Ecco la reputazione delle buone imprese: prodotti, qualità e sostenibilità Pirelli al terzo posto dopo Ferrero e Bmw
Conta, la reputazione delle imprese, per poter avere successo sul mercato. Conta sempre di più la qualità dei loro prodotti, ma anche quella del modo di produrli, contano la trasparenza dei comportamenti e la chiarezza del rapporto con i consumatori, le relazioni con gli stakeholders (i clienti, i fornitori, i dipendenti, i territori dove hanno sede stabilimenti e uffici) così come il rispetto coerente dell’ambiente e delle persone. Contano, insomma, la “responsabilità sociale” e la “sostenibilità”, ambientale e sociale. Per dirla con uno slogan, fare bene impresa fa bene all’impresa. E a tutti quelli che con l’impresa hanno qualcosa a che fare. Il circuito virtuoso della buona economia.
Queste considerazioni, che animano da qualche tempo il discorso pubblico economico, tra gli economisti, i circuiti culturali e sociali e gli stessi ambienti imprenditoriali (la diffusione della responsabilità sociale è tra i principali obiettivi di Assolombarda, la più grande e autorevole associazione di Confindustria e trova eco ai vertici della stessa Confederazione e in molte organizzazioni territoriali e di categoria) hanno un significativo riscontro nei risultati di RepTak Italia 2016, la classifica annuale del Reputation Institute, che compila un elenco delle 50 aziende più apprezzate dai consumatori.
Al primo posto, anche quest’anno, c’è la Ferrero (con un punteggio di 85,8 su 100), cui va il primato pure per la miglior responsabilità sociale d’impresa. Segue la Bmw (punteggio 82). E la Pirelli (punteggio 81,5), un terzo posto in classifica raggiunto con un grande balzo in avanti, dal quindicesimo posto del 2015 e sedicesimo nel 2014. Tra le prime dieci ci sono anche Michelin, Ikea, Giorgio Armani, Barilla, Luxottica, Delonghi e Brembo. In classifica rientra Poste (punteggio 42). Fuori due banche, Banco Popolare Ubi e (erano al 36° e 37° posto), pagando il generale discredito che da tempo ha colpito il sistema bancario. Rispetto al 2015, fa notare il Reputation Institute, la reputazione delle aziende è in miglioramento, le società in Italia hanno guadagnato circa 3 punti, passando da una media di 66,9 a una di 69,6.
Come si calcola la reputazione? Analizzando la percezione dei consumatori sulla base di sette parametri: prodotti, servizi, innovazione, ambiente lavorativo, governance, responsabilità sociale, leadership e performance. Un quadro abbastanza esaustivo di riferimenti che legano qualità, sicurezza, trasparenza e sostenibilità. Secondo gli analisti di Reputation Insitute, il prodotto pesa per il 39% sulle motivazioni d’acquisto, gli aspetti “corporate” il 61%. Per dirla in sintesi, “chi sei conta più di quel che vendi”.
Analizzando le aziende “top ten” della classifica, vale la pena mettere in luce alcuni elementi. Sono quasi tutte imprese manifatturiere, esempio di quell’eccellenza italiana che consiste nel “produrre cose belle che piacciono al mondo” (per riprendere l’efficace definizione del grande storico Carlo M. Cipolla): imprese innovative, belle fabbriche, relazione stretta tra produzione, ricerca e servizi, attenzione estrema alla qualità raggiunta e percepita, rispetto per l’ambiente e le persone. Design. E sicurezza. Il successo di Pirelli (un progresso di dodici posizioni), si spiega proprio in un contesto del genere. Un primato da difendere e rafforzare. Il nuovo allestimento-mostra della Fondazione Pirelli, giocato su tutti gli aspetti della sostenibilità, ambientale e sociale, ne offre conferme, storiche e di attualità.
La Grande Crisi comiciata nel 2007 e i cui effetti ancora paghiamo, ha imposto un radicale ripensamento di tutti i paradigmi economici. Una conferma autorevole? Nelle pagine di Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015, che nel suo ultimo libro, “La grande fuga – Salute, ricchezza e origini della diseguaglianza”, appena pubblicato da Il Mulino, ricorda come la crescita economica non si tramuti automaticamente in aumento del benessere per la popolazione. Il Pil (il Prodotto interno lordo) è un indicatore di quantità ma non di qualità dello sviluppo, gli aiuti internazionali ai paesi più poveri spesso sono nocivi per la loro crescita equilibrata (finiscono nelle mani di classi dirigenti corrotte). L a sfida da sostenere, allora, è quella del miglioramento delle condizioni di vita, della diffusione degli effetti positivi delle conoscenze scientifiche, dell’aumento della “capacità sociale” di cogliere bene le opportunità dell’innovazione, del progresso tecnologico, della ricchezza diffusa. Economia giusta, in prospettiva. La scommessa sta tutta nella qualità dello sviluppo. E le buone imprese che insistono sulla qualità di prodotti, processi produttivi e consumi e usano proprio la sostenibilità come miglior leva di competitività, hanno in questo contesto un ruolo essenziale. Buona reputazione, come riconoscimento. Cardine di sviluppo positivo, come effetto. Fare meglio, stare meglio.
Conta, la reputazione delle imprese, per poter avere successo sul mercato. Conta sempre di più la qualità dei loro prodotti, ma anche quella del modo di produrli, contano la trasparenza dei comportamenti e la chiarezza del rapporto con i consumatori, le relazioni con gli stakeholders (i clienti, i fornitori, i dipendenti, i territori dove hanno sede stabilimenti e uffici) così come il rispetto coerente dell’ambiente e delle persone. Contano, insomma, la “responsabilità sociale” e la “sostenibilità”, ambientale e sociale. Per dirla con uno slogan, fare bene impresa fa bene all’impresa. E a tutti quelli che con l’impresa hanno qualcosa a che fare. Il circuito virtuoso della buona economia.
Queste considerazioni, che animano da qualche tempo il discorso pubblico economico, tra gli economisti, i circuiti culturali e sociali e gli stessi ambienti imprenditoriali (la diffusione della responsabilità sociale è tra i principali obiettivi di Assolombarda, la più grande e autorevole associazione di Confindustria e trova eco ai vertici della stessa Confederazione e in molte organizzazioni territoriali e di categoria) hanno un significativo riscontro nei risultati di RepTak Italia 2016, la classifica annuale del Reputation Institute, che compila un elenco delle 50 aziende più apprezzate dai consumatori.
Al primo posto, anche quest’anno, c’è la Ferrero (con un punteggio di 85,8 su 100), cui va il primato pure per la miglior responsabilità sociale d’impresa. Segue la Bmw (punteggio 82). E la Pirelli (punteggio 81,5), un terzo posto in classifica raggiunto con un grande balzo in avanti, dal quindicesimo posto del 2015 e sedicesimo nel 2014. Tra le prime dieci ci sono anche Michelin, Ikea, Giorgio Armani, Barilla, Luxottica, Delonghi e Brembo. In classifica rientra Poste (punteggio 42). Fuori due banche, Banco Popolare Ubi e (erano al 36° e 37° posto), pagando il generale discredito che da tempo ha colpito il sistema bancario. Rispetto al 2015, fa notare il Reputation Institute, la reputazione delle aziende è in miglioramento, le società in Italia hanno guadagnato circa 3 punti, passando da una media di 66,9 a una di 69,6.
Come si calcola la reputazione? Analizzando la percezione dei consumatori sulla base di sette parametri: prodotti, servizi, innovazione, ambiente lavorativo, governance, responsabilità sociale, leadership e performance. Un quadro abbastanza esaustivo di riferimenti che legano qualità, sicurezza, trasparenza e sostenibilità. Secondo gli analisti di Reputation Insitute, il prodotto pesa per il 39% sulle motivazioni d’acquisto, gli aspetti “corporate” il 61%. Per dirla in sintesi, “chi sei conta più di quel che vendi”.
Analizzando le aziende “top ten” della classifica, vale la pena mettere in luce alcuni elementi. Sono quasi tutte imprese manifatturiere, esempio di quell’eccellenza italiana che consiste nel “produrre cose belle che piacciono al mondo” (per riprendere l’efficace definizione del grande storico Carlo M. Cipolla): imprese innovative, belle fabbriche, relazione stretta tra produzione, ricerca e servizi, attenzione estrema alla qualità raggiunta e percepita, rispetto per l’ambiente e le persone. Design. E sicurezza. Il successo di Pirelli (un progresso di dodici posizioni), si spiega proprio in un contesto del genere. Un primato da difendere e rafforzare. Il nuovo allestimento-mostra della Fondazione Pirelli, giocato su tutti gli aspetti della sostenibilità, ambientale e sociale, ne offre conferme, storiche e di attualità.
La Grande Crisi comiciata nel 2007 e i cui effetti ancora paghiamo, ha imposto un radicale ripensamento di tutti i paradigmi economici. Una conferma autorevole? Nelle pagine di Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia 2015, che nel suo ultimo libro, “La grande fuga – Salute, ricchezza e origini della diseguaglianza”, appena pubblicato da Il Mulino, ricorda come la crescita economica non si tramuti automaticamente in aumento del benessere per la popolazione. Il Pil (il Prodotto interno lordo) è un indicatore di quantità ma non di qualità dello sviluppo, gli aiuti internazionali ai paesi più poveri spesso sono nocivi per la loro crescita equilibrata (finiscono nelle mani di classi dirigenti corrotte). L a sfida da sostenere, allora, è quella del miglioramento delle condizioni di vita, della diffusione degli effetti positivi delle conoscenze scientifiche, dell’aumento della “capacità sociale” di cogliere bene le opportunità dell’innovazione, del progresso tecnologico, della ricchezza diffusa. Economia giusta, in prospettiva. La scommessa sta tutta nella qualità dello sviluppo. E le buone imprese che insistono sulla qualità di prodotti, processi produttivi e consumi e usano proprio la sostenibilità come miglior leva di competitività, hanno in questo contesto un ruolo essenziale. Buona reputazione, come riconoscimento. Cardine di sviluppo positivo, come effetto. Fare meglio, stare meglio.