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Competizione, ecco perché l’Italia perde ancora colpi

L’Italia perde ancora colpi, in competitività:  fa fatica sui mercati internazionali, attrae sempre meno investimenti esteri, vive ancora in recessione per tutto il corso del 2013 e ha prospettive di bassa crescita nel 2014. L’Italia, insomma, arranca. Vede chiudere le sue imprese. E bruciare il capitale più prezioso, l’industria manifatturiera, che in questi anni ha perso il 15% di capacità, ipotecando seriamente lo sviluppo futuro. In altri termini: esiste ancora, nonostante tutto, una robusta cultura d’impresa che impedisce il tracollo dell’Italia, ma non esiste ancora una seria politica dello sviluppo, non si fa buona politica industriale, non si spende adeguatamente in ricerca, innovazione, formazione, tanto da reggere il passo con gli altri paesi che ci sono concorrenti. Insomma, “quest’Italia si maltratta troppo”, per dirla con le parole di Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, in una intervista al Corriere della Sera (7 giugno).

I dati dell’IMD World Competitivness Centre di Losanna rivelano che nella classifica annuale della competiività internazionale (al primo posto ci sono gli Usa, al secondo la Svizzera, al terzo Hong Kong, al quarto la Svezia, al nono la Germania, al diciottesimo la Gran Bretagna, al ventottesimo la Francia) l’Italia è al quarantaquattresimo, scivolando di quattro posizioni rispetto al 2012, quando era già arretrata. Peggio di noi, Spagna, Portogallo e Grecia. Non è una consolazione. Ci sono fattori congiunturali, la recessione. E fattori strutturali, che pesano in negativo: la burocrazia, il fisco, la mancanza di trasparenza, l’incertezza politica, la conseguente scarsità degli investimenti esteri.

Ecco, appunto, un altro elemento di crisi: la carenza di investimenti internazionali. Secondo ua recente ricerca di Ernst & Young (Il Sole24Ore, 6 giugno), “L’Italia respinge gli investitori” e perde quota rispetto agli altri paesi Ue. Meno progetti, meno risorse, meno occupazione, meno innovazione, dunque meno sviluppo.

Chi legge attentamente i giornali, naturalmente, trova anche delle buone notizie.  Che il gruppo francese Alstom, per esempio, investa 34 milioni di euro per costruire a Sesto San Giovanni un centro di rierca d’eccellenza per la trasmissione di energia. O che la multinazionale americana Valspar compri l’emiliana Inver (vernici) per farne l’headquarter dello sviluppo europeo.  Che il gruppo Usa Mohawak, dopo aver comprato le Ceramiche Marazzi, famose nel mondo, metta a vertice dell’impresa proprio un manager italiano, Mauro Vandini, per fare decollare, con investimenti in nuove tecnologie, un’originale alleanza tra competenze multinazionali e sapienza manifatturiera del distretto di Sassuolo, con l’occhio rivolto ai mercati esteri. Oppure, ancora, che il colosso assicurativo Berkshire Hataway, di cui è grande azionista Warren Buffett, sia in gara per comprare le assicurazioni Milano. O, infine, che sia arrivata al 34% la quota del capitale Pirelli nel portafoglio di investitori internazionali. Tutti segni di fiducia, ognuno a suo modo, nelle capacità delle multinazionali italiane, nella vivacità di crescita delle piccole e medie industrie, nella solidità del capitale umano (gli ingegneri del Politecnici di Milano e Torino, per esempio) per le attività di ricerca industriale d’avanguardia. Buoni investimenti sull’Italia, insomma. Ma tutto questo non basta per essere davvero ottimisti.

Esiste, insomma, un’Italia attiva e produttiva che “deve credere nella crescita”, per usare le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, convinto sostenitore dell’importanza dell’industria manifatturiera come cardine dello sviluppo e della necessità di porre a tutta la Ue l’esigenza di “reindustrializzare l’Europa”. Ma non ci sono ancora politiche e scelte di governo coerentemente all’altezza della sfida.

Sono parecchie, infatti, in questo quadro, le imprese che stanno facendo la loro parte. Ma servono lungimiranti misure di sostegno. Non aiuti o incentivi. Semmai, scelte politiche di fondo che creino un ambiente favorevole alle imprese, agli investimenti interni ed esteri, alla nascita di nuove iniziative imprenditoriali, alle “start up” più innovative. Investimenti pubblici in innovazione e ricerca, formazione e trasferimento tecnologico. E abbattimento dei vincoli burocratici e fiscali per gli investimenti stessi. Politiche nazionali. Ed europee. Un vero e proprio “industrial compact” che faccia da leva di crescita, dopo la ricerca dell’equilibrio dei conti pubblici con il “fiscal compact”. L’Italia industriale sta dimostrando di sapere far fronte alla crisi, pur pagando costi molto pesanti. Governo e politica hanno il dovere di sostenerne resistenza e ripresa.

L’Italia perde ancora colpi, in competitività:  fa fatica sui mercati internazionali, attrae sempre meno investimenti esteri, vive ancora in recessione per tutto il corso del 2013 e ha prospettive di bassa crescita nel 2014. L’Italia, insomma, arranca. Vede chiudere le sue imprese. E bruciare il capitale più prezioso, l’industria manifatturiera, che in questi anni ha perso il 15% di capacità, ipotecando seriamente lo sviluppo futuro. In altri termini: esiste ancora, nonostante tutto, una robusta cultura d’impresa che impedisce il tracollo dell’Italia, ma non esiste ancora una seria politica dello sviluppo, non si fa buona politica industriale, non si spende adeguatamente in ricerca, innovazione, formazione, tanto da reggere il passo con gli altri paesi che ci sono concorrenti. Insomma, “quest’Italia si maltratta troppo”, per dirla con le parole di Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, in una intervista al Corriere della Sera (7 giugno).

I dati dell’IMD World Competitivness Centre di Losanna rivelano che nella classifica annuale della competiività internazionale (al primo posto ci sono gli Usa, al secondo la Svizzera, al terzo Hong Kong, al quarto la Svezia, al nono la Germania, al diciottesimo la Gran Bretagna, al ventottesimo la Francia) l’Italia è al quarantaquattresimo, scivolando di quattro posizioni rispetto al 2012, quando era già arretrata. Peggio di noi, Spagna, Portogallo e Grecia. Non è una consolazione. Ci sono fattori congiunturali, la recessione. E fattori strutturali, che pesano in negativo: la burocrazia, il fisco, la mancanza di trasparenza, l’incertezza politica, la conseguente scarsità degli investimenti esteri.

Ecco, appunto, un altro elemento di crisi: la carenza di investimenti internazionali. Secondo ua recente ricerca di Ernst & Young (Il Sole24Ore, 6 giugno), “L’Italia respinge gli investitori” e perde quota rispetto agli altri paesi Ue. Meno progetti, meno risorse, meno occupazione, meno innovazione, dunque meno sviluppo.

Chi legge attentamente i giornali, naturalmente, trova anche delle buone notizie.  Che il gruppo francese Alstom, per esempio, investa 34 milioni di euro per costruire a Sesto San Giovanni un centro di rierca d’eccellenza per la trasmissione di energia. O che la multinazionale americana Valspar compri l’emiliana Inver (vernici) per farne l’headquarter dello sviluppo europeo.  Che il gruppo Usa Mohawak, dopo aver comprato le Ceramiche Marazzi, famose nel mondo, metta a vertice dell’impresa proprio un manager italiano, Mauro Vandini, per fare decollare, con investimenti in nuove tecnologie, un’originale alleanza tra competenze multinazionali e sapienza manifatturiera del distretto di Sassuolo, con l’occhio rivolto ai mercati esteri. Oppure, ancora, che il colosso assicurativo Berkshire Hataway, di cui è grande azionista Warren Buffett, sia in gara per comprare le assicurazioni Milano. O, infine, che sia arrivata al 34% la quota del capitale Pirelli nel portafoglio di investitori internazionali. Tutti segni di fiducia, ognuno a suo modo, nelle capacità delle multinazionali italiane, nella vivacità di crescita delle piccole e medie industrie, nella solidità del capitale umano (gli ingegneri del Politecnici di Milano e Torino, per esempio) per le attività di ricerca industriale d’avanguardia. Buoni investimenti sull’Italia, insomma. Ma tutto questo non basta per essere davvero ottimisti.

Esiste, insomma, un’Italia attiva e produttiva che “deve credere nella crescita”, per usare le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, convinto sostenitore dell’importanza dell’industria manifatturiera come cardine dello sviluppo e della necessità di porre a tutta la Ue l’esigenza di “reindustrializzare l’Europa”. Ma non ci sono ancora politiche e scelte di governo coerentemente all’altezza della sfida.

Sono parecchie, infatti, in questo quadro, le imprese che stanno facendo la loro parte. Ma servono lungimiranti misure di sostegno. Non aiuti o incentivi. Semmai, scelte politiche di fondo che creino un ambiente favorevole alle imprese, agli investimenti interni ed esteri, alla nascita di nuove iniziative imprenditoriali, alle “start up” più innovative. Investimenti pubblici in innovazione e ricerca, formazione e trasferimento tecnologico. E abbattimento dei vincoli burocratici e fiscali per gli investimenti stessi. Politiche nazionali. Ed europee. Un vero e proprio “industrial compact” che faccia da leva di crescita, dopo la ricerca dell’equilibrio dei conti pubblici con il “fiscal compact”. L’Italia industriale sta dimostrando di sapere far fronte alla crisi, pur pagando costi molto pesanti. Governo e politica hanno il dovere di sostenerne resistenza e ripresa.

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