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Cari ragazzi, imparate a scrivere, anche per sapere governare l’Intelligenza Artificiale 

Usare ChatGPT e gli altri sistemi di Artificial Intelligence generativa per scrivere (ma anche per costruire immagini, preparare discorsi, simulare dialoghi da mettere in scena). Giocare digitalmente con le parole. Produrre frasi cariche di senso. Addensare in pagine apparentemente nuove concetti elaborati, nel corso del tempo, da filosofi e storici, letterati e sociologi, giornalisti ed economisti. Riprodurre in pochi secondi complesse analisi e cercare di ricavarne efficaci sintesi. Perché “AI GPT writer” è “the Artificial Intelligence Chatbot that knows everything”, come recita, enfaticamente, la comunicazione di Apple.

Ci piaccia o no, è un nuovo formidabile e terribile strumento ad altissima tecnologia che abbiamo tra noi. Le sue strabilianti possibilità ci colpiscono e turbano. Scatenano timori, anche per il futuro di milioni di persone che vedono minacciati i loro posti di lavoro. E pongono naturalmente questioni culturali e morali, sociali e politiche, economiche e giuridiche (come distinguere il vero dal falso? di chi è la proprietà intellettuale di un testo “nuovo” prodotto assemblando frasi di autori vari recuperate negli archivi e rielaborate? e come vanno ripartiti i profitti generati da una così particolare opera d’ingegno?).

Non è questa la sede per dare risposte a tali e tanti quesiti (si potrebbero anche porre a ChatGPT e vedere cosa sostiene). Ma, semmai, è l’occasione per provare a ragionare su una questione centrale: piuttosto che demonizzare l’AI generativa, in una sorta di neoluddismo high tech, non è forse meglio capirla, controllarne i risultati, governarne i processi? Seguire cioè la vecchia lezione culturale ed etica che, da qualche secolo, vuole giustamente che siano le macchine al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio delle macchine. E gestire le nuove tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone, evitando quel “dominio della tecnica” che umilierebbe l’umanità (cercando dunque di evitare i pericoli paventati da Martin Heidegger e, per stare alla storia economica italiana, tradurre in scelte e comportamenti coerenti le indicazioni dell’“umanesimo industriale” caro alle elaborazioni e alla cultura d’impresa Olivetti e Pirelli).

In sintesi: è necessario saper fare un uso sofisticato delle parole per sovrintendere al prodotto di chi assembla tecnologicamente parole e avere una profonda conoscenza del linguaggio per “usare” i prodotti di ChatGPT invece che limitarsi pigramente a recepirli e, dunque, a esserne usati.

Ecco il tema chiave: il divario crescente tra le possibilità offerte dall’AI e la lingua sempre più legnosa e impoverita con cui sappiano sempre meno efficacemente nominare le cose del mondo. Le sconvolgenti tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, aprono le porte a nuove conoscenze e chiedono nuove sintesi intellettuali e linguistiche (gli algoritmi e i sistemi dell’AI vanno scritti mettendo insieme competenze multidisciplinari di matematici, fisici, cyberscienziati, statistici ma anche filosofi, letterati, economisti, giuristi, sociologi, etc.). Ma, nel tempo, il linguaggio di milioni di persone si è radicalmente ristretto e disseccato, le capacità di uso delle parole si sono ridotte, la sintassi nei discorsi quotidiani è sempre più schematica, complice anche l’abitudine a usare i social media e gli schemi mentali da “like” e da emoticon, a restringere qualunque giudizio nei 140 caratteri di un tweet (anche quando sarebbe necessario un ragionamento più articolato e complesso) e nella secchezza di un post su Facebook o nella didascalia di un’immagine chiamata pomposamente “storia” su Istagram. A ridurre, insomma, la ricchezza della realtà nel codice binario degli “amici o nemici”.

Vale la pena rileggere la lezione di un grande filosofo come Ludwig Wittgenstein per ricordarsi che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” e dunque capire che proprio nella capacità di usare con proprietà le parole e le costruzioni dei discorsi sta non soltanto la forza della rappresentazione dei propri pensieri e dei propri valori, ma anche la sostanza stessa della propria libertà. La valorizzazione dei punti di vista, degli interessi. E la tutela e l’affermazione dei diritti. Nel nesso strettissimo che lega la libertà di parola e la democrazia. Il discorso pubblico consapevole e critico. E lo sviluppo.

Per passare dalla filosofia al cinema, vale la pena ricordare la frase famosa di Nanni Moretti in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti… Chi parla male, pensa male e vive male”. E, per andare alla letteratura, ecco Octavio Paz, grande scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990: “Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”. Perché, ancora, “un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”.

Non può dunque non creare allarme la crescente incapacità, sempre più diffusa tra le nuove generazioni, di usare compiutamente la lingua, di esprimersi con tutta la ricchezza che il vocabolario e la sintassi consentono.

“Oggi i ragazzi non sanno più scrivere”, nota Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” (13 marzo), dando corpo alle critiche e alle preoccupazioni che emergono dai vari mondi della cultura, delle professioni, del giornalismo e dell’editoria. E rilevando che “dopo le scuole, gli studi universitari dovrebbero approfondire l’esercizio del ragionamento e dunque della scrittura, ma invece prevalgono gli esami orali e le cosiddette ‘domande chiuse’ (a crocette) non servono all’elaborazione scritta”. Eppure, scrivere bene significa leggere bene e dunque capire bene la realtà che abbiamo intorno e saperla raccontare, spiegare, criticare, argomentando come cambiarla e ricostruirla.

Sfida culturale, dunque. Sociale. E civile. Perché “una cittadinanza consapevole, primo obiettivo di un paese maturo, non si esprime attraverso tweet e post, ma attraverso ragionamenti ampi (e, perché no? complessi) che soltanto l’esercizio di una scrittura logica, chiara, attenta – non farraginosa, confusa, approssimativa – può garantire”.

Tornare a scrivere, dunque, è necessario. Anche rivalutando la scrittura a mano, anche perché è una tecnica che condensa i pensieri, stimola la sintesi, interpreta meglio il tempo della riflessione e della comprensione.

Il ragionamento è fondamentale, per le nuove generazioni. C’è bisogno della loro attitudine digitale e della loro intelligenza critica, proprio per fare i conti con tutte le questioni poste dall’Artificial Intelligence. Ma è indispensabile che sappiano contemporaneamente investire bene il capitale di sapienza contenuto nel linguaggio, nelle parole ben costruite e spese. Perché “ci sono parole che fanno vivere…”, come sapeva sapientemente scrivere, mettendole in rima, un fertile poeta, Paul Eluard, … “la parola coraggio la parola scoprire/ la parola calore la parola fiducia/ giustizia amore e la parola libertà…”.

(foto Getty Images)

Usare ChatGPT e gli altri sistemi di Artificial Intelligence generativa per scrivere (ma anche per costruire immagini, preparare discorsi, simulare dialoghi da mettere in scena). Giocare digitalmente con le parole. Produrre frasi cariche di senso. Addensare in pagine apparentemente nuove concetti elaborati, nel corso del tempo, da filosofi e storici, letterati e sociologi, giornalisti ed economisti. Riprodurre in pochi secondi complesse analisi e cercare di ricavarne efficaci sintesi. Perché “AI GPT writer” è “the Artificial Intelligence Chatbot that knows everything”, come recita, enfaticamente, la comunicazione di Apple.

Ci piaccia o no, è un nuovo formidabile e terribile strumento ad altissima tecnologia che abbiamo tra noi. Le sue strabilianti possibilità ci colpiscono e turbano. Scatenano timori, anche per il futuro di milioni di persone che vedono minacciati i loro posti di lavoro. E pongono naturalmente questioni culturali e morali, sociali e politiche, economiche e giuridiche (come distinguere il vero dal falso? di chi è la proprietà intellettuale di un testo “nuovo” prodotto assemblando frasi di autori vari recuperate negli archivi e rielaborate? e come vanno ripartiti i profitti generati da una così particolare opera d’ingegno?).

Non è questa la sede per dare risposte a tali e tanti quesiti (si potrebbero anche porre a ChatGPT e vedere cosa sostiene). Ma, semmai, è l’occasione per provare a ragionare su una questione centrale: piuttosto che demonizzare l’AI generativa, in una sorta di neoluddismo high tech, non è forse meglio capirla, controllarne i risultati, governarne i processi? Seguire cioè la vecchia lezione culturale ed etica che, da qualche secolo, vuole giustamente che siano le macchine al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio delle macchine. E gestire le nuove tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone, evitando quel “dominio della tecnica” che umilierebbe l’umanità (cercando dunque di evitare i pericoli paventati da Martin Heidegger e, per stare alla storia economica italiana, tradurre in scelte e comportamenti coerenti le indicazioni dell’“umanesimo industriale” caro alle elaborazioni e alla cultura d’impresa Olivetti e Pirelli).

In sintesi: è necessario saper fare un uso sofisticato delle parole per sovrintendere al prodotto di chi assembla tecnologicamente parole e avere una profonda conoscenza del linguaggio per “usare” i prodotti di ChatGPT invece che limitarsi pigramente a recepirli e, dunque, a esserne usati.

Ecco il tema chiave: il divario crescente tra le possibilità offerte dall’AI e la lingua sempre più legnosa e impoverita con cui sappiano sempre meno efficacemente nominare le cose del mondo. Le sconvolgenti tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, aprono le porte a nuove conoscenze e chiedono nuove sintesi intellettuali e linguistiche (gli algoritmi e i sistemi dell’AI vanno scritti mettendo insieme competenze multidisciplinari di matematici, fisici, cyberscienziati, statistici ma anche filosofi, letterati, economisti, giuristi, sociologi, etc.). Ma, nel tempo, il linguaggio di milioni di persone si è radicalmente ristretto e disseccato, le capacità di uso delle parole si sono ridotte, la sintassi nei discorsi quotidiani è sempre più schematica, complice anche l’abitudine a usare i social media e gli schemi mentali da “like” e da emoticon, a restringere qualunque giudizio nei 140 caratteri di un tweet (anche quando sarebbe necessario un ragionamento più articolato e complesso) e nella secchezza di un post su Facebook o nella didascalia di un’immagine chiamata pomposamente “storia” su Istagram. A ridurre, insomma, la ricchezza della realtà nel codice binario degli “amici o nemici”.

Vale la pena rileggere la lezione di un grande filosofo come Ludwig Wittgenstein per ricordarsi che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” e dunque capire che proprio nella capacità di usare con proprietà le parole e le costruzioni dei discorsi sta non soltanto la forza della rappresentazione dei propri pensieri e dei propri valori, ma anche la sostanza stessa della propria libertà. La valorizzazione dei punti di vista, degli interessi. E la tutela e l’affermazione dei diritti. Nel nesso strettissimo che lega la libertà di parola e la democrazia. Il discorso pubblico consapevole e critico. E lo sviluppo.

Per passare dalla filosofia al cinema, vale la pena ricordare la frase famosa di Nanni Moretti in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti… Chi parla male, pensa male e vive male”. E, per andare alla letteratura, ecco Octavio Paz, grande scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990: “Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”. Perché, ancora, “un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”.

Non può dunque non creare allarme la crescente incapacità, sempre più diffusa tra le nuove generazioni, di usare compiutamente la lingua, di esprimersi con tutta la ricchezza che il vocabolario e la sintassi consentono.

“Oggi i ragazzi non sanno più scrivere”, nota Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” (13 marzo), dando corpo alle critiche e alle preoccupazioni che emergono dai vari mondi della cultura, delle professioni, del giornalismo e dell’editoria. E rilevando che “dopo le scuole, gli studi universitari dovrebbero approfondire l’esercizio del ragionamento e dunque della scrittura, ma invece prevalgono gli esami orali e le cosiddette ‘domande chiuse’ (a crocette) non servono all’elaborazione scritta”. Eppure, scrivere bene significa leggere bene e dunque capire bene la realtà che abbiamo intorno e saperla raccontare, spiegare, criticare, argomentando come cambiarla e ricostruirla.

Sfida culturale, dunque. Sociale. E civile. Perché “una cittadinanza consapevole, primo obiettivo di un paese maturo, non si esprime attraverso tweet e post, ma attraverso ragionamenti ampi (e, perché no? complessi) che soltanto l’esercizio di una scrittura logica, chiara, attenta – non farraginosa, confusa, approssimativa – può garantire”.

Tornare a scrivere, dunque, è necessario. Anche rivalutando la scrittura a mano, anche perché è una tecnica che condensa i pensieri, stimola la sintesi, interpreta meglio il tempo della riflessione e della comprensione.

Il ragionamento è fondamentale, per le nuove generazioni. C’è bisogno della loro attitudine digitale e della loro intelligenza critica, proprio per fare i conti con tutte le questioni poste dall’Artificial Intelligence. Ma è indispensabile che sappiano contemporaneamente investire bene il capitale di sapienza contenuto nel linguaggio, nelle parole ben costruite e spese. Perché “ci sono parole che fanno vivere…”, come sapeva sapientemente scrivere, mettendole in rima, un fertile poeta, Paul Eluard, … “la parola coraggio la parola scoprire/ la parola calore la parola fiducia/ giustizia amore e la parola libertà…”.

(foto Getty Images)

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