“Buona comunità” e “buona pratica”
Si chiamano “comunità di pratica” e sono, di fatto, gruppi di persone accomunate da un interesse, una passione, dei problemi da risolvere e che, soprattutto, riescono ad interagire fra di loro in maniera positiva. Il concetto cerca di dare forma a molte realtà presenti anche in Italia, anche fra le imprese, specialmente fra quelle collocate in territori caratterizzati da una forte presenza di piccole entità, artigiane ma non solo. Possono rappresentare, queste comunità, una delle leve su cui fare forza per rilanciare la produzione e l’economia, superare la crisi. Perché producono non solo ricchezza in senso tradizionale, ma, soprattutto, conoscenza, saperi, evoluzione di quel saper fare che ha reso grande l’industria nazionale.
A studiare le “comunità di pratica” è anche Massimiliano Costa – professore di Economia della Formazione alla Ca’ Foscari di Venezia -, che nel suo “Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio” (apparso nei Quaderni di ricerca sull’artigianato della CGIA di Mestre), ne indaga origine e significato e ne individua – con una analisi dettagliata anche se non sempre facile -, le caratteristiche strutturali. Tutto partendo da una serie di studi che si rifanno ad esperienze concrete, anche dell’Italia industriale di oggi ma non solo, che fanno capo a settori d’eccellenza dell’artigianato e delle piccole impresa (l’abbigliamento, le calzature, l’elettronica).
Ne emerge un ritratto con alcuni punti fermi. Ad iniziare dalla condivisione del linguaggio, per passare ad un’identità condivisa, ad una capacità di negoziazione e di comprensione della pratica che contribuiscono, tutte insieme, alla nascita della comunità stessa. Costa, poi, guarda più da vicino queste formazioni e, d’accordo con altri studiosi, arriva a quelle che chiama “determinanti” delle “comunità di pratica”: tre elementi obbligatori senza i quali la comunità davvero non nasce nemmeno. Si tratta della reciprocità delle relazioni, della presenza di un patrimonio di conoscenze condivise e di un obiettivo comune. A ben vedere, esattamente ciò che si crea in tante imprese.
Ma perché le “comunità di pratica” servono anche alle aziende e agli imprenditori? Per Costa, solo così questi ultimi possono diventare “contemporaneamente erogatori e destinatari degli apprendimenti manageriali”. E c’è anche di più. Attraverso queste entità è possibile, per esempio, ideare servizi di supporto alle piccole imprese, favorire la diffusione di reti, intensificare l’ICT e anche l’e-learning, favorire la creazione di reti di formazione e di supporto per le giovani imprese. Attraverso di esse, si ricompone una cultura d’impresa a più facce e identità, propria della più bella Italia.
Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio
Massimiliano Costa
Quaderni di ricerca sull’artigianato, n. 47
CGIA – Mestre
Si chiamano “comunità di pratica” e sono, di fatto, gruppi di persone accomunate da un interesse, una passione, dei problemi da risolvere e che, soprattutto, riescono ad interagire fra di loro in maniera positiva. Il concetto cerca di dare forma a molte realtà presenti anche in Italia, anche fra le imprese, specialmente fra quelle collocate in territori caratterizzati da una forte presenza di piccole entità, artigiane ma non solo. Possono rappresentare, queste comunità, una delle leve su cui fare forza per rilanciare la produzione e l’economia, superare la crisi. Perché producono non solo ricchezza in senso tradizionale, ma, soprattutto, conoscenza, saperi, evoluzione di quel saper fare che ha reso grande l’industria nazionale.
A studiare le “comunità di pratica” è anche Massimiliano Costa – professore di Economia della Formazione alla Ca’ Foscari di Venezia -, che nel suo “Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio” (apparso nei Quaderni di ricerca sull’artigianato della CGIA di Mestre), ne indaga origine e significato e ne individua – con una analisi dettagliata anche se non sempre facile -, le caratteristiche strutturali. Tutto partendo da una serie di studi che si rifanno ad esperienze concrete, anche dell’Italia industriale di oggi ma non solo, che fanno capo a settori d’eccellenza dell’artigianato e delle piccole impresa (l’abbigliamento, le calzature, l’elettronica).
Ne emerge un ritratto con alcuni punti fermi. Ad iniziare dalla condivisione del linguaggio, per passare ad un’identità condivisa, ad una capacità di negoziazione e di comprensione della pratica che contribuiscono, tutte insieme, alla nascita della comunità stessa. Costa, poi, guarda più da vicino queste formazioni e, d’accordo con altri studiosi, arriva a quelle che chiama “determinanti” delle “comunità di pratica”: tre elementi obbligatori senza i quali la comunità davvero non nasce nemmeno. Si tratta della reciprocità delle relazioni, della presenza di un patrimonio di conoscenze condivise e di un obiettivo comune. A ben vedere, esattamente ciò che si crea in tante imprese.
Ma perché le “comunità di pratica” servono anche alle aziende e agli imprenditori? Per Costa, solo così questi ultimi possono diventare “contemporaneamente erogatori e destinatari degli apprendimenti manageriali”. E c’è anche di più. Attraverso queste entità è possibile, per esempio, ideare servizi di supporto alle piccole imprese, favorire la diffusione di reti, intensificare l’ICT e anche l’e-learning, favorire la creazione di reti di formazione e di supporto per le giovani imprese. Attraverso di esse, si ricompone una cultura d’impresa a più facce e identità, propria della più bella Italia.
Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio
Massimiliano Costa
Quaderni di ricerca sull’artigianato, n. 47
CGIA – Mestre