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Ecco le qualità del manager ideale: etica, ironia e capacità di coinvolgere

Quali sono le dieci qualità del manager ideale? La passione giornalistica per le classifiche ha portato il “Corriere della Sera” (13 giugno,a  firma di Iolanda Barera) a sondare alcuni esperti di grandi business school internazionali, dalla Saïd della Oxford University a Hec di Parigi. Il risultato? Ai primi posti, nella ideale hit parade delle buone attitudini, ci sono “umiltà, etica e senso dell’umorismo”. Valori importanti. Che dicono come siano cambiate le regole della leadership anche nel mondo economico e come, alle inclinazioni al comando, vadano aggiunte – e con grande rilievo – quelle alla critica e alla costruzione del consenso. Nell’elenco, infatti, “la capacità di guardarsi dentro con onestà” ha una priorità sulla tanto propagandata  “vision”, perché “prima di sapere dove vuoi condurre la tua squadra, la tua azienda, devi avere ben chiaro in mente chi sei. Se non conosci bene te stesso non puoi gestire gli altri”, spiega Peter Tufano, rettore della Saïd (applicazione aziendalistica del “conosci te stesso”, il motto scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, caro ai più saggi filosofi greci). Dunque, consapevolezza critica e naturalmente autocritica (ecco il senso dell’umiltà), senso di responsabilità e, contemporaneamente, curiosità (attitudine a fare e farsi domande, a voler accogliere la sfida di quel che non si sa o ancora non si capisce) e lungimiranza per “capire il contesto”.

I mercati sono volatili, gli ambienti economici mutevoli, i fattori che influenzano i comportamenti e le scelte economiche legati non solo a un razionale calcolo di interessi, ma a una lunga e spesso contraddittoria serie di dati psicologici, desideri, aspettative, emozioni. E le differenze di culture, attitudini, orientamenti sono accentuate dall’incrocio di più elementi, in contesti multinazionali. Dunque, ecco la necessità di una profonda e sincera attitudine a mettersi in gioco, imparare a dialogare (il che vuol dire anche saper ascoltare, prima ancora che provare a convincere), sapere confrontare e incrociare competenze diverse.

Provare, sbagliare, ricominciare. La filosofia della scienza, lungo il corso del Novecento, ci ha insegnato che la ricerca procede per “falsificazioni” ed “errori” da cui ripartire (ecco l’importanza, per un buon manager, di leggere o comunque rileggere attentamente la lezione di Karl Popper). E dunque è necessario rifuggire dai pensieri dogmatici, da vecchie tendenze autoritarie prive di autorevolezza, dal fastidio per le critiche, anche ruvide, che vengano dai propri collaboratori, dai membri della propria squadra. Il capo non ha “sempre ragione” perché è il capo, ma la sua leadership si poggia proprio sull’attitudine a ascoltare, ammettere l’errore e il torto, fare una nuova sintesi e ricominciare da capo. L’infallibilità non è più una virtù (e d’altronde, il geniale sarcastico Leo Longanesi, quando aveva coniato lo slogan “il Duce ha sempre ragione”, aveva messo consapevolmente in piedi un gigantesco sberleffo, che però purtroppo fu preso come una cosa seria).

Serve dunque anche una buona dose di ironia, un pensiero lieve, umoristico e non retorico anche con le cose più importanti. E un forte senso di “etica e responsabilità sociale”. Per conquistare, difendere e rinnovare autorità e legittimazione, per dare nuova forza alla leadership. “Oggi i manager devono essere più flessibili, soprattutto nei mercati internazionali, pronti ad aggiustare la traiettoria delle proprie scelte o addirittura a cambiare direzione”, sostiene Tufano, della Saïd. Essere “resilienti” (adattabili ai cambiamenti), se vogliamo usare una formulazione cara alla cultura d’impresa italiana e più volte richiamata in questo blog.

Una “leadership convocativa”, per usare l’espressione di sintesi del sociologo Francesco Morace, ovvero una capacità di guida fondata sul paradigma “trust & sharing” e cioè sull’impegno non solo “a lanciare una visione” (mestiere storico dell’imprenditore, strutturalmente innovativo) ma anche e soprattutto a sollecitare l’interesse delle persone, la loro collaborazione, la partecipazione responsabile. Una vera e propria “catena della fiducia”, di cui si è per esempio discusso, nei giorni scorsi, alla Fondazione Pirelli, durante la XIX Conferenza degli Amici di Aspen, presieduta da Beatrice Trussardi e dedicata a “Il nuovo imprenditore: internazionale, aperto al rischio, capace di comunicare”. Una sfida di leadership, appunto.

Servono dunque attitudini al comando. Ma soprattutto capacità di guida, con l’influenza, l’esempio, il coinvolgimento. “Non pretendere che le persone facciano questo o quello, ma ottenere che esse vogliano fare”, spiegano Alexander S. Haslam, Stephen D. Reicher e Michael J. Platow in “Psicologia del leader – Identità, influenza e potere”, un bel libro pubblicato di recente da Il Mulino con una stimolante prefazione  di George A. Akerlof, premio Nobel per l’economia.

Una leadership “identitaria”, appunto. Fondata su quattro pilastri: “I leader rappresentano il gruppo che ambiscono guidare, sono paladini dei suoi interessi, esercitano la loro influenza facilitando l’identità del gruppo e il coinvolgimento collettivo, realizzano concretamente tale identità mobilitando le energie disponibili verso risultati di valore condiviso”.  Un nuovo tipo di carisma, una nuova cultura della responsabilità. Comandare, coinvolgere, indicare la strada e farsene interpreti coerenti (ma non ostinati e fanatici). E, naturalmente, sorridere.

Quali sono le dieci qualità del manager ideale? La passione giornalistica per le classifiche ha portato il “Corriere della Sera” (13 giugno,a  firma di Iolanda Barera) a sondare alcuni esperti di grandi business school internazionali, dalla Saïd della Oxford University a Hec di Parigi. Il risultato? Ai primi posti, nella ideale hit parade delle buone attitudini, ci sono “umiltà, etica e senso dell’umorismo”. Valori importanti. Che dicono come siano cambiate le regole della leadership anche nel mondo economico e come, alle inclinazioni al comando, vadano aggiunte – e con grande rilievo – quelle alla critica e alla costruzione del consenso. Nell’elenco, infatti, “la capacità di guardarsi dentro con onestà” ha una priorità sulla tanto propagandata  “vision”, perché “prima di sapere dove vuoi condurre la tua squadra, la tua azienda, devi avere ben chiaro in mente chi sei. Se non conosci bene te stesso non puoi gestire gli altri”, spiega Peter Tufano, rettore della Saïd (applicazione aziendalistica del “conosci te stesso”, il motto scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, caro ai più saggi filosofi greci). Dunque, consapevolezza critica e naturalmente autocritica (ecco il senso dell’umiltà), senso di responsabilità e, contemporaneamente, curiosità (attitudine a fare e farsi domande, a voler accogliere la sfida di quel che non si sa o ancora non si capisce) e lungimiranza per “capire il contesto”.

I mercati sono volatili, gli ambienti economici mutevoli, i fattori che influenzano i comportamenti e le scelte economiche legati non solo a un razionale calcolo di interessi, ma a una lunga e spesso contraddittoria serie di dati psicologici, desideri, aspettative, emozioni. E le differenze di culture, attitudini, orientamenti sono accentuate dall’incrocio di più elementi, in contesti multinazionali. Dunque, ecco la necessità di una profonda e sincera attitudine a mettersi in gioco, imparare a dialogare (il che vuol dire anche saper ascoltare, prima ancora che provare a convincere), sapere confrontare e incrociare competenze diverse.

Provare, sbagliare, ricominciare. La filosofia della scienza, lungo il corso del Novecento, ci ha insegnato che la ricerca procede per “falsificazioni” ed “errori” da cui ripartire (ecco l’importanza, per un buon manager, di leggere o comunque rileggere attentamente la lezione di Karl Popper). E dunque è necessario rifuggire dai pensieri dogmatici, da vecchie tendenze autoritarie prive di autorevolezza, dal fastidio per le critiche, anche ruvide, che vengano dai propri collaboratori, dai membri della propria squadra. Il capo non ha “sempre ragione” perché è il capo, ma la sua leadership si poggia proprio sull’attitudine a ascoltare, ammettere l’errore e il torto, fare una nuova sintesi e ricominciare da capo. L’infallibilità non è più una virtù (e d’altronde, il geniale sarcastico Leo Longanesi, quando aveva coniato lo slogan “il Duce ha sempre ragione”, aveva messo consapevolmente in piedi un gigantesco sberleffo, che però purtroppo fu preso come una cosa seria).

Serve dunque anche una buona dose di ironia, un pensiero lieve, umoristico e non retorico anche con le cose più importanti. E un forte senso di “etica e responsabilità sociale”. Per conquistare, difendere e rinnovare autorità e legittimazione, per dare nuova forza alla leadership. “Oggi i manager devono essere più flessibili, soprattutto nei mercati internazionali, pronti ad aggiustare la traiettoria delle proprie scelte o addirittura a cambiare direzione”, sostiene Tufano, della Saïd. Essere “resilienti” (adattabili ai cambiamenti), se vogliamo usare una formulazione cara alla cultura d’impresa italiana e più volte richiamata in questo blog.

Una “leadership convocativa”, per usare l’espressione di sintesi del sociologo Francesco Morace, ovvero una capacità di guida fondata sul paradigma “trust & sharing” e cioè sull’impegno non solo “a lanciare una visione” (mestiere storico dell’imprenditore, strutturalmente innovativo) ma anche e soprattutto a sollecitare l’interesse delle persone, la loro collaborazione, la partecipazione responsabile. Una vera e propria “catena della fiducia”, di cui si è per esempio discusso, nei giorni scorsi, alla Fondazione Pirelli, durante la XIX Conferenza degli Amici di Aspen, presieduta da Beatrice Trussardi e dedicata a “Il nuovo imprenditore: internazionale, aperto al rischio, capace di comunicare”. Una sfida di leadership, appunto.

Servono dunque attitudini al comando. Ma soprattutto capacità di guida, con l’influenza, l’esempio, il coinvolgimento. “Non pretendere che le persone facciano questo o quello, ma ottenere che esse vogliano fare”, spiegano Alexander S. Haslam, Stephen D. Reicher e Michael J. Platow in “Psicologia del leader – Identità, influenza e potere”, un bel libro pubblicato di recente da Il Mulino con una stimolante prefazione  di George A. Akerlof, premio Nobel per l’economia.

Una leadership “identitaria”, appunto. Fondata su quattro pilastri: “I leader rappresentano il gruppo che ambiscono guidare, sono paladini dei suoi interessi, esercitano la loro influenza facilitando l’identità del gruppo e il coinvolgimento collettivo, realizzano concretamente tale identità mobilitando le energie disponibili verso risultati di valore condiviso”.  Un nuovo tipo di carisma, una nuova cultura della responsabilità. Comandare, coinvolgere, indicare la strada e farsene interpreti coerenti (ma non ostinati e fanatici). E, naturalmente, sorridere.

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