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Ecco perché le fabbriche fanno bene all’Italia, anche per superare il divario del Sud

Perché le fabbriche fanno bene all’Italia”, è il titolo, molto efficace, del libro di Rachele Sessa, direttrice della Fondazione Ergo (un’organizzazione che, a Varese, riunisce imprese, sindacati e università per fare ricerca sui temi industriali), pubblicato da Rubbettino e segnalato, con una menzione speciale, domenica scorsa, a Potenza, al Premio Basilicata (vinto da Maurizio De Giovanni, per la letteratura, con “L’equazione del cuore”, Mondadori e, per l’economia, da Paolo Bricco, con “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, Rizzoli). Ed è importante che proprio in una città del Mezzogiorno, in una stagione così difficile di crisi e incertezza, risuoni oggi una parola, “fabbrica” appunto, che richiama gli assi portanti dello sviluppo possibile dell’Italia e, dunque, anche del suo Sud.

Difendere l’industria per garantire il futuro dell’Italia, insiste, ancora in queste settimane, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi di fronte alla tempesta economica e sociale scatenata da crisi energetica, guerra in Ucraina, inflazione e ombre cupe di recessione. Valorizzare le capacità industrali dell’Italia, che hanno permesso la vivace ripresa dopo la fase più acuta della pandemia da Covid19 e ancora oggi sono l’ossatura delle possibilità di ripresa, ripetono economisti, centri studi, imprenditori attenti all’innovazione e all’export.

Il libro di Rachele Sessa fornisce dati e analisi a conforto di questa posizione. L’Italia non può fare a meno della sua industria. E senza la sua storia industriale e un’esperienza manifatturiera radicata nel territorio e nella società non avrebbe la stessa posizione che occupa oggi nel mondo. Insiste la Sessa: “Se ci raccontiamo come il Paese più bello del mondo non è solo per i monumenti, l’arte o il paesaggio, ma anche per la nostra capacità di produrre oggetti e macchinari apprezzati ovunque per efficienza ed eleganza, un valore aggiunto industriale tipicamente italiano”.

Purtroppo non c’è oggi, nel discorso pubblico, un’adeguata consapevolezza di questo patrimonio e del valore dell’industria (lo abbiamo ripetuto più volte, in questo blog). Né, nel corso del tempo, nel mondo deilla politica e della pubblica amministrazione, sono state assunte scelte coerenti e di lungo periodo per valorizzare, dell’industria, la “cultura politecnica”,  le relazioni tra memoria del “fare bene” e futuro della competitività (Museimpresa, con i suoi oltre 120 iscritti, tra grandi, medie e piccole imprese, ne è esemplare testimone), le capacità innovative e le caratteristiche della fabbrica come strumento efficace di coesione sociale e di promozione del benessere, anche per le nuove generazioni.

Adesso, documenta ancora la Sessa,  per fare fronte alle due grandi sfide del futuro prossimo, la transizione digitale e quella ambientale, strettamente connnesse tra loro (twin transition, è la sintesi corretta) “è fondamentale smettere di pensare alla fabbrica con gli stereotipi del Novecento”.

Le fabbriche, infatti, “per loro natura e se ben guidate, sono templi di modernizzazione sparsi sul territorio. E dunque è tempo che l’opinione pubblica conosca meglio le opportunità offerte dal mondo dell’industria, non solo in campo tecnologico ma anche sul piano della generazione di innovazioni e di sperimentazioni utili all’intera società”

Ecco perché l’industria deve ritornare al centro delle politiche di una nazione come l’Italia. Schierarsi per “il partito dell’industria” – sostiene anche la Sessa – “rappresenta una scelta civile, prima che politica in senso stretto”. Un’indicazione di cui il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (leader di una destra che non ha finora mostrato una sapiente e radicata cultura industriale e produttiva) dovrà tenere in gran conto, non solo con dichiarazioni politiche di intenti (comunque importanti, come quella sul taglio significativo del cuneo fiscale) ma con scelte coerenti e lungimiranti. Stimolando la twin transition, appunto. E tnendo l’Italia ben salda nel contesto europeo e nelle mappe delle  nuove dimensioni della “globalizzazione selettiva” (la nostra industria è fortemente vocata agli scambi internazionali, all’export e agli investimenti esteri e non nutre alcuna vocazione né sovranista né protezionista).

La parola “fabbrica” si addice molto anche al Mezzogiorno, proprio per fare fronte a un crescente divario di redditi e opportunità rispetto a un Nord più dinamico e integrato nelle tendenze di sviluppo europee.

Gli esiti del Premio Basilicata di cui abbiamo detto all’inizio mostrano un’importante consapevolezza, in una fascia qualificata di opinione pubblica (anche il libro di Bricco su Olivetti contiene pagine di straordinario interesse sugli investimenti olivettiani a Pozzuoli e sulle idee che da Ivrea si muovono verso un qualificato sviluppo economico del Mezzogiorno): se è necessario ragionare in termini di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, economico e culturale, è necessario mettere al centro della discussione una riflessione critica e propositiva sull’industria, come spina dorsale di un processo creativo di lavoro, redditi, benessere. Un processo di cambiamento, che coinvolga anche agricoltura, turismo, salute. Quasi una vera e propria “metamorfosi”: dal Sud assistenziale e rancoroso, adagiato su scelte distorsive come il “reddito di cittadinanza” (non stimola occupazione e viene comunque incontro in modo inadeguato ai bisogni diffusi di sussistenza e di contrasto alla povertà) e su nostalgie neo-borboniche a un Sud propagonista di processi produttivi, nel contesto del rilancio dell’Europa e di risposte alla ritrovata centralità geopolitica del Mediterraneo.

Un Sud, insomma, legato a manifattura, mercato, merito (se merito è premio all’intraprendenza, alla creatività, alla qualità del lavoro ben fatto).

Ecco, allora, perché ha senso parlare di “fabbriche” o, meglio ancora di “neofabbriche”, le manifatture in cui high tech, produzione, ricerca, servizi, logistica si incrociano con i saperi dei territori e le innovazioni della scienza. Tutto caratteristiche di cui proprio il Mezzogiorno, nel corso del tempo, ha dato brillanti testimonianze.

Le cronache economiche raccontano, da qualche tempo, l’attenzione per le intelligenze delle ragazze e dei ragazzi del Sud da parte di grandi e medie imprese, Google e Accenture, Apple e Microsoft, Kpmg e Bosch, Pirelli e Bip, Stm e Technoprobe, etc. Digital Economy e diffusione dell’Intelligenza Arttificiale stimolano il processo.

Se i dati Istat parlano di crescita del divario Nord-Sud, carenze degli investimenti, “fuga dei cervelli”, impoverimento materiale e intellettuale, la sfida dell’inversione di tendenza è comunque aperta. E il suo cardine è appunto, la fabbrica. Che fa bene. Anche al Mezzogiorno, appunto.

Perché le fabbriche fanno bene all’Italia”, è il titolo, molto efficace, del libro di Rachele Sessa, direttrice della Fondazione Ergo (un’organizzazione che, a Varese, riunisce imprese, sindacati e università per fare ricerca sui temi industriali), pubblicato da Rubbettino e segnalato, con una menzione speciale, domenica scorsa, a Potenza, al Premio Basilicata (vinto da Maurizio De Giovanni, per la letteratura, con “L’equazione del cuore”, Mondadori e, per l’economia, da Paolo Bricco, con “Adriano Olivetti, un italiano del Novecento”, Rizzoli). Ed è importante che proprio in una città del Mezzogiorno, in una stagione così difficile di crisi e incertezza, risuoni oggi una parola, “fabbrica” appunto, che richiama gli assi portanti dello sviluppo possibile dell’Italia e, dunque, anche del suo Sud.

Difendere l’industria per garantire il futuro dell’Italia, insiste, ancora in queste settimane, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi di fronte alla tempesta economica e sociale scatenata da crisi energetica, guerra in Ucraina, inflazione e ombre cupe di recessione. Valorizzare le capacità industrali dell’Italia, che hanno permesso la vivace ripresa dopo la fase più acuta della pandemia da Covid19 e ancora oggi sono l’ossatura delle possibilità di ripresa, ripetono economisti, centri studi, imprenditori attenti all’innovazione e all’export.

Il libro di Rachele Sessa fornisce dati e analisi a conforto di questa posizione. L’Italia non può fare a meno della sua industria. E senza la sua storia industriale e un’esperienza manifatturiera radicata nel territorio e nella società non avrebbe la stessa posizione che occupa oggi nel mondo. Insiste la Sessa: “Se ci raccontiamo come il Paese più bello del mondo non è solo per i monumenti, l’arte o il paesaggio, ma anche per la nostra capacità di produrre oggetti e macchinari apprezzati ovunque per efficienza ed eleganza, un valore aggiunto industriale tipicamente italiano”.

Purtroppo non c’è oggi, nel discorso pubblico, un’adeguata consapevolezza di questo patrimonio e del valore dell’industria (lo abbiamo ripetuto più volte, in questo blog). Né, nel corso del tempo, nel mondo deilla politica e della pubblica amministrazione, sono state assunte scelte coerenti e di lungo periodo per valorizzare, dell’industria, la “cultura politecnica”,  le relazioni tra memoria del “fare bene” e futuro della competitività (Museimpresa, con i suoi oltre 120 iscritti, tra grandi, medie e piccole imprese, ne è esemplare testimone), le capacità innovative e le caratteristiche della fabbrica come strumento efficace di coesione sociale e di promozione del benessere, anche per le nuove generazioni.

Adesso, documenta ancora la Sessa,  per fare fronte alle due grandi sfide del futuro prossimo, la transizione digitale e quella ambientale, strettamente connnesse tra loro (twin transition, è la sintesi corretta) “è fondamentale smettere di pensare alla fabbrica con gli stereotipi del Novecento”.

Le fabbriche, infatti, “per loro natura e se ben guidate, sono templi di modernizzazione sparsi sul territorio. E dunque è tempo che l’opinione pubblica conosca meglio le opportunità offerte dal mondo dell’industria, non solo in campo tecnologico ma anche sul piano della generazione di innovazioni e di sperimentazioni utili all’intera società”

Ecco perché l’industria deve ritornare al centro delle politiche di una nazione come l’Italia. Schierarsi per “il partito dell’industria” – sostiene anche la Sessa – “rappresenta una scelta civile, prima che politica in senso stretto”. Un’indicazione di cui il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni (leader di una destra che non ha finora mostrato una sapiente e radicata cultura industriale e produttiva) dovrà tenere in gran conto, non solo con dichiarazioni politiche di intenti (comunque importanti, come quella sul taglio significativo del cuneo fiscale) ma con scelte coerenti e lungimiranti. Stimolando la twin transition, appunto. E tnendo l’Italia ben salda nel contesto europeo e nelle mappe delle  nuove dimensioni della “globalizzazione selettiva” (la nostra industria è fortemente vocata agli scambi internazionali, all’export e agli investimenti esteri e non nutre alcuna vocazione né sovranista né protezionista).

La parola “fabbrica” si addice molto anche al Mezzogiorno, proprio per fare fronte a un crescente divario di redditi e opportunità rispetto a un Nord più dinamico e integrato nelle tendenze di sviluppo europee.

Gli esiti del Premio Basilicata di cui abbiamo detto all’inizio mostrano un’importante consapevolezza, in una fascia qualificata di opinione pubblica (anche il libro di Bricco su Olivetti contiene pagine di straordinario interesse sugli investimenti olivettiani a Pozzuoli e sulle idee che da Ivrea si muovono verso un qualificato sviluppo economico del Mezzogiorno): se è necessario ragionare in termini di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, economico e culturale, è necessario mettere al centro della discussione una riflessione critica e propositiva sull’industria, come spina dorsale di un processo creativo di lavoro, redditi, benessere. Un processo di cambiamento, che coinvolga anche agricoltura, turismo, salute. Quasi una vera e propria “metamorfosi”: dal Sud assistenziale e rancoroso, adagiato su scelte distorsive come il “reddito di cittadinanza” (non stimola occupazione e viene comunque incontro in modo inadeguato ai bisogni diffusi di sussistenza e di contrasto alla povertà) e su nostalgie neo-borboniche a un Sud propagonista di processi produttivi, nel contesto del rilancio dell’Europa e di risposte alla ritrovata centralità geopolitica del Mediterraneo.

Un Sud, insomma, legato a manifattura, mercato, merito (se merito è premio all’intraprendenza, alla creatività, alla qualità del lavoro ben fatto).

Ecco, allora, perché ha senso parlare di “fabbriche” o, meglio ancora di “neofabbriche”, le manifatture in cui high tech, produzione, ricerca, servizi, logistica si incrociano con i saperi dei territori e le innovazioni della scienza. Tutto caratteristiche di cui proprio il Mezzogiorno, nel corso del tempo, ha dato brillanti testimonianze.

Le cronache economiche raccontano, da qualche tempo, l’attenzione per le intelligenze delle ragazze e dei ragazzi del Sud da parte di grandi e medie imprese, Google e Accenture, Apple e Microsoft, Kpmg e Bosch, Pirelli e Bip, Stm e Technoprobe, etc. Digital Economy e diffusione dell’Intelligenza Arttificiale stimolano il processo.

Se i dati Istat parlano di crescita del divario Nord-Sud, carenze degli investimenti, “fuga dei cervelli”, impoverimento materiale e intellettuale, la sfida dell’inversione di tendenza è comunque aperta. E il suo cardine è appunto, la fabbrica. Che fa bene. Anche al Mezzogiorno, appunto.

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