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“Economia positiva” e “Manifesto della convivialità”, idee critiche per lo sviluppo sostenibile

C’era, negli anni Ottanta e Novanta, “il sogno della merce”, l’universo consumista analizzato criticamente dal sociologo Jean Baudrillard, il trionfo del valore simbolico degli oggetti, segni di status. In politica, “l’edonismo” alla Reagan, l’individualismo alla Thatcher (qui, in Italia, la bolla effimera della “Milano da bere” e delle frenesie modaiole da “Sotto il vestito niente”). In economia, i miti del liberismo dei “Chicago boys”, della finanziarizzazione senza freni né controlli, della globalizzazione sempre e comunque benefica: il “turbocapitalismo”. Poi, è arrivata la crisi, preannunciata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila dalle “bolle” finanziarie internettiane e dai junk bonds (senza che nessuno o quasi, purtroppo, desse ascolto agli analisti critici) ed esplosa in tutta la sua drammatica gravità dal 2007 in poi. Adesso ha senso rileggere, tornando proprio in Baudrillard, un giudizio come questo: “Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza” (“Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?”, parole profetiche, del 1996). Meno e meglio, insomma.

Basta accumulare, dunque. Ripensare criticamente, invece, le culture d’impresa. E cercare di costruire le condizioni per una “economia giusta” (come suggerisce il bel titolo di un libro di Edmondo Berselli del 2011, alla vigilia della sua morte: “Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società”, edizioni Einaudi). Vengono così alla ribalta attività, organizzazioni, iniziative, come il “Movimento per l’economia positiva”, promosso nel 2012 da Jacques Attali, economista molto ascoltato in Europa, punto di riferimento dell’Eliseo, attento a “incoraggiare la diffusione di risposte sostenibili alle sfide economiche, sociali e ambientali che il nostro Pianeta sta affrontando” e a costruire “nuovi sistemi di valori” economici e sociali, misurabili con strumenti diversi dal Pil e sensibili alla definizione di equilibri “nel tempo lungo”. Si rileggono gli studi di Michael Porter sul “valore condiviso”, contrassegnato da un alto tasso di capitale relazionale e sociale. Si discute di “Pikettynomics” e cioè delle critiche alle diseguaglianze prodotte dalle nuove dimensioni del capitalismo finanziario e patrimoniale, secondo le analisi di Thomas Piketty, un economista che piace poco agli establishment economici e molto agli intellettuali americani e ai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stieglitz. Si ascoltano le lezioni di Jeremy Rifkin sull’”economia ibrida e della condivisione” con occhi molto attenti ai valori “green”, ambientalisti. Si analizzano i nuovi paradigmi di una “crescita felice”, con i suoi “percorsi di futuro civile” elaborati da Francesco Morace, attento sociologo. Si parla di atteggiamenti “neo-responsabili” (scegliere il meno ma anche il meglio, ridimensionare l’accumulazione da consumismo bulimico, rivendicare le valenze positive della sostenibilità, alla Baudrillard, appunto). Aumenta il numero delle imprese impegnate nel “marketing della bontà” e cioè in campagne di solidarietà sociale e ambientale, come aggiunta di motivazione per la vendita dei loro prodotti, con l’occhio ai consumatori più sensibili e attenti “a una buona causa” e cioè più ai valori che non agli status symbol dell’effimero (la Repubblica, 26 agosto 2014). E trova ascolto, condivisione e successo il “Manifesto convivialista”, una “Dichiarazione di interdipendenza” firmata da numerosi studiosi “anti-utilitaristi” di tutto il mondo, come Edgar Morin, Alain Caillé, Serge Latouche, Elena Pulcini, Francesco Fistetti e altri (il “Manifesto” è pubblicato in Italia da Ets di Pisa, ne parla il filosofo Adriano Favole su “La Lettura” del Corriere della Sera, 29 giugno 2014). Etichetta nuova, il “convivialismo”. Attento al “con” di convivere, condividere, al “noi” contrapposto all’esasperazione individualista del primato dell’”io irresponsabile”, alle relazionalità. E sensibile, naturalmente, alla sostenibilità dello sviluppo ma anche scarsamente incline ai miti della “decrescita felice” (anche se tra i suoi firmatari c’è l’ideologo di questa tendenza, Latouche). Né ostile al mercato, purché non sia un assolutismo ideologico, il “mercatismo”: “Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune utilità e comune socialità e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche” (una posizione che trova riscontri anche con le recenti indicazioni della Chiesa di Papa Francesco sulla necessità di nuovi equilibri economici).

Le posizioni del Manifesto sono una derivazione del “Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali”, Mauss in acronimo, come il cognome di Marcel Mauss che nei primi anni del Novecento pubblicò un libro, “Il saggio sul dono” che aveva ricordato l’esistenza, nel pensiero occidentale, di una logica economica alternativa o comunque complementare a quella del mercato e che a lungo ispirato, anche il Italia, le culture dell’economia sociale, della cooperazione, del “terzo settore” e che oggi torna di piena, per quanto critica, attualità. Quattro i principi: la “comune umanità”, da rispettare nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze etniche, religiose, di genere, di nazionalità, di ricchezza; la “comune socialità”, con attenzione per lo sviluppo delle relazioni sociali, del “capitale sociale” positivo; il principio di “individuazione”, per permettere ad ognuno “di sviluppare la propria singolare individualità in divenire” (con un riscontro, qui, con il diritto allo sviluppo delle “capacità” caro alle analisi di Martha Nussbaum); il principio di “opposizione controllata”, che permette “agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto”.

Sono posizioni di grande interesse, naturalmente. Stimolanti. Da affrontare criticamente. E da considerare comunque come elementi di un dibattito più generale che investe politica, imprese, settori sociali. Tutti soggetti legati da un interesse comune: usare la crisi in corso come stimolo al cambiamento, costruire una maggiore e migliore sostenibilità dello sviluppo, economico e sociale. Un’”economia giusta”, appunto.

C’era, negli anni Ottanta e Novanta, “il sogno della merce”, l’universo consumista analizzato criticamente dal sociologo Jean Baudrillard, il trionfo del valore simbolico degli oggetti, segni di status. In politica, “l’edonismo” alla Reagan, l’individualismo alla Thatcher (qui, in Italia, la bolla effimera della “Milano da bere” e delle frenesie modaiole da “Sotto il vestito niente”). In economia, i miti del liberismo dei “Chicago boys”, della finanziarizzazione senza freni né controlli, della globalizzazione sempre e comunque benefica: il “turbocapitalismo”. Poi, è arrivata la crisi, preannunciata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila dalle “bolle” finanziarie internettiane e dai junk bonds (senza che nessuno o quasi, purtroppo, desse ascolto agli analisti critici) ed esplosa in tutta la sua drammatica gravità dal 2007 in poi. Adesso ha senso rileggere, tornando proprio in Baudrillard, un giudizio come questo: “Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza” (“Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?”, parole profetiche, del 1996). Meno e meglio, insomma.

Basta accumulare, dunque. Ripensare criticamente, invece, le culture d’impresa. E cercare di costruire le condizioni per una “economia giusta” (come suggerisce il bel titolo di un libro di Edmondo Berselli del 2011, alla vigilia della sua morte: “Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società”, edizioni Einaudi). Vengono così alla ribalta attività, organizzazioni, iniziative, come il “Movimento per l’economia positiva”, promosso nel 2012 da Jacques Attali, economista molto ascoltato in Europa, punto di riferimento dell’Eliseo, attento a “incoraggiare la diffusione di risposte sostenibili alle sfide economiche, sociali e ambientali che il nostro Pianeta sta affrontando” e a costruire “nuovi sistemi di valori” economici e sociali, misurabili con strumenti diversi dal Pil e sensibili alla definizione di equilibri “nel tempo lungo”. Si rileggono gli studi di Michael Porter sul “valore condiviso”, contrassegnato da un alto tasso di capitale relazionale e sociale. Si discute di “Pikettynomics” e cioè delle critiche alle diseguaglianze prodotte dalle nuove dimensioni del capitalismo finanziario e patrimoniale, secondo le analisi di Thomas Piketty, un economista che piace poco agli establishment economici e molto agli intellettuali americani e ai premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stieglitz. Si ascoltano le lezioni di Jeremy Rifkin sull’”economia ibrida e della condivisione” con occhi molto attenti ai valori “green”, ambientalisti. Si analizzano i nuovi paradigmi di una “crescita felice”, con i suoi “percorsi di futuro civile” elaborati da Francesco Morace, attento sociologo. Si parla di atteggiamenti “neo-responsabili” (scegliere il meno ma anche il meglio, ridimensionare l’accumulazione da consumismo bulimico, rivendicare le valenze positive della sostenibilità, alla Baudrillard, appunto). Aumenta il numero delle imprese impegnate nel “marketing della bontà” e cioè in campagne di solidarietà sociale e ambientale, come aggiunta di motivazione per la vendita dei loro prodotti, con l’occhio ai consumatori più sensibili e attenti “a una buona causa” e cioè più ai valori che non agli status symbol dell’effimero (la Repubblica, 26 agosto 2014). E trova ascolto, condivisione e successo il “Manifesto convivialista”, una “Dichiarazione di interdipendenza” firmata da numerosi studiosi “anti-utilitaristi” di tutto il mondo, come Edgar Morin, Alain Caillé, Serge Latouche, Elena Pulcini, Francesco Fistetti e altri (il “Manifesto” è pubblicato in Italia da Ets di Pisa, ne parla il filosofo Adriano Favole su “La Lettura” del Corriere della Sera, 29 giugno 2014). Etichetta nuova, il “convivialismo”. Attento al “con” di convivere, condividere, al “noi” contrapposto all’esasperazione individualista del primato dell’”io irresponsabile”, alle relazionalità. E sensibile, naturalmente, alla sostenibilità dello sviluppo ma anche scarsamente incline ai miti della “decrescita felice” (anche se tra i suoi firmatari c’è l’ideologo di questa tendenza, Latouche). Né ostile al mercato, purché non sia un assolutismo ideologico, il “mercatismo”: “Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune utilità e comune socialità e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche” (una posizione che trova riscontri anche con le recenti indicazioni della Chiesa di Papa Francesco sulla necessità di nuovi equilibri economici).

Le posizioni del Manifesto sono una derivazione del “Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali”, Mauss in acronimo, come il cognome di Marcel Mauss che nei primi anni del Novecento pubblicò un libro, “Il saggio sul dono” che aveva ricordato l’esistenza, nel pensiero occidentale, di una logica economica alternativa o comunque complementare a quella del mercato e che a lungo ispirato, anche il Italia, le culture dell’economia sociale, della cooperazione, del “terzo settore” e che oggi torna di piena, per quanto critica, attualità. Quattro i principi: la “comune umanità”, da rispettare nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze etniche, religiose, di genere, di nazionalità, di ricchezza; la “comune socialità”, con attenzione per lo sviluppo delle relazioni sociali, del “capitale sociale” positivo; il principio di “individuazione”, per permettere ad ognuno “di sviluppare la propria singolare individualità in divenire” (con un riscontro, qui, con il diritto allo sviluppo delle “capacità” caro alle analisi di Martha Nussbaum); il principio di “opposizione controllata”, che permette “agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto”.

Sono posizioni di grande interesse, naturalmente. Stimolanti. Da affrontare criticamente. E da considerare comunque come elementi di un dibattito più generale che investe politica, imprese, settori sociali. Tutti soggetti legati da un interesse comune: usare la crisi in corso come stimolo al cambiamento, costruire una maggiore e migliore sostenibilità dello sviluppo, economico e sociale. Un’”economia giusta”, appunto.

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