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Economia in ripresa: dinamismo d’impresa e provincialismo della politica italiana

I banchieri centrali, riuniti come ogni anno a Jackson Hole, sono stati tutto sommato ottimisti. Insistono per promuovere un’economia globale dinamica (“Fostering a dynamic  global economy” è stato il titolo del loro incontro), muovendosi dunque contro i gretti protezionismi purtroppo alla ribalta anche negli Usa di Trump. E pensano che la crescita economica in corso possa ancora migliorare, nonostante le fragilità e le pesanti tensioni sugli scenari geopolitici. Mario Draghi, Bce, ribadisce il giudizio: la ripresa si sta rafforzando. Il giudizio dei banchieri si fonda naturalmente su fatti e dati. L’Ocse prevede che le maggiori economie del mondo, nel 2017, chiudano tutte in positivo, con una simultaneità che non si vedeva dal 2007, inizio della Grande Crisi. E il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita mondiale del 3,5% quest’anno e ancora migliore nel 2018, contro il 3,2% del 2016. Il “Wall Street Journal” ne amplifica l’eco e spende parecchie righe sui risultati positivi dell’Europa mediterranea, comprese Spagna, Portogallo, Italia e la stessa Grecia, dopo anni d’affanno.

Tutto bene, dunque? La cautela è d’obbligo. Anche nell’Italia che per il 2017 prevede un aumento del Pil dell’1,5%, meglio delle stime precedenti ma pur sempre in coda al resto della Ue (media 2,2%).

A smorzare gli entusiasmi di cui si nutre una politica sempre più inquinata da propaganda provvede il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “La ripresa italiana è congiunturale e non strutturale”, ha detto la scorsa settimana parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. E perché lo diventi “occorre proseguire lungo la linea che è già in atto”, ovvero continuando con “le riforme” e “l’innovazione”, in grado “di fare crescere le imprese più in grado di competere a livello globale”. C’è un secondo punto di fragilità, da non sottovalutare: la ripresa economica si basa non solo sull’export ma anche sul miglioramento del mercato interno, ma produce pochi nuovi posti di lavoro. E’ insomma una “jobless recovery”. Le nuove generazioni soprattutto ne soffrono.

C’è una sfida politica, dunque, rafforzando il dinamismo produttivo e sociale dell’industria, nel cuore di una evoluzione verso “Industria 4.0” e la trasformazione “digital” delle nostre imprese (i provvedimenti fiscali del governo Gentiloni a sostegno di chi investe in macchinari, innovazione, ricerca, brevetti ma anche in formazione hi tech vanno giustamente in questa direzione). E una sfida economica per gli imprenditori: investire ancora, fare crescere le imprese, conquistare spazi sui mercati internazionali.

Sta nell’industria, il motore della ripresa italiana. Nella fabbrica. E nei servizi legati alla manifattura. E sono proprio gli incentivi sull’innovazione a fare da stimolo. Vanno bene l’industria dell’auto e, più in generale, tutto il comparto “automotive”. E il giro delle voci che durante l’agosto hanno riguardato Fca (dagli interessi di investitori cinesi alle ipotesi di alleanza con Volkswagen sui veicoli commerciali e agli altri accordi per le auto di nuova generazione) mostrano sia una intraprendenza particolarmente evidente sul piano industriale sia un’attrattività legata alla possibilità di esprimere sempre maggior valore. Ma i dati positivi riguardano un po’ tutta l’industria di qualità: la farmaceutica e la chimica, la gomma, la meccatronica, oltre che la tradizione del made in Italy (agro-alimentare, arredamento e abbigliamento). Lo conferma anche Mediobanca, nel Rapporto sulle principali 2065 imprese italiane grandi e medio-grandi: terzo anno di crescita in fabbrica, con un aumento del fatturato 2016 dell’1,9% (“Corriere della Sera”, 11 agosto). In ripresa pure gli investimenti: nel 2016 la manifattura li ha aumentati del 7,3%, il massimo dal 2010, mentre purtroppo quelli pubblici sono caduti del 26,9%.

Proprio il discorso sugli investimenti fa tornare il ragionamento sullo scenario politico italiano e sui suoi limiti.

Le imprese si muovono. E Confindustria, sullo stimolo di Assolombarda, riunirà il 2 ottobre a Milano i rappresentanti delle associazioni regionali per discutere di fondi europei, investimenti in innovazione e “Industria 4.0”, con l’idea di trovare su questi temi un’alleanza con le imprese di Germania e Francia. Ma, fatte eccezioni, il mondo politico non sembra all’altezza delle sfide economiche in corso. Il governo Gentiloni fa quel che può, con intelligenza e senso di responsabilità. Il dibattito tra i partiti e all’interno dei partiti riguarda altro: legge elettorale, alleanze, ruolo e destino dei leader. E polemiche sulla gestione dell’immigrazione, privilegiando gli slogan (soprattutto quelli a sfondo razzista) e non le scelte politiche. L’economia, anche in Europa, va avanti. La nostra politica, purtroppo, è personalistica e provinciale.

I banchieri centrali, riuniti come ogni anno a Jackson Hole, sono stati tutto sommato ottimisti. Insistono per promuovere un’economia globale dinamica (“Fostering a dynamic  global economy” è stato il titolo del loro incontro), muovendosi dunque contro i gretti protezionismi purtroppo alla ribalta anche negli Usa di Trump. E pensano che la crescita economica in corso possa ancora migliorare, nonostante le fragilità e le pesanti tensioni sugli scenari geopolitici. Mario Draghi, Bce, ribadisce il giudizio: la ripresa si sta rafforzando. Il giudizio dei banchieri si fonda naturalmente su fatti e dati. L’Ocse prevede che le maggiori economie del mondo, nel 2017, chiudano tutte in positivo, con una simultaneità che non si vedeva dal 2007, inizio della Grande Crisi. E il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita mondiale del 3,5% quest’anno e ancora migliore nel 2018, contro il 3,2% del 2016. Il “Wall Street Journal” ne amplifica l’eco e spende parecchie righe sui risultati positivi dell’Europa mediterranea, comprese Spagna, Portogallo, Italia e la stessa Grecia, dopo anni d’affanno.

Tutto bene, dunque? La cautela è d’obbligo. Anche nell’Italia che per il 2017 prevede un aumento del Pil dell’1,5%, meglio delle stime precedenti ma pur sempre in coda al resto della Ue (media 2,2%).

A smorzare gli entusiasmi di cui si nutre una politica sempre più inquinata da propaganda provvede il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “La ripresa italiana è congiunturale e non strutturale”, ha detto la scorsa settimana parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. E perché lo diventi “occorre proseguire lungo la linea che è già in atto”, ovvero continuando con “le riforme” e “l’innovazione”, in grado “di fare crescere le imprese più in grado di competere a livello globale”. C’è un secondo punto di fragilità, da non sottovalutare: la ripresa economica si basa non solo sull’export ma anche sul miglioramento del mercato interno, ma produce pochi nuovi posti di lavoro. E’ insomma una “jobless recovery”. Le nuove generazioni soprattutto ne soffrono.

C’è una sfida politica, dunque, rafforzando il dinamismo produttivo e sociale dell’industria, nel cuore di una evoluzione verso “Industria 4.0” e la trasformazione “digital” delle nostre imprese (i provvedimenti fiscali del governo Gentiloni a sostegno di chi investe in macchinari, innovazione, ricerca, brevetti ma anche in formazione hi tech vanno giustamente in questa direzione). E una sfida economica per gli imprenditori: investire ancora, fare crescere le imprese, conquistare spazi sui mercati internazionali.

Sta nell’industria, il motore della ripresa italiana. Nella fabbrica. E nei servizi legati alla manifattura. E sono proprio gli incentivi sull’innovazione a fare da stimolo. Vanno bene l’industria dell’auto e, più in generale, tutto il comparto “automotive”. E il giro delle voci che durante l’agosto hanno riguardato Fca (dagli interessi di investitori cinesi alle ipotesi di alleanza con Volkswagen sui veicoli commerciali e agli altri accordi per le auto di nuova generazione) mostrano sia una intraprendenza particolarmente evidente sul piano industriale sia un’attrattività legata alla possibilità di esprimere sempre maggior valore. Ma i dati positivi riguardano un po’ tutta l’industria di qualità: la farmaceutica e la chimica, la gomma, la meccatronica, oltre che la tradizione del made in Italy (agro-alimentare, arredamento e abbigliamento). Lo conferma anche Mediobanca, nel Rapporto sulle principali 2065 imprese italiane grandi e medio-grandi: terzo anno di crescita in fabbrica, con un aumento del fatturato 2016 dell’1,9% (“Corriere della Sera”, 11 agosto). In ripresa pure gli investimenti: nel 2016 la manifattura li ha aumentati del 7,3%, il massimo dal 2010, mentre purtroppo quelli pubblici sono caduti del 26,9%.

Proprio il discorso sugli investimenti fa tornare il ragionamento sullo scenario politico italiano e sui suoi limiti.

Le imprese si muovono. E Confindustria, sullo stimolo di Assolombarda, riunirà il 2 ottobre a Milano i rappresentanti delle associazioni regionali per discutere di fondi europei, investimenti in innovazione e “Industria 4.0”, con l’idea di trovare su questi temi un’alleanza con le imprese di Germania e Francia. Ma, fatte eccezioni, il mondo politico non sembra all’altezza delle sfide economiche in corso. Il governo Gentiloni fa quel che può, con intelligenza e senso di responsabilità. Il dibattito tra i partiti e all’interno dei partiti riguarda altro: legge elettorale, alleanze, ruolo e destino dei leader. E polemiche sulla gestione dell’immigrazione, privilegiando gli slogan (soprattutto quelli a sfondo razzista) e non le scelte politiche. L’economia, anche in Europa, va avanti. La nostra politica, purtroppo, è personalistica e provinciale.

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