Industry 4.0, la fabbrica ha una nuova vita: digitale
La fabbrica, antica struttura della civiltà produttiva del Novecento, è tornata d’attualità. E ha un luminoso futuro: la “fabbrica digitale” o, secondo la letteratura industriale anglosassone, i processi di digital manifacturing: produrre oggetti con gli strumenti Internet, robot, stampanti 3D, sensori digitali. Bit e manifattura, insomma. Una dimensione che è già attualità. La sfida in corso si chiama Industry 4.0 (ne avevamo già scritto in un blog su queste pagine, nel giugno 2014). E riguarda le strategie, apprezzate dalla Ue, elaborate dalla società di consulenza Roland Berger, per la crescita dell’industria europea, in modo da raggiungere l’obiettivo indicato dalla Commissione di Bruxelles, di pesare per il 20% del Pil, entro il 2020 (la Germania è già oltre quel 20%, l’Italia supera il 16, in linea con la media Ue, anche le le regioni più industrializzate del Nord, nonostante la crisi e le debolezze del sistema Italia, già sono a un passo dal livello tedesco).
Industry 4.0 è un innovativo e sofisticato paradigma di produzione industriale, sviluppato in Germania (se ne è parlato la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover, leader delle mostre sulla tecnologia industriale), diffuso negli Usa e attentamente considerato a Bruxelles, negli uffici Ue, basato sulla totale digitalizzazione, secondo nove nuove tecnologie: big data, cloud computing, robotica, realtà aumentata, superconnessione degli impianti, stampanti 3D, etc. Si supera la distinzione tra produzione e servizi digitali. La nuova industria competitiva o sarà digital o non sarà. E tra gli economisti ma anche sui grandi media (lo fa Riccardo Luna, su “la Repubblica” del 9 settembre) si parla oramai apertamente di “quarta rivoluzione industriale” (dopo la prima, acqua e vapore lungo la catena di produzione, la seconda e cioè l’avvento dell’elettricità e la terza, l’avvento di Internet): “Il confine tra il mondo fisico e il digitale sparisce, è l’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente”.
L’Italia si sta già muovendo in questa direzione, sfruttando al meglio alcune sue caratteristiche di buona cultura d’impresa: l’abitudine all’innovazione di processo, la qualità, l’inclinazione alle produzioni “su misura” per clientele internazionali molto esigenti (è la forza della flessibilità diffusa in distretti, filiere produttive e supply chain, capaci di reggere la competizione in chiave di adattabilità). Il governo Renzi dichiara d’averne ben compreso le opportunità, rilanciando gli investimenti, a cominciare dalla “banda larga” (non si può fare alcun digital manifacturing competitivo senza infrastrutture Ict adeguate, veloci e sicure). Ma serve impegnarsi soprattutto muoversi sul piano europeo. Secondo Roland Berger saranno necessari 60 miliardi di investimenti aggiuntivi in Europa ogni anno, fino al 2030 (creando 500 miliardi di valore aggiunto manifatturiero e 6 milioni di posti di lavoro in tutta Europa). E la chiave è una strategia che metta insieme risorse pubbliche e capitali privati. E investe tutto, dall’economia di territorio ai sistemi di produzione, dai prodotti ai rapporti sociali (con tutte le relazioni con una sharing economy che raccoglie consensi e modifica relazioni, valori, abitudini tradizionali, stili di vita e di consumo).
Servono, dunque, nuove politiche industriali. Un rafforzamento della ricerca (ben oltre l’1,2% del Pil in Italia, superando la soglia del 2%). La diffusione dell’innovazione. E una vera e propria svolta culturale dell’intero Paese che metta al centro l’impresa e favorisca l’intraprendenza, anche tra le nuove generazioni (un rilancio della diffusione delle start up, guardando sia al capitale di rischio sia alle infrastrutture d’innovazione e comunicazione).
Il contesto è quello di una “industria in metamorfosi”, per usare l’affascinante definizione d’un sapiente storico dell’economia come Giuseppe Berta. Il cardine della nostra competitività resta quello delle “cose belle che piacciono al mondo”. Ma va aggiornato, potenziato, rivissuto in chiave medium tech (l’industria tradizionale che innova, nel senso ampio di sistemi di produzione e di prodotti, materiali, ricerca, relazioni industriali, linguaggi della comujnicazioene del marketing, etc.) ma anche hi tech (nuovi prodotti e servizi). Nella cornice, appunto del digital manifacturing. E’ una grande sfida, imprenditoriale e sociale, culturale e politica. Difficile, data la crescente severità selettiva dei mercati globali. Ma indispensabile: altrimenti, resta solo il declino.
La fabbrica, antica struttura della civiltà produttiva del Novecento, è tornata d’attualità. E ha un luminoso futuro: la “fabbrica digitale” o, secondo la letteratura industriale anglosassone, i processi di digital manifacturing: produrre oggetti con gli strumenti Internet, robot, stampanti 3D, sensori digitali. Bit e manifattura, insomma. Una dimensione che è già attualità. La sfida in corso si chiama Industry 4.0 (ne avevamo già scritto in un blog su queste pagine, nel giugno 2014). E riguarda le strategie, apprezzate dalla Ue, elaborate dalla società di consulenza Roland Berger, per la crescita dell’industria europea, in modo da raggiungere l’obiettivo indicato dalla Commissione di Bruxelles, di pesare per il 20% del Pil, entro il 2020 (la Germania è già oltre quel 20%, l’Italia supera il 16, in linea con la media Ue, anche le le regioni più industrializzate del Nord, nonostante la crisi e le debolezze del sistema Italia, già sono a un passo dal livello tedesco).
Industry 4.0 è un innovativo e sofisticato paradigma di produzione industriale, sviluppato in Germania (se ne è parlato la prima volta nel 2011 alla Fiera di Hannover, leader delle mostre sulla tecnologia industriale), diffuso negli Usa e attentamente considerato a Bruxelles, negli uffici Ue, basato sulla totale digitalizzazione, secondo nove nuove tecnologie: big data, cloud computing, robotica, realtà aumentata, superconnessione degli impianti, stampanti 3D, etc. Si supera la distinzione tra produzione e servizi digitali. La nuova industria competitiva o sarà digital o non sarà. E tra gli economisti ma anche sui grandi media (lo fa Riccardo Luna, su “la Repubblica” del 9 settembre) si parla oramai apertamente di “quarta rivoluzione industriale” (dopo la prima, acqua e vapore lungo la catena di produzione, la seconda e cioè l’avvento dell’elettricità e la terza, l’avvento di Internet): “Il confine tra il mondo fisico e il digitale sparisce, è l’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente”.
L’Italia si sta già muovendo in questa direzione, sfruttando al meglio alcune sue caratteristiche di buona cultura d’impresa: l’abitudine all’innovazione di processo, la qualità, l’inclinazione alle produzioni “su misura” per clientele internazionali molto esigenti (è la forza della flessibilità diffusa in distretti, filiere produttive e supply chain, capaci di reggere la competizione in chiave di adattabilità). Il governo Renzi dichiara d’averne ben compreso le opportunità, rilanciando gli investimenti, a cominciare dalla “banda larga” (non si può fare alcun digital manifacturing competitivo senza infrastrutture Ict adeguate, veloci e sicure). Ma serve impegnarsi soprattutto muoversi sul piano europeo. Secondo Roland Berger saranno necessari 60 miliardi di investimenti aggiuntivi in Europa ogni anno, fino al 2030 (creando 500 miliardi di valore aggiunto manifatturiero e 6 milioni di posti di lavoro in tutta Europa). E la chiave è una strategia che metta insieme risorse pubbliche e capitali privati. E investe tutto, dall’economia di territorio ai sistemi di produzione, dai prodotti ai rapporti sociali (con tutte le relazioni con una sharing economy che raccoglie consensi e modifica relazioni, valori, abitudini tradizionali, stili di vita e di consumo).
Servono, dunque, nuove politiche industriali. Un rafforzamento della ricerca (ben oltre l’1,2% del Pil in Italia, superando la soglia del 2%). La diffusione dell’innovazione. E una vera e propria svolta culturale dell’intero Paese che metta al centro l’impresa e favorisca l’intraprendenza, anche tra le nuove generazioni (un rilancio della diffusione delle start up, guardando sia al capitale di rischio sia alle infrastrutture d’innovazione e comunicazione).
Il contesto è quello di una “industria in metamorfosi”, per usare l’affascinante definizione d’un sapiente storico dell’economia come Giuseppe Berta. Il cardine della nostra competitività resta quello delle “cose belle che piacciono al mondo”. Ma va aggiornato, potenziato, rivissuto in chiave medium tech (l’industria tradizionale che innova, nel senso ampio di sistemi di produzione e di prodotti, materiali, ricerca, relazioni industriali, linguaggi della comujnicazioene del marketing, etc.) ma anche hi tech (nuovi prodotti e servizi). Nella cornice, appunto del digital manifacturing. E’ una grande sfida, imprenditoriale e sociale, culturale e politica. Difficile, data la crescente severità selettiva dei mercati globali. Ma indispensabile: altrimenti, resta solo il declino.