Ecco come cultura e creatività fanno crescere anche il Pil
Con la cultura si mangia, si diventa più competitivi, si fa crescere il Pil. E nella nuova geografia dello sviluppo, economia e qualità della vita migliorano proprio là dove si investe in creatività e innovazione, si fa ricerca, si producono arte, letteratura, musica, cinema e teatro, si tutela e valorizza il patrimonio culturale, si dà spazio alla scienza, si insiste sulla formazione delle persone, sia negli anni della scuola che nel resto del tempo della loro vita. Concetti già noti, naturalmente. Ma che purtroppo, invece, stentano a trovare spazio nell’elaborazione e nell’applicazione concreta della politiche di governo, soprattutto in Italia.
Per approfondire ancora una volta la riflessione, vale la pena leggere le pagine de “La nuova geografia del lavoro”, di un economista italiano, Enrico Moretti, che insegna a San Francisco, alla Berkeley University, scrive sul “New York Times” e il “Wall Street Journal” ed è consultato dal presidente Barack Obama sui temi del rapporto tra innovazione e occupazione. Il saggio, definito dalla rivista “Forbes” “il libro di economia più importante dell’anno” documenta, innazitutto, come l’innovazione abbia cambiato la mappa del lavoro in America, con il tramonto delle vecchie città industriali, come Detroit e Cleveland, che non hanno saputo aggiornarsi dopo la crisi della tradizionale industria manifatturiera e con il successo di metropoli (San Francisco e Seattle, Austin e San Josè, Boston e Washington) in cui è stato costruito un “ecosistema innovativo” fondato su biotech, ricerca medica e farmacologica, industria dei semiconduttori e del software, comunicazione e altri settori in via di continua innovazione come il clean tech (le tecnologie ambientali più avanzate), il digital entertainement e i “nuovi materiali” con il supporto del nano-tech. Ricerca e hi tech, appunto. Creatività che lega saperi umanistici e competenze scientifiche in originali sintesi. Stimolante cultura d’impresa.
L’effetto? Un boom nella creazione di ricchezza, nella competività e nell’attrattività delle città in questione (un vero e proprio circuito virtuoso: i luoghi dei talenti attraggono altri talenti). Con un risultato positivo in termini di posti di lavoro. E un’ulteriore spinta di fiducia nel futuro. Le ricerche di Moretti dimostrano infatti che per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita. Immaginazione. Cultura. Creatività. Sviluppo economico e sociale.
Che sia proprio questa la strada di un futuro che è già qui lo conferma anche la scelta del Bureau of Economic Analysis, il principale istitito di statistiche degli Usa, di inserire dai primi di agosto, tra i fattori del Pil, anche la “creatività”. “Il Pil della fantasia”, hanno scritto gli osservatori più poetici. E a ragione. Perché le spese per la ricerca, lo sviluppo e la creazione in campo tecnico, scientifico, artistico e culturale (una nuova molecola per la medicina, ma anche un romanzo, una canzone, un film) saranno conteggiati tra gli investimenti, utili dunque a produrre una ricchezza migliore (e maggiore: con questo nuovo calcolo, il pil americano aumenterebbe del 2,7%). Con la cultura, appunto, si va avanti.
E in Italia? Invece di investire in cultura, ricerca, innovazione e formazione, si taglia, come dimostrano due bravi giornalisti, Bruno Arpaia e Pietro Greco, in “La cultura si mangia!”, accurata documentazione di come e quanto, negli anni scorsi, i governi abbiano drasticamente ridimensionato gli investimenti pubblici, ai livello più bassi in Europa e abbiano dunque contribuito in modo decisivo alla stagnazione dell’economia italiana.
Strategia da cambiare, dunque. Più cultura, più pil, più competitività delle nostre città (ancora forti di patrimoni e attitudini culturali da valorizzare), più sviluppo. E’, appunto, una buona impresa.
Con la cultura si mangia, si diventa più competitivi, si fa crescere il Pil. E nella nuova geografia dello sviluppo, economia e qualità della vita migliorano proprio là dove si investe in creatività e innovazione, si fa ricerca, si producono arte, letteratura, musica, cinema e teatro, si tutela e valorizza il patrimonio culturale, si dà spazio alla scienza, si insiste sulla formazione delle persone, sia negli anni della scuola che nel resto del tempo della loro vita. Concetti già noti, naturalmente. Ma che purtroppo, invece, stentano a trovare spazio nell’elaborazione e nell’applicazione concreta della politiche di governo, soprattutto in Italia.
Per approfondire ancora una volta la riflessione, vale la pena leggere le pagine de “La nuova geografia del lavoro”, di un economista italiano, Enrico Moretti, che insegna a San Francisco, alla Berkeley University, scrive sul “New York Times” e il “Wall Street Journal” ed è consultato dal presidente Barack Obama sui temi del rapporto tra innovazione e occupazione. Il saggio, definito dalla rivista “Forbes” “il libro di economia più importante dell’anno” documenta, innazitutto, come l’innovazione abbia cambiato la mappa del lavoro in America, con il tramonto delle vecchie città industriali, come Detroit e Cleveland, che non hanno saputo aggiornarsi dopo la crisi della tradizionale industria manifatturiera e con il successo di metropoli (San Francisco e Seattle, Austin e San Josè, Boston e Washington) in cui è stato costruito un “ecosistema innovativo” fondato su biotech, ricerca medica e farmacologica, industria dei semiconduttori e del software, comunicazione e altri settori in via di continua innovazione come il clean tech (le tecnologie ambientali più avanzate), il digital entertainement e i “nuovi materiali” con il supporto del nano-tech. Ricerca e hi tech, appunto. Creatività che lega saperi umanistici e competenze scientifiche in originali sintesi. Stimolante cultura d’impresa.
L’effetto? Un boom nella creazione di ricchezza, nella competività e nell’attrattività delle città in questione (un vero e proprio circuito virtuoso: i luoghi dei talenti attraggono altri talenti). Con un risultato positivo in termini di posti di lavoro. E un’ulteriore spinta di fiducia nel futuro. Le ricerche di Moretti dimostrano infatti che per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita. Immaginazione. Cultura. Creatività. Sviluppo economico e sociale.
Che sia proprio questa la strada di un futuro che è già qui lo conferma anche la scelta del Bureau of Economic Analysis, il principale istitito di statistiche degli Usa, di inserire dai primi di agosto, tra i fattori del Pil, anche la “creatività”. “Il Pil della fantasia”, hanno scritto gli osservatori più poetici. E a ragione. Perché le spese per la ricerca, lo sviluppo e la creazione in campo tecnico, scientifico, artistico e culturale (una nuova molecola per la medicina, ma anche un romanzo, una canzone, un film) saranno conteggiati tra gli investimenti, utili dunque a produrre una ricchezza migliore (e maggiore: con questo nuovo calcolo, il pil americano aumenterebbe del 2,7%). Con la cultura, appunto, si va avanti.
E in Italia? Invece di investire in cultura, ricerca, innovazione e formazione, si taglia, come dimostrano due bravi giornalisti, Bruno Arpaia e Pietro Greco, in “La cultura si mangia!”, accurata documentazione di come e quanto, negli anni scorsi, i governi abbiano drasticamente ridimensionato gli investimenti pubblici, ai livello più bassi in Europa e abbiano dunque contribuito in modo decisivo alla stagnazione dell’economia italiana.
Strategia da cambiare, dunque. Più cultura, più pil, più competitività delle nostre città (ancora forti di patrimoni e attitudini culturali da valorizzare), più sviluppo. E’, appunto, una buona impresa.