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Caso Ilva e questione industriale: le confusioni del governo e la reazione di migliaia di “fabbriche aperte” al pubblico

“Italian steel plant poisons political landscape”, titola il Financial Times del 22 novembre, nel bel mezzo del pasticcio dell’Ilva, tra crisi industriale, confusioni politiche, paure ambientali e iniziative giudiziarie. Già, appunto, le vicende della più grande acciaieria d’Europa, stanno avvelenando il paesaggio politico. Il quotidiano più ascoltato nella comunità economica internazionale coglie bene il punto della situazione: di fronte a un grave problema che riguarda decine di migliaia di posti di lavoro e una produzione essenziale per l’efficienza e la produttività di un’Italia industrialmente forte proprio nell’industria meccanica, governo e forze politiche non sanno affatto cosa fare, pasticciano tra lavoro e ambiente, cambiano le regole in corso, battibeccano per esigenze di propaganda. Con pesanti conseguenze sulla crescita, gli investimenti internazionali e il benessere di tutto il Paese.

L’Ilva di Taranto è solo l’ultimo, il più clamoroso e devastante, dei casi di grande difficoltà che colpiscono la nostra industria, in un momento particolarmente delicato in cui l’Italia cresce meno di tutti gli altri paesi europei e subisce di più gli effetti della “guerra dei dazi” Usa-Cina (con pesanti ricadute sull’Europa) e dei problemi di tutto il settore automotive in faticosa transizione verso altre condizioni di mobilità, ritenute più sostenibili.

Ci sono 170 casi di crisi aziendale, sui tavoli del ministero dello Sviluppo Economico, dall’Alitalia alla Whirlpool a tanti altri, di minore impatto comunicativo ma comunque drammatici per il futuro di lavoratori, famiglie, territori. E di nessuna si è venuti a capo. D’altronde, era stato Luigi Di Maio, quando ne era ministro, durante il governo con la Lega, a svuotare quel ministero di competenze e intelligenze professionali, proprio mentre contribuiva a dissestare i conti pubblici con l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza.

La congiuntura rivela appunto un panorama di difficoltà. La produzione industriale ha subito quest’anno un calo del 2%, con segnali di preoccupazione che arrivano anche dalle aree industriali più forti, Brescia e Bergamo, Milano e il Piemonte. E pure negli ambienti del nuovo governo non ci sono indicazioni chiare su come uscire dai guai. Ilva e Alitalia sono i casi più noti d’una assoluta confusione di idee e confermano i rischi provocati dallo spazio che ha ancora una vera e propria incultura anti-industriale e anti-tecnologica, diffusa soprattutto tra i Cinque Stelle, con la tentazione diffusa di rispondere alle crisi con la soluzione peggiore: l’intervento della mano pubblica, il “salvataggio” con i soldi dello Stato.

“Mi spaventa che in Italia stia tornando un forte sentimento anti-industriale. Ma se tutti i Paesi chiedono ai nostri imprenditori di andare a investire da loro, è possibile che proprio il governo italiano non comprenda il nostro valore e non ci sostenga?” sostiene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, durante un dibattito organizzato nel fine settimana a Firenze da Il Foglio. “L’industria frena ma la politica guarda altrove”, tra crisi reali e riforme mancate, nota Valerio Castronovo, autorevole storico dell’economia, su IlSole24Ore. “Nella morsa del declino industriale”, critica Mario Deaglio, economista di grande esperienza, su La Stampa. Siamo ancora, nonostante tutto, la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania. Ma il pericolo che la Francia ci sorpassi è sempre più forte. Con ricadute negative su parecchi piani economici, a cominciare dall’attrattività degli investimenti internazionali e dalla possibilità di trattenere, qui, nel Paese, i nostri giovani migliori, tentati dall’andare a cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita.

Condannati al declino, anche per l’incompetenza e le irresolutezze politiche e i populismi da “decrescita infelice”? Si spera di no. Ci si muove in questo senso. E c’è una reazione forte, proprio dal mondo diffuso delle imprese, nella loro relazione con la società, i territori industriali, le scuole. Una netta presa di posizione, che matura nei settori dell’industria e del lavoro, per ristabilire condizioni di competitività, produttività, sviluppo.

Una riprova sta anche nel successo crescente di alcune iniziative che, proprio in novembre, ancora una volta, incontrano un crescente successo di attenzione e partecipazione: la “Settimana della Cultura d’impresa” organizzata da Museimpresa e Confindustria, il “Pmi Day”, promosso dalla Piccola Industria di Confindustria (1.300 fabbriche aperte per 46mila ragazzi italiani), e le manifestazioni di “OpenFactory”, voluta da ItalyPost e da “L’Economia” del Corriere della Sera: cinquanta stabilimenti aperti al pubblico, domenica 24 novembre, con più di 22mila partecipanti, dall’Emilia alla Lombardia, dal Veneto (come alla Carraro di Campodarsego, componentistica hi tech per trattori, un’eccellenza del made in Italy di maggior successo nel mondo) al Friuli, ma anche in altre aree dell’Italia centrale. E ancora “Fabbriche aperte” della Regione Piemonte, all’inizio di novembre, più di 8mila persone in 120 aziende (grande successo di quelle dell’agro-alimentare). E Manifatture Aperte del Comune di Milano, nell’ultimo week end di novembre, per valorizzare pure “il ritorno della manifattura in città”. Tutto un fermento di attenzione pubblica, popolare, per la nostra impresa e il suo ruolo di attore principale dello sviluppo. Tradizione industriale e innovazione da digital economy, sapienza artigiana e robot, cultura del saper fare. E un’idea di fondo: rilanciare l’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, contagiare i nostri ragazzi, fare vedere concretamente loro che “la fabbrica bella”, efficiente, sostenibile, sicura, inclusiva, è un buon posto in cui fare vivere lavoro, dignità professionale, conoscenza e futuro.

C’è, nelle aree industriali, nei territori abituati a produrre, esportare, costruire sviluppo, una idea dinamica dell’Italia. Da difendere, proteggere dal malgoverno delle crisi, aiutare a crescere. Quest’Italia non merita affatto il declino. Chi governa e chi, in Parlamento, fa le leggi (spesso pensate male, ai danni dell’industria e scritte peggio) dovrebbe seriamente tenerne conto.

“Italian steel plant poisons political landscape”, titola il Financial Times del 22 novembre, nel bel mezzo del pasticcio dell’Ilva, tra crisi industriale, confusioni politiche, paure ambientali e iniziative giudiziarie. Già, appunto, le vicende della più grande acciaieria d’Europa, stanno avvelenando il paesaggio politico. Il quotidiano più ascoltato nella comunità economica internazionale coglie bene il punto della situazione: di fronte a un grave problema che riguarda decine di migliaia di posti di lavoro e una produzione essenziale per l’efficienza e la produttività di un’Italia industrialmente forte proprio nell’industria meccanica, governo e forze politiche non sanno affatto cosa fare, pasticciano tra lavoro e ambiente, cambiano le regole in corso, battibeccano per esigenze di propaganda. Con pesanti conseguenze sulla crescita, gli investimenti internazionali e il benessere di tutto il Paese.

L’Ilva di Taranto è solo l’ultimo, il più clamoroso e devastante, dei casi di grande difficoltà che colpiscono la nostra industria, in un momento particolarmente delicato in cui l’Italia cresce meno di tutti gli altri paesi europei e subisce di più gli effetti della “guerra dei dazi” Usa-Cina (con pesanti ricadute sull’Europa) e dei problemi di tutto il settore automotive in faticosa transizione verso altre condizioni di mobilità, ritenute più sostenibili.

Ci sono 170 casi di crisi aziendale, sui tavoli del ministero dello Sviluppo Economico, dall’Alitalia alla Whirlpool a tanti altri, di minore impatto comunicativo ma comunque drammatici per il futuro di lavoratori, famiglie, territori. E di nessuna si è venuti a capo. D’altronde, era stato Luigi Di Maio, quando ne era ministro, durante il governo con la Lega, a svuotare quel ministero di competenze e intelligenze professionali, proprio mentre contribuiva a dissestare i conti pubblici con l’assistenzialismo del reddito di cittadinanza.

La congiuntura rivela appunto un panorama di difficoltà. La produzione industriale ha subito quest’anno un calo del 2%, con segnali di preoccupazione che arrivano anche dalle aree industriali più forti, Brescia e Bergamo, Milano e il Piemonte. E pure negli ambienti del nuovo governo non ci sono indicazioni chiare su come uscire dai guai. Ilva e Alitalia sono i casi più noti d’una assoluta confusione di idee e confermano i rischi provocati dallo spazio che ha ancora una vera e propria incultura anti-industriale e anti-tecnologica, diffusa soprattutto tra i Cinque Stelle, con la tentazione diffusa di rispondere alle crisi con la soluzione peggiore: l’intervento della mano pubblica, il “salvataggio” con i soldi dello Stato.

“Mi spaventa che in Italia stia tornando un forte sentimento anti-industriale. Ma se tutti i Paesi chiedono ai nostri imprenditori di andare a investire da loro, è possibile che proprio il governo italiano non comprenda il nostro valore e non ci sostenga?” sostiene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, durante un dibattito organizzato nel fine settimana a Firenze da Il Foglio. “L’industria frena ma la politica guarda altrove”, tra crisi reali e riforme mancate, nota Valerio Castronovo, autorevole storico dell’economia, su IlSole24Ore. “Nella morsa del declino industriale”, critica Mario Deaglio, economista di grande esperienza, su La Stampa. Siamo ancora, nonostante tutto, la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania. Ma il pericolo che la Francia ci sorpassi è sempre più forte. Con ricadute negative su parecchi piani economici, a cominciare dall’attrattività degli investimenti internazionali e dalla possibilità di trattenere, qui, nel Paese, i nostri giovani migliori, tentati dall’andare a cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita.

Condannati al declino, anche per l’incompetenza e le irresolutezze politiche e i populismi da “decrescita infelice”? Si spera di no. Ci si muove in questo senso. E c’è una reazione forte, proprio dal mondo diffuso delle imprese, nella loro relazione con la società, i territori industriali, le scuole. Una netta presa di posizione, che matura nei settori dell’industria e del lavoro, per ristabilire condizioni di competitività, produttività, sviluppo.

Una riprova sta anche nel successo crescente di alcune iniziative che, proprio in novembre, ancora una volta, incontrano un crescente successo di attenzione e partecipazione: la “Settimana della Cultura d’impresa” organizzata da Museimpresa e Confindustria, il “Pmi Day”, promosso dalla Piccola Industria di Confindustria (1.300 fabbriche aperte per 46mila ragazzi italiani), e le manifestazioni di “OpenFactory”, voluta da ItalyPost e da “L’Economia” del Corriere della Sera: cinquanta stabilimenti aperti al pubblico, domenica 24 novembre, con più di 22mila partecipanti, dall’Emilia alla Lombardia, dal Veneto (come alla Carraro di Campodarsego, componentistica hi tech per trattori, un’eccellenza del made in Italy di maggior successo nel mondo) al Friuli, ma anche in altre aree dell’Italia centrale. E ancora “Fabbriche aperte” della Regione Piemonte, all’inizio di novembre, più di 8mila persone in 120 aziende (grande successo di quelle dell’agro-alimentare). E Manifatture Aperte del Comune di Milano, nell’ultimo week end di novembre, per valorizzare pure “il ritorno della manifattura in città”. Tutto un fermento di attenzione pubblica, popolare, per la nostra impresa e il suo ruolo di attore principale dello sviluppo. Tradizione industriale e innovazione da digital economy, sapienza artigiana e robot, cultura del saper fare. E un’idea di fondo: rilanciare l’alternanza scuola-lavoro e, più in generale, contagiare i nostri ragazzi, fare vedere concretamente loro che “la fabbrica bella”, efficiente, sostenibile, sicura, inclusiva, è un buon posto in cui fare vivere lavoro, dignità professionale, conoscenza e futuro.

C’è, nelle aree industriali, nei territori abituati a produrre, esportare, costruire sviluppo, una idea dinamica dell’Italia. Da difendere, proteggere dal malgoverno delle crisi, aiutare a crescere. Quest’Italia non merita affatto il declino. Chi governa e chi, in Parlamento, fa le leggi (spesso pensate male, ai danni dell’industria e scritte peggio) dovrebbe seriamente tenerne conto.

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