Cervelli in fuga, se un ricercatore in Olanda vale 5 volte un italiano
Un’etichetta al polso, quella dei bagagli aerei. E tutti in piazza. In una calda giornata di metà settembre un folto gruppo di ricercatori italiani si è ritrovato a Roma, davanti al Parlamento, per dire di essere pronti a emigrare se il legislatore non adeguerà alle norme della Ue che consentono e facilitano la ricerca. E’ cenerentola europea, infatti, l’Italia, proprio sulla ricerca, un elemento chiave per lo sviluppo equilibrato e sostenibile. Per il livello degli investimenti, appena l’1% del Pil. E per le condizioni in cui i ricercatori si ritrovano a lavorare, in contesti sociali e, purtroppo, politici spesso ostili o comunque disattenti alla cultura scientifica, alla sperimentazione, alla stessa cultura d’impresa più innovativa. Il senso della protesta? Non resta che partire. Con un’Italia che resta così scientificamente più ignorante, più provinciale, più povera.
“Fuga dei cervelli”, dunque. Cui i governi provano a mettere freni (agevolazioni fiscali per chi torna in Italia, stimoli alle imprese start up, promesse per maggiori investimenti in ricerca), ma sinora con scarsi risultati. I dati Istat (2011) elaborati dalla Fondazione Hume per “La Stampa” dicono che sono 10.643 i laureati che hanno abbandonato l’Italia, mentre solo in 5.752 sono rientrati. Un saldo negativo di 4.891 unità, maggiore dei 3.649 dell’anno precedente e costantemente crescente dal 2004 a oggi. Dove vanno, i nostri laureati in cerca di migliori condizioni di lavoro? In Gran Bretagna, in Svizzera, in Germania, in Francia e negli Usa, soprattutto, mentre si stanno aprendo nuove interessanti opportunità professionali in Cina e nel dinamico Far East, ma anche nel Brasile che ha appena annunciato di avere bisogno nei prossimi anni di 4 milioni di medici (concorrente temibile: un paese di cultura latina, di solida democrazia, già con una robusta presenza di italiani). Tra i “cervelli in fuga” la percentuale maggiore è costituita da ingegneri, laureati in economia e soprattutto in materie scientifiche, i matematici, i chimici, i fisici, i biologi. Competenze preziose per la ricerca. E per l’innovazione delle imprese che hanno bisogno di rafforzare il valore competitivo dell’”economia della conoscenza“.
Perché se ne vanno? Elena Cattaneo, neurobiologa di grande fama, appena nominata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano senatore a vita (insieme ad altre grandi personalità della cultura come Claudio Abbado, Renzo Piano e Carlo Rubbia) denuncia le gravi disparità di trattamento economico tra i ricercatori italiani e quelli che lavorano all’estero. Fabiola Gianotti, capo del team del Cern di Ginevra che ha scoperto il “bosone di Higgs”, la scienziata italiana più famosa al mondo, insiste sulla precarietà cui sono costrette generazioni di ricercatori in Italia e sugli scarsi investimenti pubblici in ricerca, notando che “senza ricerca fondamentale non ci sono idee, senza idee non ci sono applicazioni e senza applicazioni non c’è progresso”. Un’altra condizione negativa per l’Italia.
“Times Higher Education” ha stilato una classifica sul valore di mercato di un ricercatore, calcolando quanto gli enti pubblici e le aziende private investono in stipendio, benefit, premi di risultato, etc. E si vede come ai 93 mila dollari della Corea del Sud e ai 72,8 mila dell’Olanda, corrispondano appena i 14,4 mila dell’Italia. In altri termini, un ricercatore olandese è pagato 5 volte più di quello italiano (tanto per continuare il paragone, si possono ricordare i 50,5 mila dollari in Cina, i 46,1 in Svezia, i 25,8 negli Usa, i 19,4 in Germania). Non si tratta dolo di soldi. Ma anche di peso sociale e di ruolo economico: in Italia ci sono appena 4,1 ricercatori ogni 1000 occupati, 8,87 in Francia, 8,25 in Gran Bretagna, 7,74 in Germania, più o meno il doppio che da noi, cioè. La media Ue è di 7,58. Traguardo cui dovremmo tendere, dunque. Raddoppiando rapidamente, per esempio, quel misero 1% del Pil investito in ricerca. E costruendo così una nuova politica industriale, della cultura, dell’innovazione.
Un’etichetta al polso, quella dei bagagli aerei. E tutti in piazza. In una calda giornata di metà settembre un folto gruppo di ricercatori italiani si è ritrovato a Roma, davanti al Parlamento, per dire di essere pronti a emigrare se il legislatore non adeguerà alle norme della Ue che consentono e facilitano la ricerca. E’ cenerentola europea, infatti, l’Italia, proprio sulla ricerca, un elemento chiave per lo sviluppo equilibrato e sostenibile. Per il livello degli investimenti, appena l’1% del Pil. E per le condizioni in cui i ricercatori si ritrovano a lavorare, in contesti sociali e, purtroppo, politici spesso ostili o comunque disattenti alla cultura scientifica, alla sperimentazione, alla stessa cultura d’impresa più innovativa. Il senso della protesta? Non resta che partire. Con un’Italia che resta così scientificamente più ignorante, più provinciale, più povera.
“Fuga dei cervelli”, dunque. Cui i governi provano a mettere freni (agevolazioni fiscali per chi torna in Italia, stimoli alle imprese start up, promesse per maggiori investimenti in ricerca), ma sinora con scarsi risultati. I dati Istat (2011) elaborati dalla Fondazione Hume per “La Stampa” dicono che sono 10.643 i laureati che hanno abbandonato l’Italia, mentre solo in 5.752 sono rientrati. Un saldo negativo di 4.891 unità, maggiore dei 3.649 dell’anno precedente e costantemente crescente dal 2004 a oggi. Dove vanno, i nostri laureati in cerca di migliori condizioni di lavoro? In Gran Bretagna, in Svizzera, in Germania, in Francia e negli Usa, soprattutto, mentre si stanno aprendo nuove interessanti opportunità professionali in Cina e nel dinamico Far East, ma anche nel Brasile che ha appena annunciato di avere bisogno nei prossimi anni di 4 milioni di medici (concorrente temibile: un paese di cultura latina, di solida democrazia, già con una robusta presenza di italiani). Tra i “cervelli in fuga” la percentuale maggiore è costituita da ingegneri, laureati in economia e soprattutto in materie scientifiche, i matematici, i chimici, i fisici, i biologi. Competenze preziose per la ricerca. E per l’innovazione delle imprese che hanno bisogno di rafforzare il valore competitivo dell’”economia della conoscenza“.
Perché se ne vanno? Elena Cattaneo, neurobiologa di grande fama, appena nominata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano senatore a vita (insieme ad altre grandi personalità della cultura come Claudio Abbado, Renzo Piano e Carlo Rubbia) denuncia le gravi disparità di trattamento economico tra i ricercatori italiani e quelli che lavorano all’estero. Fabiola Gianotti, capo del team del Cern di Ginevra che ha scoperto il “bosone di Higgs”, la scienziata italiana più famosa al mondo, insiste sulla precarietà cui sono costrette generazioni di ricercatori in Italia e sugli scarsi investimenti pubblici in ricerca, notando che “senza ricerca fondamentale non ci sono idee, senza idee non ci sono applicazioni e senza applicazioni non c’è progresso”. Un’altra condizione negativa per l’Italia.
“Times Higher Education” ha stilato una classifica sul valore di mercato di un ricercatore, calcolando quanto gli enti pubblici e le aziende private investono in stipendio, benefit, premi di risultato, etc. E si vede come ai 93 mila dollari della Corea del Sud e ai 72,8 mila dell’Olanda, corrispondano appena i 14,4 mila dell’Italia. In altri termini, un ricercatore olandese è pagato 5 volte più di quello italiano (tanto per continuare il paragone, si possono ricordare i 50,5 mila dollari in Cina, i 46,1 in Svezia, i 25,8 negli Usa, i 19,4 in Germania). Non si tratta dolo di soldi. Ma anche di peso sociale e di ruolo economico: in Italia ci sono appena 4,1 ricercatori ogni 1000 occupati, 8,87 in Francia, 8,25 in Gran Bretagna, 7,74 in Germania, più o meno il doppio che da noi, cioè. La media Ue è di 7,58. Traguardo cui dovremmo tendere, dunque. Raddoppiando rapidamente, per esempio, quel misero 1% del Pil investito in ricerca. E costruendo così una nuova politica industriale, della cultura, dell’innovazione.