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Cultura d’impresa, il primato veneto e la competitività nello scenario Ue

Quattro città insieme, per fare da “capitale della cultura d’impresa” nel 2022. Quattro territori tra i più produttivi e competitivi in Italia e, perché no? in Europa, una “area vasta” ricca di manifatture e servizi, per raccontare storie industriali e parlare, con lo sguardo rivolto al futuro, delle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la competitività, la crescita. Padova e Treviso, Venezia e Rovigo hanno vinto la gara per fare quest’anno da punto di riferimento della cultura d’impresa, dando così seguito a un’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria (le capitali precedenti sono state Genova e Alba). La cerimonia di apertura è stata celebrata il 5 aprile in un affollato Teatro Goldoni a Venezia. E ci si prepara a 80 iniziative, nei prossimi mesi, per ragionare, tra imprenditori, responsabili delle istituzioni, attori politici e sociali, personalità della cultura, di come fare vivere e valorizzare, anche in tempi così difficili di crisi e tensioni geopolitiche, l’attitudine italiana a “fare, fare bene e fare del bene”.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. E, ancora, memoria di un’antica sapienza manifatturiera e sguardo lungo verso il futuro dell’economia sostenibile. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi. E un racconto “degli italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”, per usare, ancora una volta, la brillantissima sintesi di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia.

Cultura – s’è detto dal palcoscenico del Teatro Goldoni di Venezia – è, naturalmente, letteratura, musica, pittura e scultura, cinema e fotografia, tutte le forme molteplici della rappresentazione (che dovrebbe stabilire relazioni fertili pure con il mondo dell’impresa e del lavoro). Ma cultura è anche scienza, matematica, fisica, un brevetto industriale e una formula chimica che cambia industria e consumi oltre che qualità della vita (come quella del polipropilene con cui Giulio Natta vince nel 1963 il Nobel per la chimica). Cultura è un contratto di lavoro che definisce le relazioni di potere e di lavoro tra i soggetti che fanno vivere un’impresa. Cultura, un bilancio e un budget. Cultura, i linguaggi innovativi digitali del marketing, della pubblicità e della comunicazione. Cultura, il design che dagli anni Cinquanta a oggi, legando bellezza a funzionalità, ha fatto da cardine dello sviluppo industriale e delle competitività internazionale dell’impresa italiana. I musei e gli archivi riuniti in Museimpresa ne offrono, da vent’anni, straordinarie testimonianze.

E cultura, naturalmente, è anche l’architettura industriale che connota le fabbriche Olivetti a Ivrea e Pozzuoli e i luoghi del lavoro Pirelli, dal Grattacielo progettato da Gio Ponti alla ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti (dalla fabbrica industriale di pneumatici e cavi all’attuale “fabbrica del sapere” dell’università) sino alla “fabbrica bella” firmata da Renzo Piano per il Polo Industriale di Settimo Torinese, luminosa, trasparente, sicura e sostenibile, tra quattrocento alberi di ciliegio. Una cultura trasformativa riassumibile nella sintesi dell’ “umanesimo industriale” che oggi si aggiorna in “umanesimo digitale”. E nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” e le tecnologie e i saperi della vita quotidiana.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono luoghi esemplari. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle conoscenze e delle competenze. Pensare a relazioni multidisciplinari tra ingegneria e filosofia, matematica e sociologia, economia e neuroscienze, giurisprudenza e meccatronica, proprio per fare fronte alla complessità che segna il nostro tempo controverso e inquieto.
Per capire meglio il senso delle relazioni politecniche, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico industriale. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Sono proprio tutte queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da possibile leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, dalle conseguenze del Climate change alla pandemia da Covid 19 e alla recessione e, adesso, dalle drammatiche evoluzioni della guerra in Ucraina e della crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio.
Si ricompongono le catene del valore, in una nuova dimensione di “ri-globalizzazione selettiva”. Si definiscono relazioni competitive nuove, man mano che si intensificano i fenomeni di backshoring o reshoring, il ritorno delle strutture produttive industriali nei paesi d’origine, con l’Europa come rinnovata piattaforma manifatturiera. E proprio la presa di coscienza della Ue sulla necessità di una propria autonomia strategica (per non essere schiacciata dai conflitti delle superpotenze) chiede una serie di scelte politiche su sicurezza, energia e tecnologia che spingono con urgenza non solo verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale ma anche verso nuove e migliori scelte di politica industriale e sociale.

Proprio in questo contesto di rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e di scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, la cultura d’impresa italiana (memoria e innovazione, design e sostenibilità ambientale e sociale, attenzione alle persone e flessibile e sofisticata Intelligenza Artificiale) ha un valore straordinario per la crescita dell’economia circolare e civile e per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto competitivo europeo.
Le nostre imprese – s’è detto a Venezia, parlando del “nuovo triangolo industriale” Lombardia-Veneto ed Emilia – hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la nostra storia economica. E può ben continuare a fare futuro.

(foto Getty Images)

Quattro città insieme, per fare da “capitale della cultura d’impresa” nel 2022. Quattro territori tra i più produttivi e competitivi in Italia e, perché no? in Europa, una “area vasta” ricca di manifatture e servizi, per raccontare storie industriali e parlare, con lo sguardo rivolto al futuro, delle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la competitività, la crescita. Padova e Treviso, Venezia e Rovigo hanno vinto la gara per fare quest’anno da punto di riferimento della cultura d’impresa, dando così seguito a un’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria (le capitali precedenti sono state Genova e Alba). La cerimonia di apertura è stata celebrata il 5 aprile in un affollato Teatro Goldoni a Venezia. E ci si prepara a 80 iniziative, nei prossimi mesi, per ragionare, tra imprenditori, responsabili delle istituzioni, attori politici e sociali, personalità della cultura, di come fare vivere e valorizzare, anche in tempi così difficili di crisi e tensioni geopolitiche, l’attitudine italiana a “fare, fare bene e fare del bene”.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. E, ancora, memoria di un’antica sapienza manifatturiera e sguardo lungo verso il futuro dell’economia sostenibile. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi. E un racconto “degli italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”, per usare, ancora una volta, la brillantissima sintesi di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia.

Cultura – s’è detto dal palcoscenico del Teatro Goldoni di Venezia – è, naturalmente, letteratura, musica, pittura e scultura, cinema e fotografia, tutte le forme molteplici della rappresentazione (che dovrebbe stabilire relazioni fertili pure con il mondo dell’impresa e del lavoro). Ma cultura è anche scienza, matematica, fisica, un brevetto industriale e una formula chimica che cambia industria e consumi oltre che qualità della vita (come quella del polipropilene con cui Giulio Natta vince nel 1963 il Nobel per la chimica). Cultura è un contratto di lavoro che definisce le relazioni di potere e di lavoro tra i soggetti che fanno vivere un’impresa. Cultura, un bilancio e un budget. Cultura, i linguaggi innovativi digitali del marketing, della pubblicità e della comunicazione. Cultura, il design che dagli anni Cinquanta a oggi, legando bellezza a funzionalità, ha fatto da cardine dello sviluppo industriale e delle competitività internazionale dell’impresa italiana. I musei e gli archivi riuniti in Museimpresa ne offrono, da vent’anni, straordinarie testimonianze.

E cultura, naturalmente, è anche l’architettura industriale che connota le fabbriche Olivetti a Ivrea e Pozzuoli e i luoghi del lavoro Pirelli, dal Grattacielo progettato da Gio Ponti alla ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti (dalla fabbrica industriale di pneumatici e cavi all’attuale “fabbrica del sapere” dell’università) sino alla “fabbrica bella” firmata da Renzo Piano per il Polo Industriale di Settimo Torinese, luminosa, trasparente, sicura e sostenibile, tra quattrocento alberi di ciliegio. Una cultura trasformativa riassumibile nella sintesi dell’ “umanesimo industriale” che oggi si aggiorna in “umanesimo digitale”. E nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” e le tecnologie e i saperi della vita quotidiana.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono luoghi esemplari. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle conoscenze e delle competenze. Pensare a relazioni multidisciplinari tra ingegneria e filosofia, matematica e sociologia, economia e neuroscienze, giurisprudenza e meccatronica, proprio per fare fronte alla complessità che segna il nostro tempo controverso e inquieto.
Per capire meglio il senso delle relazioni politecniche, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico industriale. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Sono proprio tutte queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da possibile leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, dalle conseguenze del Climate change alla pandemia da Covid 19 e alla recessione e, adesso, dalle drammatiche evoluzioni della guerra in Ucraina e della crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio.
Si ricompongono le catene del valore, in una nuova dimensione di “ri-globalizzazione selettiva”. Si definiscono relazioni competitive nuove, man mano che si intensificano i fenomeni di backshoring o reshoring, il ritorno delle strutture produttive industriali nei paesi d’origine, con l’Europa come rinnovata piattaforma manifatturiera. E proprio la presa di coscienza della Ue sulla necessità di una propria autonomia strategica (per non essere schiacciata dai conflitti delle superpotenze) chiede una serie di scelte politiche su sicurezza, energia e tecnologia che spingono con urgenza non solo verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale ma anche verso nuove e migliori scelte di politica industriale e sociale.

Proprio in questo contesto di rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e di scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, la cultura d’impresa italiana (memoria e innovazione, design e sostenibilità ambientale e sociale, attenzione alle persone e flessibile e sofisticata Intelligenza Artificiale) ha un valore straordinario per la crescita dell’economia circolare e civile e per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto competitivo europeo.
Le nostre imprese – s’è detto a Venezia, parlando del “nuovo triangolo industriale” Lombardia-Veneto ed Emilia – hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la nostra storia economica. E può ben continuare a fare futuro.

(foto Getty Images)

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