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Ascoltare le imprese: produttività e innovazione e non spesa pubblica per l’economia assistita 

Andiamo a passi incerti e dolorosi verso “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con le parole del “Riccardo III” di Shakespeare e del drammatico romanzo di John Steinbeck. Un autunno e un inverno in cui rischiamo “un uragano” o “uno tsunami”, secondo i giudizi ricorrenti nei discorsi di banchieri, imprenditori e personalità dell’economia internazionale.

La vecchia globalizzazione è entrata in crisi da tempo, la “ri-globalizzazione selettiva” è un processo in corso, carico di incognite e di turbolenze inedite. E stiamo entrando nelle strettoie d’una crisi segnata da recessione e alta inflazione, dall’insostenibile prezzo del gas e dell’energia in generale e dalle crescenti tensioni geopolitiche (a cominciare dalla oramai lunga e  devastante guerra in Ucraina), dai rischi di nuove speculazioni finanziarie (soprattutto sull’Italia, come ha rivelato il Financial Times) e dalle preoccupazioni diffuse sul lavoro, sui redditi delle famiglie e sui conti delle imprese.

Ecco, le imprese italiane. Mettiamoci, adesso, dal loro punto di vista, come motore fondamentale dello sviluppo economico, dell’occupazione e dei salari. E proviamo a ragionare sul loro ruolo di fronte alle minacce di crisi economica e sociale, rese ancora più cariche di tensioni di fronte a una campagna elettorale, per il voto del 25 settembre, in cui molto si parla di diritti, sussidi, sostegni economici, aumento di salari e pensioni e mirabolanti promesse tutte a carico dei conti pubblici (il partito trasversale del “forza debito”) e pochissimo, invece, di produttività, competitività, innovazione, investimenti privati, nuovi lavori. Di come distribuire ricchezza e quasi mai di come produrla. La campagna elettorale delle demagogie e non della responsabilità, dopo le mosse improvvide di chi ha determinato la fine anticipata del governo Draghi, con tutto il carico delle conseguenze negative per l’Italia e gli italiani.

Le campagne elettorali, si sa, sono occasioni in cui si è particolarmente inclini alla propaganda, alle promesse, alla raccolta la più ampia possibile dei consensi e quasi mai al racconto della verità (bisognerebbe essere dei veri statisti con un forte senso dell’etica politica, per farlo: figure purtroppo rarissime, in questi tempi critici). Ma è altrettanto vero che proprio la costruzione del consenso per poter governare bene ha bisogno di grande chiarezza negli annunci e nella definizione dei programmi, nella indicazione degli equilibri politici, economici e sociali del futuro. Anche perché, in ogni campagna elettorale, si parla certamente con gli elettori ma anche con i mercati, con chi investe nel nostro Paese, con chi detiene il nostro debito e con tutti i soggetti istituzionali ed economici alle cui valutazioni è legato il nostro futuro. A cominciare da una puntuale attuazione del Pnrr, con le riforme e le scelte di investimento concordate con la Ue (senza cedere alla pericolosa tentazione di rimettere tutto in discussione).

Sono queste, d’altronde, le condizioni delle società complesse e delle economie interconnesse, delle istituzioni di cui si fa parte (a cominciare dalla Ue e dalla Bce, dal Fondo Monetario internazionale e dalla Nato), dei sistemi di relazione che assicurano collaborazione, cooperazione e sviluppo. Ma anche le conseguenze dell’essere un’economia di mercato, una società aperta, una comunità dialogante con un ruolo di rilievo nel consesso internazionale.

Le imprese italiane, oramai da tempo, vivono di mercato e sui mercati internazionali. Nel corso degli ultimi vent’anni e, con particolare vigore, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, trasformato prodotti e sistemi di produzione, puntando su alti standard di qualità e sostenibilità ambientale e sociale (molte le testimonianze, dalle cartiere Burgo ristrutturate per l’autonomia energetica alle “acciaierie verdi” del gruppo Arvedi, per citare solo due tra i tanti esempi possibili). Legate in distretti e filiere, le manifatture hanno superato parte dei limiti legati alle dimensioni e alla strutturale sottocapitalizzazione. E sono state attente a utilizzare bene gli incentivi e le misure fiscali dei governi che si sono succeduti (eccezion fatta per il governo Conte 1 giallo-verde, nettamente anti-impresa) per le trasformazioni digitali secondo i paradigmi di Industria 4.0. Sono diventate, insomma, sempre più dinamiche, resilienti e flessibili, grazie anche a una diffusa “cultura politecnica” che ha saputo coniugare memoria e futuro, sapienza umanistica (bellezza e qualità) e conoscenze scientifiche, radici storiche nei territori produttivi e attitudini alla competitività internazionale. Hanno esportato, conquistato posizioni di eccellenza nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. E affrontato con spirito imprenditoriale innovativo la twin transition ambientale e digitale.

La conferma di una tendenza così rilevante arriva anche dalle parole di Gregorio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo: “L’industria italiana meglio della tedesca. Siamo diventati più bravi a produrre beni di medio-alta qualità e abbiamo filiere più resilienti” (la Repubblica, 24 agosto).

Le imprese sono, insomma, attori sociali con un forte ruolo positivo, per creare ricchezza, lavoro, benessere diffuso, futuro sostenibile per le nuove generazioni. E hanno tutto il diritto di venire considerate, da chi governa (Draghi lo sa bene) e soprattutto da chi governerà, interlocutori essenziali per la crescita economica di lungo periodo (lo documentano i 18 punti del documento discusso alla fine di luglio dal Consiglio generale di Confindustria, di cui abbiamo parlato in questo blog).

Inflazione e crisi energetica mettono naturalmente in grandissima difficoltà il mondo produttivo. E sono necessarie misure urgenti per affrontare l’emergenza. Chi conosce il nostro mondo manifatturiero, comunque, sa bene che al suo interno ci sono risorse straordinarie per fare da pilastri della ripresa, proprio com’è già successo dopo la fase più acuta della pandemia, con la crescita economica maggiore d’Europa.

Ha dunque ragione chi (Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera, 29 agosto) sollecita “il giorno delle imprese”, con “una tregua nel dibattito elettorale sulla spesa pubblica, per discutere solo di aziende, competenze, studio, ricerca, innovazione, competitività” e affrontare, con sguardo lungimirante, “la parte più faticosa della costruzione di una società futura”. Sviluppo e non assistenzialismo, investimenti produttivi e non sussidi ai danni di un già altissimo debito pubblico. Mercato e concorrenza secondo qualità e sostenibilità e non statalismo economico. Facendo tesoro proprio dell’applauditissimo discorso di Draghi al Meeting di Rimini: “Il nostro posto è al centro dell’Europa. Sovranismo e protezionismo non fanno l’interesse del Paese”.

Le imprese ne sono attivamente consapevoli. Sarebbe indispensabile lo imparassero anche la maggior parte dei politici.

Andiamo a passi incerti e dolorosi verso “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con le parole del “Riccardo III” di Shakespeare e del drammatico romanzo di John Steinbeck. Un autunno e un inverno in cui rischiamo “un uragano” o “uno tsunami”, secondo i giudizi ricorrenti nei discorsi di banchieri, imprenditori e personalità dell’economia internazionale.

La vecchia globalizzazione è entrata in crisi da tempo, la “ri-globalizzazione selettiva” è un processo in corso, carico di incognite e di turbolenze inedite. E stiamo entrando nelle strettoie d’una crisi segnata da recessione e alta inflazione, dall’insostenibile prezzo del gas e dell’energia in generale e dalle crescenti tensioni geopolitiche (a cominciare dalla oramai lunga e  devastante guerra in Ucraina), dai rischi di nuove speculazioni finanziarie (soprattutto sull’Italia, come ha rivelato il Financial Times) e dalle preoccupazioni diffuse sul lavoro, sui redditi delle famiglie e sui conti delle imprese.

Ecco, le imprese italiane. Mettiamoci, adesso, dal loro punto di vista, come motore fondamentale dello sviluppo economico, dell’occupazione e dei salari. E proviamo a ragionare sul loro ruolo di fronte alle minacce di crisi economica e sociale, rese ancora più cariche di tensioni di fronte a una campagna elettorale, per il voto del 25 settembre, in cui molto si parla di diritti, sussidi, sostegni economici, aumento di salari e pensioni e mirabolanti promesse tutte a carico dei conti pubblici (il partito trasversale del “forza debito”) e pochissimo, invece, di produttività, competitività, innovazione, investimenti privati, nuovi lavori. Di come distribuire ricchezza e quasi mai di come produrla. La campagna elettorale delle demagogie e non della responsabilità, dopo le mosse improvvide di chi ha determinato la fine anticipata del governo Draghi, con tutto il carico delle conseguenze negative per l’Italia e gli italiani.

Le campagne elettorali, si sa, sono occasioni in cui si è particolarmente inclini alla propaganda, alle promesse, alla raccolta la più ampia possibile dei consensi e quasi mai al racconto della verità (bisognerebbe essere dei veri statisti con un forte senso dell’etica politica, per farlo: figure purtroppo rarissime, in questi tempi critici). Ma è altrettanto vero che proprio la costruzione del consenso per poter governare bene ha bisogno di grande chiarezza negli annunci e nella definizione dei programmi, nella indicazione degli equilibri politici, economici e sociali del futuro. Anche perché, in ogni campagna elettorale, si parla certamente con gli elettori ma anche con i mercati, con chi investe nel nostro Paese, con chi detiene il nostro debito e con tutti i soggetti istituzionali ed economici alle cui valutazioni è legato il nostro futuro. A cominciare da una puntuale attuazione del Pnrr, con le riforme e le scelte di investimento concordate con la Ue (senza cedere alla pericolosa tentazione di rimettere tutto in discussione).

Sono queste, d’altronde, le condizioni delle società complesse e delle economie interconnesse, delle istituzioni di cui si fa parte (a cominciare dalla Ue e dalla Bce, dal Fondo Monetario internazionale e dalla Nato), dei sistemi di relazione che assicurano collaborazione, cooperazione e sviluppo. Ma anche le conseguenze dell’essere un’economia di mercato, una società aperta, una comunità dialogante con un ruolo di rilievo nel consesso internazionale.

Le imprese italiane, oramai da tempo, vivono di mercato e sui mercati internazionali. Nel corso degli ultimi vent’anni e, con particolare vigore, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, trasformato prodotti e sistemi di produzione, puntando su alti standard di qualità e sostenibilità ambientale e sociale (molte le testimonianze, dalle cartiere Burgo ristrutturate per l’autonomia energetica alle “acciaierie verdi” del gruppo Arvedi, per citare solo due tra i tanti esempi possibili). Legate in distretti e filiere, le manifatture hanno superato parte dei limiti legati alle dimensioni e alla strutturale sottocapitalizzazione. E sono state attente a utilizzare bene gli incentivi e le misure fiscali dei governi che si sono succeduti (eccezion fatta per il governo Conte 1 giallo-verde, nettamente anti-impresa) per le trasformazioni digitali secondo i paradigmi di Industria 4.0. Sono diventate, insomma, sempre più dinamiche, resilienti e flessibili, grazie anche a una diffusa “cultura politecnica” che ha saputo coniugare memoria e futuro, sapienza umanistica (bellezza e qualità) e conoscenze scientifiche, radici storiche nei territori produttivi e attitudini alla competitività internazionale. Hanno esportato, conquistato posizioni di eccellenza nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. E affrontato con spirito imprenditoriale innovativo la twin transition ambientale e digitale.

La conferma di una tendenza così rilevante arriva anche dalle parole di Gregorio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo: “L’industria italiana meglio della tedesca. Siamo diventati più bravi a produrre beni di medio-alta qualità e abbiamo filiere più resilienti” (la Repubblica, 24 agosto).

Le imprese sono, insomma, attori sociali con un forte ruolo positivo, per creare ricchezza, lavoro, benessere diffuso, futuro sostenibile per le nuove generazioni. E hanno tutto il diritto di venire considerate, da chi governa (Draghi lo sa bene) e soprattutto da chi governerà, interlocutori essenziali per la crescita economica di lungo periodo (lo documentano i 18 punti del documento discusso alla fine di luglio dal Consiglio generale di Confindustria, di cui abbiamo parlato in questo blog).

Inflazione e crisi energetica mettono naturalmente in grandissima difficoltà il mondo produttivo. E sono necessarie misure urgenti per affrontare l’emergenza. Chi conosce il nostro mondo manifatturiero, comunque, sa bene che al suo interno ci sono risorse straordinarie per fare da pilastri della ripresa, proprio com’è già successo dopo la fase più acuta della pandemia, con la crescita economica maggiore d’Europa.

Ha dunque ragione chi (Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera, 29 agosto) sollecita “il giorno delle imprese”, con “una tregua nel dibattito elettorale sulla spesa pubblica, per discutere solo di aziende, competenze, studio, ricerca, innovazione, competitività” e affrontare, con sguardo lungimirante, “la parte più faticosa della costruzione di una società futura”. Sviluppo e non assistenzialismo, investimenti produttivi e non sussidi ai danni di un già altissimo debito pubblico. Mercato e concorrenza secondo qualità e sostenibilità e non statalismo economico. Facendo tesoro proprio dell’applauditissimo discorso di Draghi al Meeting di Rimini: “Il nostro posto è al centro dell’Europa. Sovranismo e protezionismo non fanno l’interesse del Paese”.

Le imprese ne sono attivamente consapevoli. Sarebbe indispensabile lo imparassero anche la maggior parte dei politici.

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