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Cresce il fascino della parola “civile”per parlare di economia e imprese

In questi nostri tempi così difficili e controversi, nel cuore della “società del rischio”, tra guerre guerreggiate e pandemie comunque incombenti, disastri ambientali e rancori sociali, nel discorso pubblico si diffonde, per buona sorte, l’uso d’una parola importante. La parola “civile”.

A Milano si organizza una “Civil Week” (l’iniziativa è del settimanale “Buone Notizie” del Corriere della Sera). Nei documenti di rilancio del Touring Club per “prendersi cura dell’Italia bene comune” si insiste sul ruolo centrale dei territori e dei loro abitanti, i cittadini, secondo i “valori civili”. In molte conversazioni di gruppi su whatsapp, si discute molto dell’importanza di introdurre nelle scuola “l’educazione civica”. “Civic”, si chiama la rivista della Fondazione Italia Sociale, nata quattro anni fa per iniziativa di un gruppo di imprese e personalità dell’economia e della cultura per raccogliere fondi da destinare a iniziative di interesse comune (il presidente è Enzo Manes): organizza, con la Luiss, dei corsi, molto frequentati, di “cultura civica”. E “civile” diventa termine positivo, dai rapporti del Censis ai buoni libri di politica, come reazione al degrado delle relazioni sociali e del discorso pubblico, sotto i colpi dell’opinionismo vociante e della volgarità faziosa così diffusi su social media e talk show in Tv.

Le parole hanno un senso, indicano una prospettiva. “Civile” significa consapevole, responsabile, competente, attento all’ascolto, capace di “farsi carico” dei problemi di una comunità. “Civile” come scelta di dialogo. “Civile” come sistema di valori positivi. “Civile” – perché no?- come “gentile”. La “gentilezza”, proprio in una stagione così incerta e dolorosa, è un valore fondamentale. Una dimensione etica di relazioni e comportamenti. Uno stile di vita.

Come si traduce “civile” in termini di cultura d’impresa? “Lezioni di commercio o sia di economia civile” ha per titolo il trattato scritto nel 1765 da Antonio Genovesi, illuminista napoletano, considerato da Adam Smith come un maestro ispiratore delle sue elaborazioni economiche. E proprio quella “economia civile” che affonda le sue radici nell’antica esperienza italiana del “produrre fin dalla Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo” (secondo l’essenziale sintesi di Carlo Maria Cipolla) è stata rilanciata in tempi recenti dalle riflessioni di Stefano Zamagni, brillante economista, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Economia civile ed economia circolare sono la base del pensiero di Papa Francesco per una “economia giusta” ma anche un essenziale punto di riferimento di una diffusa letteratura economica che ha, tra i suoi migliori esponenti, Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Paul Krugman e, per tornare agli italiani, Franco Modigliani e Federico Caffè, maestri di una generazione di più giovani economisti che da qualche tempo rileggono e rilanciano il pensiero liberale con chiare venature sociali di John Maynard Keynes.

Economia civile e sostenibilità ambientale e sociale. Economia civile come riferimento per il passaggio dall’ossessione della crescita dello shareholder value (profitti e quotazioni di Borsa) al primato degli stakeholders values (i valori e gli interessi di lavoratori, fornitori, clienti, consumatori, cittadini delle comunità su cui insiste l’impresa). Rieccoci, così, alla relazione tra “civile” e cives, i cittadini.

Ripensando anche all’impresa che si fa carico del creare valore (ricchezza) e dell’essere soggetto attivo di un “capitale sociale” che ragiona su benessere diffuso, cultura, inclusione sociale, solidarietà, promozione di valori di comunità, vengono in mente altre parole e altre esperienze, a proposito dell’economia civile e dell’intraprendenza. La “fabbrica bella”, per esempio, e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sostenibile, immersa nel verde, accogliente, sicura. E la sicurezza sul lavoro, appunto. Le biblioteche aziendali, stimolo di buone letture, ricche di libri per bambini, pensate come luoghi di lettura e di discussioni letterarie, storiche, scientifiche o economiche tra gli iscritti ai circoli dei dipendenti. Le mense ben curate, seguendo gli esempi dati nel tempo da esperienze pilota (Olivetti, Pirelli, Dalmine, etc.). Le infermerie e i centri medici in azienda o al servizio di distretti industriali. I musei e gli archivi d’impresa, come luoghi in cui la custodia della memoria del “fare, fare bene e fare del bene” diventa costante stimolo d’innovazione. E le distese relazioni industriali che, proprio nel dialogo “civile” tra impresa e sindacati, costruiscono nuove e migliori esperienze di produttività. E così via continuando, nella compilazione di quel catalogo delle “buone pratiche” che connotano il “cambio di paradigma” del miglior capitalismo italiano verso un’economia del “benessere equo e sostenibile” e dunque di qualità di produzioni, prodotti e servizi e di maggiore competitività.

C’è un’espressione, che sintetizza questo processo in corso, tipicamente italiano: “umanesimo industriale”. La storia della “civiltà delle macchine” cara alla pubblicistica degli anni Cinquanta nelle migliori riviste aziendali del tempo diventa oggi “civiltà del lavoro”, cura delle persone, “umanesimo digitale”. E cioè attitudine a pensare l’impresa, la società, lo sviluppo in modo “civile”.

In questi nostri tempi così difficili e controversi, nel cuore della “società del rischio”, tra guerre guerreggiate e pandemie comunque incombenti, disastri ambientali e rancori sociali, nel discorso pubblico si diffonde, per buona sorte, l’uso d’una parola importante. La parola “civile”.

A Milano si organizza una “Civil Week” (l’iniziativa è del settimanale “Buone Notizie” del Corriere della Sera). Nei documenti di rilancio del Touring Club per “prendersi cura dell’Italia bene comune” si insiste sul ruolo centrale dei territori e dei loro abitanti, i cittadini, secondo i “valori civili”. In molte conversazioni di gruppi su whatsapp, si discute molto dell’importanza di introdurre nelle scuola “l’educazione civica”. “Civic”, si chiama la rivista della Fondazione Italia Sociale, nata quattro anni fa per iniziativa di un gruppo di imprese e personalità dell’economia e della cultura per raccogliere fondi da destinare a iniziative di interesse comune (il presidente è Enzo Manes): organizza, con la Luiss, dei corsi, molto frequentati, di “cultura civica”. E “civile” diventa termine positivo, dai rapporti del Censis ai buoni libri di politica, come reazione al degrado delle relazioni sociali e del discorso pubblico, sotto i colpi dell’opinionismo vociante e della volgarità faziosa così diffusi su social media e talk show in Tv.

Le parole hanno un senso, indicano una prospettiva. “Civile” significa consapevole, responsabile, competente, attento all’ascolto, capace di “farsi carico” dei problemi di una comunità. “Civile” come scelta di dialogo. “Civile” come sistema di valori positivi. “Civile” – perché no?- come “gentile”. La “gentilezza”, proprio in una stagione così incerta e dolorosa, è un valore fondamentale. Una dimensione etica di relazioni e comportamenti. Uno stile di vita.

Come si traduce “civile” in termini di cultura d’impresa? “Lezioni di commercio o sia di economia civile” ha per titolo il trattato scritto nel 1765 da Antonio Genovesi, illuminista napoletano, considerato da Adam Smith come un maestro ispiratore delle sue elaborazioni economiche. E proprio quella “economia civile” che affonda le sue radici nell’antica esperienza italiana del “produrre fin dalla Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo” (secondo l’essenziale sintesi di Carlo Maria Cipolla) è stata rilanciata in tempi recenti dalle riflessioni di Stefano Zamagni, brillante economista, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Economia civile ed economia circolare sono la base del pensiero di Papa Francesco per una “economia giusta” ma anche un essenziale punto di riferimento di una diffusa letteratura economica che ha, tra i suoi migliori esponenti, Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Paul Krugman e, per tornare agli italiani, Franco Modigliani e Federico Caffè, maestri di una generazione di più giovani economisti che da qualche tempo rileggono e rilanciano il pensiero liberale con chiare venature sociali di John Maynard Keynes.

Economia civile e sostenibilità ambientale e sociale. Economia civile come riferimento per il passaggio dall’ossessione della crescita dello shareholder value (profitti e quotazioni di Borsa) al primato degli stakeholders values (i valori e gli interessi di lavoratori, fornitori, clienti, consumatori, cittadini delle comunità su cui insiste l’impresa). Rieccoci, così, alla relazione tra “civile” e cives, i cittadini.

Ripensando anche all’impresa che si fa carico del creare valore (ricchezza) e dell’essere soggetto attivo di un “capitale sociale” che ragiona su benessere diffuso, cultura, inclusione sociale, solidarietà, promozione di valori di comunità, vengono in mente altre parole e altre esperienze, a proposito dell’economia civile e dell’intraprendenza. La “fabbrica bella”, per esempio, e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sostenibile, immersa nel verde, accogliente, sicura. E la sicurezza sul lavoro, appunto. Le biblioteche aziendali, stimolo di buone letture, ricche di libri per bambini, pensate come luoghi di lettura e di discussioni letterarie, storiche, scientifiche o economiche tra gli iscritti ai circoli dei dipendenti. Le mense ben curate, seguendo gli esempi dati nel tempo da esperienze pilota (Olivetti, Pirelli, Dalmine, etc.). Le infermerie e i centri medici in azienda o al servizio di distretti industriali. I musei e gli archivi d’impresa, come luoghi in cui la custodia della memoria del “fare, fare bene e fare del bene” diventa costante stimolo d’innovazione. E le distese relazioni industriali che, proprio nel dialogo “civile” tra impresa e sindacati, costruiscono nuove e migliori esperienze di produttività. E così via continuando, nella compilazione di quel catalogo delle “buone pratiche” che connotano il “cambio di paradigma” del miglior capitalismo italiano verso un’economia del “benessere equo e sostenibile” e dunque di qualità di produzioni, prodotti e servizi e di maggiore competitività.

C’è un’espressione, che sintetizza questo processo in corso, tipicamente italiano: “umanesimo industriale”. La storia della “civiltà delle macchine” cara alla pubblicistica degli anni Cinquanta nelle migliori riviste aziendali del tempo diventa oggi “civiltà del lavoro”, cura delle persone, “umanesimo digitale”. E cioè attitudine a pensare l’impresa, la società, lo sviluppo in modo “civile”.

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