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Ecco i numeri per parlare di lavoro e assistenza, riformando “quota 100” e reddito di cittadinanza

Ragionare con i numeri, per discutere di riforme serie e di futuro socialmente sostenibile. Un primo numero è 400mila e cioè i posti di lavoro che le imprese temono di non potere coprire, in questa fine di anno di impetuosa ripresa (un Pil che crescerà del 6% circa) per assenza di mano d’opera specializzata, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, trainanti per lo sviluppo (i dati sono illustrati da una inchiesta di “Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 13 settembre).
Un secondo numero è una serie: 3,5 milioni di persone coinvolte come beneficiari del reddito di cittadinanza, 1,3 milioni dei quali “occupabili”, ma solo 152mila con un posto di lavoro trovato (non si sa però quanti quelli individuati grazie ai servizi offerti dai centri di lavoro) e appena 400 gli assunti da imprenditori che hanno deciso di godere degli incentivi di legge (troppi vincoli, troppe burocrazie). Nella forbice quanto mai ampia fra 1,3 milioni e 400 c’è tutto il clamoroso fallimento di una scelta che pretendeva di “abolire la povertà” trovando lavoro.
Ancora un numero, di grande importanza: quello del tasso di sostituzione di “quota 100”, il provvedimento sulle pensioni (per andarci con 62 anni d’età e 38 di contributi): lo 0,4 per ognuno dei tre anni di applicazione del provvedimento. In media, cioè, per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti di nuovi solo 40. Anche in questo caso, un fallimento, rispetto al progetto di sostituire un pensionato anziano con un giovane.

Alto, comunque, il costo per le casse pubbliche: 30 miliardi in tre anni per entrambi i provvedimenti, 11,6 per “quota 100” e quasi 20 per il reddito di cittadinanza.
I due provvedimenti erano le bandiere propagandistiche sventolate il primo dalla Lega guidata da Matteo Salvini e il secondo dal Movimento 5 Stelle, ai tempi del governo giallo-verde di Giuseppe Conte. Due scelte populiste, buone per attrarre consensi elettorali ma di scarsa efficacia e altissimo costo. Adesso, due scelte da abolire o, quanto meno, da riformare radicalmente, dati alla mano.
Le intenzioni del governo guidato da Mario Draghi vanno giustamente in direzione della riforma (come sollecitano anche recenti analisi ben documentate dell’Ocse). I 5Stelle difendono la loro scelta. A nome della Lega Salvini minaccia di “fare le barricate” per difendere e rinnovare per un altro biennio “quota 100”, in scadenza a fine anno, trovando una certa sponda nella Cgil di Maurizio Landini. Ma entrambe le formazioni politiche, proprio alla vigilia del voto amministrativo dei primi di ottobre, stanno facendo tattica di propaganda. E di fronte alle chiacchiere delle politiche identitarie, il governo ancora una volta mostra una chiara volontà riformatrice e andrà avanti.

Nessuno, naturalmente, ha dubbi sul fatto che servano provvedimenti per andare incontro alle reali condizioni di povertà di alcuni milioni di italiani (cosa che il reddito di cittadinanza fa poco, male, in modo distorto e con possibilità troppo ampie per tanti “furbi” di sfuggire alle prescrizioni di legge per l’assegnazione). E dunque saranno messe a punto misure assistenziali adeguate.
Altra cosa, invece, è affrontare i temi dell’avvio verso il lavoro, di chi l’ha perso e va aiutato a ricollocarsi, dei giovani e delle donne che non lo trovano per carenze di qualificazione, delle persone di mezza età tagliate fuori dal mercato per ristrutturazioni levate alla diffusione delle nuove tecnologie digitali.

Le strade da scegliere riguardano innanzitutto la formazione, qualificata e di lungo periodo. Una profonda trasformazione delle politiche e del funzionamento dei centri per l’impiego. Una maggiore e migliore funzionalità degli ammortizzatori sociali, su cui tocca al governo mettere bene a punto strategie e scelte concrete in stretto raccordo con le rappresentanze delle forze sociali.
La sfida sta proprio qui: legare formazione e lavoro per fare fronte alle profonde trasformazioni dell’economia, ridurre il cuneo fiscale per migliorare il reddito dei lavoratori e alleggerire il costo per le imprese, stimolare investimenti per creare nuova occupazione qualificata. Le indicazioni del Pnrr, con i fondi che vengono dalla Ue, vanno proprio in questa direzione. E, in prospettiva, nell’era dell’economia della conoscenza, vale la pena ricordare che “ogni euro investito nella scuola è investito anche nel resto del Paese”, come ama ribadire Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex ministro dell’Istruzione, adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Quanto alle pensioni, bisogna prendere responsabilmente atto degli effetti disastrosi di “quota 100”: ha ridotto profondamente il numero dei lavoratori attivi, privando le imprese e la pubblica amministrazione di competenze di qualità, senza stimolare adeguatamente nuova occupazione e ha costretto, per esempio, il governatore del Veneto Zaia a richiamare in servizio, per fronteggiare la pandemia da Covid19, un gran numero di medici appena andati in pensione.
Addio “quota 100”, dunque. Il governo sta studiando “soluzioni equilibrate” per evitare di passare dalla situazione attuale all’innalzamento drastico a 67 anni come età per il pensionamento. La discussione è aperta. Da portare avanti con competenza e senso di responsabilità. Sapendo bene che l’Italia, adesso, ha bisogno di sviluppo, lavoro, sostegni sociali ma non di vecchio assistenzialismo improduttivo. E che la spesa pubblica va destinata agli investimenti per la crescita di qualità e sostenibile, non alle manovre per acchiappare voti.

Ragionare con i numeri, per discutere di riforme serie e di futuro socialmente sostenibile. Un primo numero è 400mila e cioè i posti di lavoro che le imprese temono di non potere coprire, in questa fine di anno di impetuosa ripresa (un Pil che crescerà del 6% circa) per assenza di mano d’opera specializzata, soprattutto nei settori ad alta tecnologia, trainanti per lo sviluppo (i dati sono illustrati da una inchiesta di “Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 13 settembre).
Un secondo numero è una serie: 3,5 milioni di persone coinvolte come beneficiari del reddito di cittadinanza, 1,3 milioni dei quali “occupabili”, ma solo 152mila con un posto di lavoro trovato (non si sa però quanti quelli individuati grazie ai servizi offerti dai centri di lavoro) e appena 400 gli assunti da imprenditori che hanno deciso di godere degli incentivi di legge (troppi vincoli, troppe burocrazie). Nella forbice quanto mai ampia fra 1,3 milioni e 400 c’è tutto il clamoroso fallimento di una scelta che pretendeva di “abolire la povertà” trovando lavoro.
Ancora un numero, di grande importanza: quello del tasso di sostituzione di “quota 100”, il provvedimento sulle pensioni (per andarci con 62 anni d’età e 38 di contributi): lo 0,4 per ognuno dei tre anni di applicazione del provvedimento. In media, cioè, per 100 lavoratori andati in pensione ne sono stati assunti di nuovi solo 40. Anche in questo caso, un fallimento, rispetto al progetto di sostituire un pensionato anziano con un giovane.

Alto, comunque, il costo per le casse pubbliche: 30 miliardi in tre anni per entrambi i provvedimenti, 11,6 per “quota 100” e quasi 20 per il reddito di cittadinanza.
I due provvedimenti erano le bandiere propagandistiche sventolate il primo dalla Lega guidata da Matteo Salvini e il secondo dal Movimento 5 Stelle, ai tempi del governo giallo-verde di Giuseppe Conte. Due scelte populiste, buone per attrarre consensi elettorali ma di scarsa efficacia e altissimo costo. Adesso, due scelte da abolire o, quanto meno, da riformare radicalmente, dati alla mano.
Le intenzioni del governo guidato da Mario Draghi vanno giustamente in direzione della riforma (come sollecitano anche recenti analisi ben documentate dell’Ocse). I 5Stelle difendono la loro scelta. A nome della Lega Salvini minaccia di “fare le barricate” per difendere e rinnovare per un altro biennio “quota 100”, in scadenza a fine anno, trovando una certa sponda nella Cgil di Maurizio Landini. Ma entrambe le formazioni politiche, proprio alla vigilia del voto amministrativo dei primi di ottobre, stanno facendo tattica di propaganda. E di fronte alle chiacchiere delle politiche identitarie, il governo ancora una volta mostra una chiara volontà riformatrice e andrà avanti.

Nessuno, naturalmente, ha dubbi sul fatto che servano provvedimenti per andare incontro alle reali condizioni di povertà di alcuni milioni di italiani (cosa che il reddito di cittadinanza fa poco, male, in modo distorto e con possibilità troppo ampie per tanti “furbi” di sfuggire alle prescrizioni di legge per l’assegnazione). E dunque saranno messe a punto misure assistenziali adeguate.
Altra cosa, invece, è affrontare i temi dell’avvio verso il lavoro, di chi l’ha perso e va aiutato a ricollocarsi, dei giovani e delle donne che non lo trovano per carenze di qualificazione, delle persone di mezza età tagliate fuori dal mercato per ristrutturazioni levate alla diffusione delle nuove tecnologie digitali.

Le strade da scegliere riguardano innanzitutto la formazione, qualificata e di lungo periodo. Una profonda trasformazione delle politiche e del funzionamento dei centri per l’impiego. Una maggiore e migliore funzionalità degli ammortizzatori sociali, su cui tocca al governo mettere bene a punto strategie e scelte concrete in stretto raccordo con le rappresentanze delle forze sociali.
La sfida sta proprio qui: legare formazione e lavoro per fare fronte alle profonde trasformazioni dell’economia, ridurre il cuneo fiscale per migliorare il reddito dei lavoratori e alleggerire il costo per le imprese, stimolare investimenti per creare nuova occupazione qualificata. Le indicazioni del Pnrr, con i fondi che vengono dalla Ue, vanno proprio in questa direzione. E, in prospettiva, nell’era dell’economia della conoscenza, vale la pena ricordare che “ogni euro investito nella scuola è investito anche nel resto del Paese”, come ama ribadire Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico di Torino ed ex ministro dell’Istruzione, adesso presidente della Compagnia di San Paolo.

Quanto alle pensioni, bisogna prendere responsabilmente atto degli effetti disastrosi di “quota 100”: ha ridotto profondamente il numero dei lavoratori attivi, privando le imprese e la pubblica amministrazione di competenze di qualità, senza stimolare adeguatamente nuova occupazione e ha costretto, per esempio, il governatore del Veneto Zaia a richiamare in servizio, per fronteggiare la pandemia da Covid19, un gran numero di medici appena andati in pensione.
Addio “quota 100”, dunque. Il governo sta studiando “soluzioni equilibrate” per evitare di passare dalla situazione attuale all’innalzamento drastico a 67 anni come età per il pensionamento. La discussione è aperta. Da portare avanti con competenza e senso di responsabilità. Sapendo bene che l’Italia, adesso, ha bisogno di sviluppo, lavoro, sostegni sociali ma non di vecchio assistenzialismo improduttivo. E che la spesa pubblica va destinata agli investimenti per la crescita di qualità e sostenibile, non alle manovre per acchiappare voti.

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