città aperta, inclusiva, con l’anima generosa di una metropoli “vicina all’Europa” ma anche profondamente capace di accoglienza per chiunque abbia idee, intraprendenza, capacità di lavoro, senso civile.

“Una vetrina identificata come modernità vincente da chi deve investire nel lusso… una global city che piace alla finanza e un po’ meno al cittadino scontento del taglio ai servizi, della sicurezza, del costo degli alloggi e della vita”, sintetizza Giangiacomo Schiavi sulle pagine del “Corriere della Sera” (12 marzo), invitando comunque a “cambiare senza sparare sul pianista”, al termine di un’inchiesta approfondita sul “processo alla città: una metropoli da cui fuggire?”.

No, certo. Niente fuga. Semmai, scelte di buon governo locale, a cominciare dagli indirizzi urbanistici, dai provvedimenti per la casa e dagli investimenti in servizi con attenzione per le classe medie e i ceti sociali più fragili: i cardini della comunità, gli assi portanti di una buona democrazia. Come tradizione milanese, appunto, insegna.

Da anni, peraltro, proprio le più sensibili firme della letteratura noir (Alessandro Robecchi, Gianni Biondillo, Piero Colaprico, Sandrone Dazieri, Dario Crapanzano, Gian Andrea Cerone, per fare solo alcuni dei tanti nomi possibili, eredi originali della lezione di Giorgio Scerbanenco) mettono in guardia dal cedere al mito effimero delle “mille luci” dei grattacieli e delle tante weeks alimentate da una diffusa tendenza alla traduzione delle relazioni sociali in “eventi speciali”.

E da anni, però, dall’Expo in poi, sono proprio le forze dell’economia, ancora incardinata in una robusta propensione alla manifattura di qualità, a tenere Milano con i piedi per terra nel connubio, ricordato qualche riga fa, tra produttività, competitività e solidarietà, nelle relazioni virtuose tra “la capitale del sapere e il contado industriale”, come sintetizza Dario Di Vico (“Il Foglio”, 11 marzo), notando che “oggi Milano ha davanti a sé l’esigenza di accorciare una doppia corsia di distanze, quella che la allontana dai territori e quella che al suo interno vede allargarsi la polarizzazione e i rischi di fratture sociali. Per affrontarle entrambe c’è bisogno di una visione di sistema, che fatica ad emergere”.

Scommessa difficile, naturalmente. Ma possibile da affrontare a vincere, proprio facendo leva sulle capacità milanesi di dialogo, confronto, lavoro, innovazione economica e sociale. Le relazioni virtuose tra industria, servizi, finanza d’impresa e formazione (le università di livello internazionale) ne sono un pilastro.

La forza baricentrica tra il Nord Ovest in cerca di un nuovo e migliore futuro (su cui si muovono, concordi, l’Unione Industriali di Torino, l’Assolombarda e la Confindustria Genova), l’Emilia produttiva e il Nord Est delle “multinazionali tascabili” è un altro dei pilastri. L’asse tra Europa e Mediterraneo ne è lo scenario geopolitico. Tutto un gran lavoro da fare, coinvolgendo pubbliche amministrazioni, imprese, cultura, strutture sociali.

Ecco, dunque, cosa vuol dire ascoltare attentamente il cuore di Milano e non più soltanto il batticuore delle emozioni istantanee.

(foto Getty Images)

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