Capire meglio la finanza e rafforzare la cultura d’impresa per una buona democrazia economica
Da cos’è caratterizzata una buona cultura d’impresa? Dalla cultura. Sembra un’ovvietà, a dirla così. Un furbo gioco di parole. E’ una necessità profonda, invece, in un’Italia che continua a mostrare profondi buchi di cultura economica e finanziaria e in tante imprese, diffuse nel nostro territorio, ci sono sì grandi energie imprenditoriali e interessanti capacità manageriali, ma mancano gli strumenti per comprendere davvero come sta cambiando il mondo e dunque per imparare ad affrontare le nuove sfide che abitano già il nostro tempo competitivo.
Eccola, la contraddizione più vistosa: siamo un paese di imprenditori e artigiani, alcuni milioni di persone (senza volersi affidare alla mistica dei “4milioni di partite Iva”, dietro molte delle quali si nascondono rapporti di lavoro subordinato), vantiamo intraprendenza ampia (che talvolta confina con l’”arte di arrangiarsi”), le nostre famiglie hanno un patrimonio finanziario tra i maggiori d’Europa ma nel mondo dell’economia ci muoviamo con approssimazione, superficialità, incultura.
La riprova sta nei dati di una ricerca condotta dal gruppo editoriale Usa McGrow-Hill, con il contributo di ricercatori della George Washington University e pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera. Il punteggio in “educazione finanziaria” dell’Italia (calcolato sulla capacità di rispondere alle domande di un questionario abbastanza semplice sui tassi d’interesse, l’andamento di debiti e mutui, l’allocazione del risparmio, la rischiosità degli investimenti, etc.) è di 37, contro il 67 del Regno Unito, il 66 della Germania, il 52 della Francia e il 49 della Spagna. Meglio di noi, anche parecchi paesi africani, meno ricchi di imprese e finanza, come il Botswana, il Madagascar e il Kenya. La Germania, insomma, ha competenze quasi doppie delle nostre: un altro degli spread di cui tenere gran conto.
Come si spiega? L’incultura economica e finanziaria è familiare, in un pubblico italiano che per moltissimi anni ha investito in comodi, sicuri e redditizi Bot e solo negli ultimi trent’anni ha cominciato a fare i conti con gli investimenti finanziari un po’ più sofisticati. Le nostre imprese continuano a fondarsi sugli affidamenti bancari, per finanziare le proprie attività e, piccole e scarsamente colte, diffidando degli strumenti di finanza meno tradizionali. E i ragazzi? Ereditano l’ignoranza dei loro genitori e parenti. I test Invalsi per l’Ocse (misurano preparazione e competenze) ci mettono in coda alle classifiche, con un forte differenziale tra le regioni: di fronte a una media di 466 punti per l’Italia, le regioni più industrializzate ed economicamente robuste (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia, Trentino e Alto Adige, Friuli) sono a livelli europei, le regioni del Sud e le isole sono in condizione di allarmante arretratezza (ultima, la Sicilia dell’economia assistita, clientelare e con forti influenze mafiose).
Si spiega proprio con questa incultura diffusa anche il coinvolgimento di migliaia di persone negli ultimi scandali bancari: hanno investito i loro risparmi senza sapere cosa facevano, che pericoli correvano, che relazione c’era tra gli alti rendimenti promessi e i rischi corsi.
Serve dunque promuovere una migliore e diffusa cultura economica e finanziaria, a cominciare dalle scuole. Per essere imprenditori, consumatori, cittadini migliori. Questione di sviluppo equilibrato. E in fin dei conti, di consapevolezza civile. E dunque di democrazia.


Da cos’è caratterizzata una buona cultura d’impresa? Dalla cultura. Sembra un’ovvietà, a dirla così. Un furbo gioco di parole. E’ una necessità profonda, invece, in un’Italia che continua a mostrare profondi buchi di cultura economica e finanziaria e in tante imprese, diffuse nel nostro territorio, ci sono sì grandi energie imprenditoriali e interessanti capacità manageriali, ma mancano gli strumenti per comprendere davvero come sta cambiando il mondo e dunque per imparare ad affrontare le nuove sfide che abitano già il nostro tempo competitivo.
Eccola, la contraddizione più vistosa: siamo un paese di imprenditori e artigiani, alcuni milioni di persone (senza volersi affidare alla mistica dei “4milioni di partite Iva”, dietro molte delle quali si nascondono rapporti di lavoro subordinato), vantiamo intraprendenza ampia (che talvolta confina con l’”arte di arrangiarsi”), le nostre famiglie hanno un patrimonio finanziario tra i maggiori d’Europa ma nel mondo dell’economia ci muoviamo con approssimazione, superficialità, incultura.
La riprova sta nei dati di una ricerca condotta dal gruppo editoriale Usa McGrow-Hill, con il contributo di ricercatori della George Washington University e pubblicata domenica scorsa dal Corriere della Sera. Il punteggio in “educazione finanziaria” dell’Italia (calcolato sulla capacità di rispondere alle domande di un questionario abbastanza semplice sui tassi d’interesse, l’andamento di debiti e mutui, l’allocazione del risparmio, la rischiosità degli investimenti, etc.) è di 37, contro il 67 del Regno Unito, il 66 della Germania, il 52 della Francia e il 49 della Spagna. Meglio di noi, anche parecchi paesi africani, meno ricchi di imprese e finanza, come il Botswana, il Madagascar e il Kenya. La Germania, insomma, ha competenze quasi doppie delle nostre: un altro degli spread di cui tenere gran conto.
Come si spiega? L’incultura economica e finanziaria è familiare, in un pubblico italiano che per moltissimi anni ha investito in comodi, sicuri e redditizi Bot e solo negli ultimi trent’anni ha cominciato a fare i conti con gli investimenti finanziari un po’ più sofisticati. Le nostre imprese continuano a fondarsi sugli affidamenti bancari, per finanziare le proprie attività e, piccole e scarsamente colte, diffidando degli strumenti di finanza meno tradizionali. E i ragazzi? Ereditano l’ignoranza dei loro genitori e parenti. I test Invalsi per l’Ocse (misurano preparazione e competenze) ci mettono in coda alle classifiche, con un forte differenziale tra le regioni: di fronte a una media di 466 punti per l’Italia, le regioni più industrializzate ed economicamente robuste (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia, Trentino e Alto Adige, Friuli) sono a livelli europei, le regioni del Sud e le isole sono in condizione di allarmante arretratezza (ultima, la Sicilia dell’economia assistita, clientelare e con forti influenze mafiose).
Si spiega proprio con questa incultura diffusa anche il coinvolgimento di migliaia di persone negli ultimi scandali bancari: hanno investito i loro risparmi senza sapere cosa facevano, che pericoli correvano, che relazione c’era tra gli alti rendimenti promessi e i rischi corsi.
Serve dunque promuovere una migliore e diffusa cultura economica e finanziaria, a cominciare dalle scuole. Per essere imprenditori, consumatori, cittadini migliori. Questione di sviluppo equilibrato. E in fin dei conti, di consapevolezza civile. E dunque di democrazia.