Europa, ecco il buon esempio di Spagna e Portogallo tra equilibrio dei conti pubblici e crescita economica
Europa, buoni esempi mediterranei. La Spagna cresciuta del 2,6% nel 2018 (il triplo, rispetto allo stentato 0,9% dell’Italia) e con la previsione di crescere del 2,2% nel 2019 (contro una crescita zero o sottozero dell’Italia). E il Portogallo, con un Pil in crescita del 2% nel 2018 (dopo un buon 2,7% del 2017) e con una stima di un altro 1,5% nel 2019. Sono entrambe economie fragili, naturalmente. Vengono fuori da una stagione di pesante recessione, con un severo lavoro di aggiustamento dei conti pubblici, tutt’altro che privo di costi sociali. Risentono di arretratezze produttive e di parziale assenza dai settori strategici dell’economia digitale. Eppure cambiano, crescono, innovano, attraggono investimenti, s’impegnano a costruire nuovi equilibri economici e sociali. E in tempi difficili di crisi e contestazioni verso la Ue, scelgono di restare chiaramente legate alle regole e alle strategie di Bruxelles, come cardine dell’impegno di risanamento e rilancio, invece che indulgere a populismi anti-euro e a sovranismi senza prospettive.
Sino a pochi anni fa erano considerati un problema per l’Europa, uno dei quattro “Pigs”, acronimo dall’eco volgare per indicare appunto Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, la deriva mediterranea, i focolai di crisi che minacciavano la stabilità della Ue, il cattivo esempio della sponda Sud. Adesso quella sigla non è più d’attualità nel discorso pubblico europeo. Spagna e Portogallo non hanno conti pubblici a rischio, non alimentano polemiche rozze contro la moneta unica, non occupano il dibattito politico contestando “i burocrati” di Bruxelles e, soprattutto, le loro economie sono in netta ripresa anche in questi ultimi mesi difficili di rallentamento delle economie globali. La Grecia sta faticosamente camminando lungo la strada del risanamento, archiviata la stagione velleitaria ed estremistica di Tsipras-Varoufakis: l’ex ministro dell’Economia, fuori dai giochi politici, se ne va in giro a fare conferenze, il premier Tsipras, dopo aver condotto il suo Paese sull’orlo della Grexit e del fallimento, ora è interprete di politiche responsabili.
Resta aperto il caso Italia: nessuna crescita, deficit pubblico in allarmante aumento verso le soglie di tolleranza ex Maastricht, debito pubblico ben oltre il 130% del Pil e senza segnali credibili di riduzione E spread molto maggiore di quelli di Spagna e Portogallo, sempre al di sopra di quota 250, dunque con ricadute sul costo parecchio più elevato per finanziare il debito. In tempi, appunto, di crisi globale e con un governo che fa delle polemiche con la Ue un fondamento d’una campagna elettorale dai toni accesi, l’Italia è l’anello debole dell’Europa. Un problema per noi e per tutta l’area dell’euro.
Vale la pena considerare alcuni altri dati (“Il Sole24Ore” sta dedicando proprio in queste settimane accurati reportage all’Europa mediterranea). Gli investimenti internazionali, per esempio: la Spagna (dati dell’Ufficio studi del Banco Santander) ha uno stock di investimenti esteri di 650 miliardi di dollari), equivalenti al 50% del Pil, rispetto al 30% di Germania e Francia e al 20% dell’Italia. Il deficit spagnolo è sceso al 2,6% del Pil, uno dei più alti della Ue, ma caratterizzato da un percorso virtuoso di riduzione che dovrebbe portare, nei prossimi mesi, alla conclusione della procedura Ue per deficit eccessivo. Il debito è in costante calo, al 97,2% del Pil alla fine del 2018, quasi un punto in meno di quello del 2017. Basso lo spread, dunque, un terzo di quello italiano.
Risanamento dei conti pubblici e investimenti ripresa sono i cardini d’una politica economica di successo. Esportazioni e attrazione di capitali internazionali. E stimoli alla domanda interna. Tutto sempre dentro i solidi confini dell’Europa e dell’euro. Le scelte politiche di fondo sono state condivise, dai governi che si sono succeduti nel tempo, i popolari e poi i socialisti, pur in presenza di fragilità delle alleanze politiche, ma anche di gravi tensioni (l’autonomismo catalano estremizzato, con le dure polemiche tra Barcellona e Madrid). E, nonostante limiti e contraddizioni, stanno pagando in termini di equilibri, ripresa, riavvio del benessere.
Anche il Portogallo ha dati su cui riflettere. Il deficit è appena allo 0,5% del Pil, sintomo d’una ottima condizione dei conti pubblici che libera risorse per investimenti (nel 2017 quel deficit era al 3%, dopo aver toccato l’11% al culmine della Grande Crisi). Il debito resta sopra il 120% del Pil, ma l’avanzo primario che si sta generando permette di nutrire fiducia in un percorso chiaro di rientro. “Il Portogallo è riuscito a conquistare un livello di credibilità che non avevamo mai avuto”, sostiene Mario Centeno, ministro delle Finanze del governo guidato dal socialista Antonio Costa e, dal 2018, presidente dell’Eurogruppo di Bruxelles (l’organismo di coordinamento di tutti i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro). Insiste Centeno: “Abbiamo riavviato un meccanismo virtuoso che, partendo dalla crescita, dai conti pubblici e dalla conseguente credibilità, ha moltiplicato la fiducia dei mercati che si è tradotta in una riduzione dei tassi d’interesse ai minimi storici”.
Anche a Lisbona, i governi conservatore prima e poi, dal 2016, socialista hanno condiviso i percorsi di risanamento e di rilancio, con uno sguardo lungimirante sul primato degli interessi del Portogallo e non della propaganda elettorale. Nessun populismo, nessun sovranismo. E intelligente legame con Bruxelles, compreso il buon utilizzo dei fondi europei a disposizione (proprio quelli che l’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, si dimostra incapace di usare).
Commenta Carlo Cottarelli, che da direttore esecutivo del Fondo Monetario, ha monitorato a lungo la situazione portoghese (“Il Sole24Ore”, 29 marzo): “Il governo Costa ha sempre confermato il suo fermo impegno a formulare e implementare politiche economiche e fiscali che promuovono una crescita sostenuta ed equa, in un contesto di consolidamento fiscale”, promuovendo “un aggiustamento fiscale del tutto in linea con gli impegni internazionali”, soprattutto con “un controllo della spesa, eliminando gli sprechi, com’è necessario in un paese con un elevato debito pubblico”.
Gli effetti: due paesi in crescita, nel contesto di un’Europa che li considera esempi positivi.
La loro lezione mediterranea potrebbe far bene all’Italia.
Europa, buoni esempi mediterranei. La Spagna cresciuta del 2,6% nel 2018 (il triplo, rispetto allo stentato 0,9% dell’Italia) e con la previsione di crescere del 2,2% nel 2019 (contro una crescita zero o sottozero dell’Italia). E il Portogallo, con un Pil in crescita del 2% nel 2018 (dopo un buon 2,7% del 2017) e con una stima di un altro 1,5% nel 2019. Sono entrambe economie fragili, naturalmente. Vengono fuori da una stagione di pesante recessione, con un severo lavoro di aggiustamento dei conti pubblici, tutt’altro che privo di costi sociali. Risentono di arretratezze produttive e di parziale assenza dai settori strategici dell’economia digitale. Eppure cambiano, crescono, innovano, attraggono investimenti, s’impegnano a costruire nuovi equilibri economici e sociali. E in tempi difficili di crisi e contestazioni verso la Ue, scelgono di restare chiaramente legate alle regole e alle strategie di Bruxelles, come cardine dell’impegno di risanamento e rilancio, invece che indulgere a populismi anti-euro e a sovranismi senza prospettive.
Sino a pochi anni fa erano considerati un problema per l’Europa, uno dei quattro “Pigs”, acronimo dall’eco volgare per indicare appunto Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, la deriva mediterranea, i focolai di crisi che minacciavano la stabilità della Ue, il cattivo esempio della sponda Sud. Adesso quella sigla non è più d’attualità nel discorso pubblico europeo. Spagna e Portogallo non hanno conti pubblici a rischio, non alimentano polemiche rozze contro la moneta unica, non occupano il dibattito politico contestando “i burocrati” di Bruxelles e, soprattutto, le loro economie sono in netta ripresa anche in questi ultimi mesi difficili di rallentamento delle economie globali. La Grecia sta faticosamente camminando lungo la strada del risanamento, archiviata la stagione velleitaria ed estremistica di Tsipras-Varoufakis: l’ex ministro dell’Economia, fuori dai giochi politici, se ne va in giro a fare conferenze, il premier Tsipras, dopo aver condotto il suo Paese sull’orlo della Grexit e del fallimento, ora è interprete di politiche responsabili.
Resta aperto il caso Italia: nessuna crescita, deficit pubblico in allarmante aumento verso le soglie di tolleranza ex Maastricht, debito pubblico ben oltre il 130% del Pil e senza segnali credibili di riduzione E spread molto maggiore di quelli di Spagna e Portogallo, sempre al di sopra di quota 250, dunque con ricadute sul costo parecchio più elevato per finanziare il debito. In tempi, appunto, di crisi globale e con un governo che fa delle polemiche con la Ue un fondamento d’una campagna elettorale dai toni accesi, l’Italia è l’anello debole dell’Europa. Un problema per noi e per tutta l’area dell’euro.
Vale la pena considerare alcuni altri dati (“Il Sole24Ore” sta dedicando proprio in queste settimane accurati reportage all’Europa mediterranea). Gli investimenti internazionali, per esempio: la Spagna (dati dell’Ufficio studi del Banco Santander) ha uno stock di investimenti esteri di 650 miliardi di dollari), equivalenti al 50% del Pil, rispetto al 30% di Germania e Francia e al 20% dell’Italia. Il deficit spagnolo è sceso al 2,6% del Pil, uno dei più alti della Ue, ma caratterizzato da un percorso virtuoso di riduzione che dovrebbe portare, nei prossimi mesi, alla conclusione della procedura Ue per deficit eccessivo. Il debito è in costante calo, al 97,2% del Pil alla fine del 2018, quasi un punto in meno di quello del 2017. Basso lo spread, dunque, un terzo di quello italiano.
Risanamento dei conti pubblici e investimenti ripresa sono i cardini d’una politica economica di successo. Esportazioni e attrazione di capitali internazionali. E stimoli alla domanda interna. Tutto sempre dentro i solidi confini dell’Europa e dell’euro. Le scelte politiche di fondo sono state condivise, dai governi che si sono succeduti nel tempo, i popolari e poi i socialisti, pur in presenza di fragilità delle alleanze politiche, ma anche di gravi tensioni (l’autonomismo catalano estremizzato, con le dure polemiche tra Barcellona e Madrid). E, nonostante limiti e contraddizioni, stanno pagando in termini di equilibri, ripresa, riavvio del benessere.
Anche il Portogallo ha dati su cui riflettere. Il deficit è appena allo 0,5% del Pil, sintomo d’una ottima condizione dei conti pubblici che libera risorse per investimenti (nel 2017 quel deficit era al 3%, dopo aver toccato l’11% al culmine della Grande Crisi). Il debito resta sopra il 120% del Pil, ma l’avanzo primario che si sta generando permette di nutrire fiducia in un percorso chiaro di rientro. “Il Portogallo è riuscito a conquistare un livello di credibilità che non avevamo mai avuto”, sostiene Mario Centeno, ministro delle Finanze del governo guidato dal socialista Antonio Costa e, dal 2018, presidente dell’Eurogruppo di Bruxelles (l’organismo di coordinamento di tutti i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro). Insiste Centeno: “Abbiamo riavviato un meccanismo virtuoso che, partendo dalla crescita, dai conti pubblici e dalla conseguente credibilità, ha moltiplicato la fiducia dei mercati che si è tradotta in una riduzione dei tassi d’interesse ai minimi storici”.
Anche a Lisbona, i governi conservatore prima e poi, dal 2016, socialista hanno condiviso i percorsi di risanamento e di rilancio, con uno sguardo lungimirante sul primato degli interessi del Portogallo e non della propaganda elettorale. Nessun populismo, nessun sovranismo. E intelligente legame con Bruxelles, compreso il buon utilizzo dei fondi europei a disposizione (proprio quelli che l’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, si dimostra incapace di usare).
Commenta Carlo Cottarelli, che da direttore esecutivo del Fondo Monetario, ha monitorato a lungo la situazione portoghese (“Il Sole24Ore”, 29 marzo): “Il governo Costa ha sempre confermato il suo fermo impegno a formulare e implementare politiche economiche e fiscali che promuovono una crescita sostenuta ed equa, in un contesto di consolidamento fiscale”, promuovendo “un aggiustamento fiscale del tutto in linea con gli impegni internazionali”, soprattutto con “un controllo della spesa, eliminando gli sprechi, com’è necessario in un paese con un elevato debito pubblico”.
Gli effetti: due paesi in crescita, nel contesto di un’Europa che li considera esempi positivi.
La loro lezione mediterranea potrebbe far bene all’Italia.