Costruire ponti e animare il dialogo, la cultura d’impresa per lo sviluppo
Costruire ponti, invece di alzare muri. E rilanciare quella “civiltà del dialogo” di cui è pur intessuta la migliore cultura italiana, europea. Proprio “dialogo” è stata la parola di maggior intensità che è risuonata nell’incontro, la scorsa settimana, tra il Papa Francesco e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, due uomini convinti della necessità di un confronto aperto non solo tra grandi istituzioni (la Chiesa, lo Stato…) ma anche tra persone che pur proveniendo da storie, esperienze e culture diverse, hanno consapevolezza della radici comuni e senso di responsabilità di contribuire a progettare un futuro migliore, per le nuove generazioni. Dialogo, appunto. Collaborazione. E, perché no?, competizione, ritrovandone il senso etimologico più profondo, il “cum petere”, l’andare insieme verso un obiettivo comune, non come avversari ma come individui che valorizzano se stessi nell’ambito di una comunità. Lezione civile e morale, dunque. Cui ispirare comportamenti quotidiani e ambiziose progettualità.
Dialogo e confronto sono termini preziosi anche per la cultura d’impresa, su cui insistere proprio nel corso degli incontri, dei convegni, delle manifestazioni e delle mostre che animano, come ogni anno, la “Settimana della cultura d’impresa”, organizzata da Confindustria e da Museimpresa in tutta Italia dal 14 al 24 novembre, con il contributo attivo di aziende grandi, medie e piccole. Il tema di fondo è “Più cultura, più impresa”, che risente molto anche della scelta strategica della Fondazione Pirelli, secondo cui “impresa è cultura”, una “cultura politecnica” che considera l’innovazione, anima dell’impresa stessa, nella sua declinazione più ampia, dei prodotti e dei sistemi di produzione, delle relazioni industriali e delle regole di “governance”, delle tecnologie e dei nuovi materiali, della formazione permanente delle persone e dei linguaggi della comunicazione e del marketing, dei rapporti tra l’impresa stessa e i suoi stakeholders, le comunità locali, le scuole e le università, i mondi della ricerca scientifica e della creatività artistica, etc.
Dialogo e confronto, appunto. In chiave di sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente. L’industria, in questa prospettiva, è centro vitale. Il luogo in cui “costruire ponti” è lavorio quotidiano. Verso i dipendenti, i fornitori, i clienti. Verso il mercato, dei consumatori ma anche degli investitori finanziari. Verso chi fa ricerca di base, per sostenerla e contemporaneamente per alimentare la ricerca applicata che contribuisce all’innovazione. Industria come tessuto di relazioni. Come cardine di civiltà, producendo ricchezza, lavoro, trame di coesione nel tessuto sociale.
La cultura d’impresa italiana è ricca, di esperienze dense di simboli del confronto e di pratiche delle relazioni. Olivetti e Pirelli ne sono paradigmi storici. Ma tutt’altro che solitari, isolati. E i momenti migliori dello sviluppo italiano, nei tempi allegri del boom economico e in quelli drammatici delle più gravi tensioni sociali e del terrorismo, sono stati segnati dal dialogo tra imprenditori aperti e responsabili, grandi dirigenti sindacali, politici lungimiranti, banchieri colti e attenti al rapporto con le persone di cultura e di scienza (Raffaele Mattioli della Comit, per fare solo uno dei possibili nomi).
Impresa come agente centrale della crescita econmica e civile, dunque. E cultura come asse dello sviluppo. Fa bene il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel ribadire l’importanza dell’articolo 1 della Costituzione (la centralità del lavoro) ma anche dell’articolo 9, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. E lavorano bene le imprese e le loro associazioni quando, tra documenti stategici, convegni e “Settimane della cultura”, insistono sulla ricerca e sulle sintesi tra umanesimo e cultura scientifica, visste non come dualità ma come interrelazioni e sintesi. Dialogo, ancora una volta. Rilanciando, sulla prima pagina de “La Stampa” (17 novembre), la centralità della ricerca, Giovanni Bignami ha ricordato la lezione di un grande scienziato, William H. Press, dell’autorevole American Association for the Advancement of Science che, citando George Washington, il primo presidente degli Usa, ha scritto: “La conoscenza è, in ogni nazione, la base più sicura per la pubblica felicità”. Lezione da tenere ben a mente. Nel mondo politico. Nei circuiti intellettuali. Nelle pubbliche amministrazioni. E, appunto, nelle imprese. Nella sintesi tra cultura, sviluppo, coesione sociale. Ne abbiamo un gran patrimonio, proprio noi italiani. Da usare di più. E meglio.
Costruire ponti, invece di alzare muri. E rilanciare quella “civiltà del dialogo” di cui è pur intessuta la migliore cultura italiana, europea. Proprio “dialogo” è stata la parola di maggior intensità che è risuonata nell’incontro, la scorsa settimana, tra il Papa Francesco e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, due uomini convinti della necessità di un confronto aperto non solo tra grandi istituzioni (la Chiesa, lo Stato…) ma anche tra persone che pur proveniendo da storie, esperienze e culture diverse, hanno consapevolezza della radici comuni e senso di responsabilità di contribuire a progettare un futuro migliore, per le nuove generazioni. Dialogo, appunto. Collaborazione. E, perché no?, competizione, ritrovandone il senso etimologico più profondo, il “cum petere”, l’andare insieme verso un obiettivo comune, non come avversari ma come individui che valorizzano se stessi nell’ambito di una comunità. Lezione civile e morale, dunque. Cui ispirare comportamenti quotidiani e ambiziose progettualità.
Dialogo e confronto sono termini preziosi anche per la cultura d’impresa, su cui insistere proprio nel corso degli incontri, dei convegni, delle manifestazioni e delle mostre che animano, come ogni anno, la “Settimana della cultura d’impresa”, organizzata da Confindustria e da Museimpresa in tutta Italia dal 14 al 24 novembre, con il contributo attivo di aziende grandi, medie e piccole. Il tema di fondo è “Più cultura, più impresa”, che risente molto anche della scelta strategica della Fondazione Pirelli, secondo cui “impresa è cultura”, una “cultura politecnica” che considera l’innovazione, anima dell’impresa stessa, nella sua declinazione più ampia, dei prodotti e dei sistemi di produzione, delle relazioni industriali e delle regole di “governance”, delle tecnologie e dei nuovi materiali, della formazione permanente delle persone e dei linguaggi della comunicazione e del marketing, dei rapporti tra l’impresa stessa e i suoi stakeholders, le comunità locali, le scuole e le università, i mondi della ricerca scientifica e della creatività artistica, etc.
Dialogo e confronto, appunto. In chiave di sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente. L’industria, in questa prospettiva, è centro vitale. Il luogo in cui “costruire ponti” è lavorio quotidiano. Verso i dipendenti, i fornitori, i clienti. Verso il mercato, dei consumatori ma anche degli investitori finanziari. Verso chi fa ricerca di base, per sostenerla e contemporaneamente per alimentare la ricerca applicata che contribuisce all’innovazione. Industria come tessuto di relazioni. Come cardine di civiltà, producendo ricchezza, lavoro, trame di coesione nel tessuto sociale.
La cultura d’impresa italiana è ricca, di esperienze dense di simboli del confronto e di pratiche delle relazioni. Olivetti e Pirelli ne sono paradigmi storici. Ma tutt’altro che solitari, isolati. E i momenti migliori dello sviluppo italiano, nei tempi allegri del boom economico e in quelli drammatici delle più gravi tensioni sociali e del terrorismo, sono stati segnati dal dialogo tra imprenditori aperti e responsabili, grandi dirigenti sindacali, politici lungimiranti, banchieri colti e attenti al rapporto con le persone di cultura e di scienza (Raffaele Mattioli della Comit, per fare solo uno dei possibili nomi).
Impresa come agente centrale della crescita econmica e civile, dunque. E cultura come asse dello sviluppo. Fa bene il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel ribadire l’importanza dell’articolo 1 della Costituzione (la centralità del lavoro) ma anche dell’articolo 9, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. E lavorano bene le imprese e le loro associazioni quando, tra documenti stategici, convegni e “Settimane della cultura”, insistono sulla ricerca e sulle sintesi tra umanesimo e cultura scientifica, visste non come dualità ma come interrelazioni e sintesi. Dialogo, ancora una volta. Rilanciando, sulla prima pagina de “La Stampa” (17 novembre), la centralità della ricerca, Giovanni Bignami ha ricordato la lezione di un grande scienziato, William H. Press, dell’autorevole American Association for the Advancement of Science che, citando George Washington, il primo presidente degli Usa, ha scritto: “La conoscenza è, in ogni nazione, la base più sicura per la pubblica felicità”. Lezione da tenere ben a mente. Nel mondo politico. Nei circuiti intellettuali. Nelle pubbliche amministrazioni. E, appunto, nelle imprese. Nella sintesi tra cultura, sviluppo, coesione sociale. Ne abbiamo un gran patrimonio, proprio noi italiani. Da usare di più. E meglio.