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Europa in cerca d’una nuova politica comune sui diritti sociali: riforme per lavoro e welfare

La dialettica povera dei social media schiaccia la realtà in due schematiche dimensioni: il pollice alzato dei like o il pollice verso il basso, come nei feroci giochi gladiatorii da Circo Massimo, la vita o la morte. Gli haters o i followers, senza margini di critica ragionata e consapevole. I no vax integralisti, ostili a scienza e competenza e gli adoratori plaudenti di qualunque cosa dica uno scienziato su twitter o in Tv, dimenticando che proprio la scienza è ricerca, dubbio, esperimento, percorso per trials and errors, conquiste ogni volta da ridiscutere e superare. Apocalittici o integrati, come avrebbe detto Umberto Eco.

La realtà che ogni giorno ci tocca vivere, invece, è sempre più complessa, refrattaria alle retoriche della banale semplificazione. Ci impone di pensare e decidere non per le opposizioni nette dell’aut aut ma secondo le composizioni dell’et et: costruire sintesi originali che tengano insieme elementi, tensioni, interessi diversi.

E’ proprio ciò che sta cercando di fare adesso l’Europa mentre, sotto le spinte di pandemia e recessione che ne hanno evidenziato la fragilità dei modelli economici e sociali, ha cominciato a discutere al Social Summit di Oporto una nuova “Dichiarazione sui diritti sociali” che adegui i sistemi di welfare e dunque la spesa pubblica dei paesi Ue alle modifiche del mondo del lavoro, alle esigenze della salute come bene comune di dimensioni globali, ai bisogni di istruzione e conoscenza non solo delle nuove generazioni, ma anche di quelle persone di mezza età che rischiano di essere travolte dal digital divide e dunque tagliate fuori sia dai processi di occupazione, sia dal godimento dei servizi pubblici e privati e, più in generale, dall’incrocio dei diritti e doveri della cittadinanza.

Un’Europa che componga diversità, lungo un cammino comune. Non certo un’Europa che allarghi discriminazioni e differenze, in un mondo in cui comunque crescono tensioni politiche ed economiche sui grandi temi: l’ambiente, le diseguaglianze sociali, gli interessi legati alla crescita economica, il governo dell’innovazione digitale, la sicurezza anche nella sofisticata dimensione della cyber security. Nell’età delle incertezze in cui stiamo vivendo, proprio l’Europa, ridisegnando ruoli e responsabilità di sviluppo al suo interno e verso l’esterno, può dare un contributo determinante agli equilibri di nuove civiltà.

Sta qui, il senso del cammino intrapreso nei giorni scorsi a Oporto. Abbiamo di fronte tre grandi divari: generazionale, di genere, tra territori. Senza cercare di sanarli, con solido senso di responsabilità pragmatica dei buoni riformisti e con sguardo ambizioso verso il futuro, il “modello sociale europeo” di cui siamo giustamente orgogliosi (economia di mercato e welfare, intraprendenza personale e intervento pubblico sui grandi temi, diritti individuali e spirito di comunità, competitività e solidarietà) rischia di non reggere di fronte alle sfide dei tempi nuovi.

Ne sono ben consapevoli alcuni dei maggiori capi di Stato della Ue, da Sergio Mattarella al francese Macron e al tedesco Steinmeier che in una lettera inviata nei giorni scorsi “ai cittadini europei”, hanno chiarito: “Abbiamo bisogno di una Unione europea forte, ed efficace, che sia leader globale nella transizione verso uno sviluppo sostenibile, climaticamente neutrale e trainato dal digitale. Occorre un’Unione nella quale ci possiamo tutti identificare, certi di avere fatto tutto il possibile a beneficio delle generazioni future”.

La lettera (nata da un’iniziativa del presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e subito condivisa dal Quirinale) insiste su quanto siano importanti oggi i temi della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, della “reciproca solidarietà e collaborazione”. Ci si chiede “come possiamo assicurare collettivamente che i principi fondanti dell’integrazione (libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e libertà di espressione, solidarietà, democrazia e lealtà tra gli Stati membri) restino rilevanti per il futuro”. E si risponde che “nonostante l’Unione europea a volte sembri non equipaggiata per fare fronte alle molte sfide emerse nell’ultimo decennio – dalla crisi economica e finanziaria alle sfide nel perseguire un sistema migratorio europeo giusto ed equo, sino all’attuale pandemia – siamo ben consapevoli che sarebbe molto più difficile per ciascuno di noi se fossimo da soli”.

“Insieme”, dunque, è la parola chiave per una Ue “forte ed efficace”.

La traduzione in scelte politiche di queste indicazioni strategiche ha occupato l’attenzione del vertice di Oporto. Con Mario Draghi impegnato a fare da riferimento per le spinte a una maggiore solidarietà contro le resistenze di coloro (Olanda e paesi scandinavi in primo piano) restii a un impegno finanziario comune sui temi sociali. Le politiche nazionali, da sole, non bastano a disegnare un nuovo welfare, ha detto Draghi. E ha sostenuto il piano, definito dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni, per un uso più estero del “Sure”, il fondo europeo che finanzia la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali, da rafforzare nel tempo con bond Ue (offerti e garantiti da Bruxelles sui mercati mondiali) proprio per avere risorse utili a seguire le evoluzioni del mercato del lavoro in rapido e impetuoso cambiamento, investendo in sostegni temporanei e in formazione. La strada, per quanto impervia, è aperta.

Siamo di fronte a una grande partita politica, di democrazia e cambiamento, a una sfida di fiducia.

Populismi di opposto colore e sovranismi di vario tipo (compresi quelli purtroppo interni al complesso mondo Ue) si sono rivelati totalmente incapaci di dare risposte efficaci ai bisogni di lavoro, sicurezza sociale, fiducia nel futuro, se si va al di là dalle parole d’ordine della propaganda che, naturalmente, non “aboliscono la povertà” né assicurano benefici duraturi secondo i proclami del “prima gli americani”, o gli inglesi, o gli italiani. Serve, invece, tornare alle passioni e alle scelte della buona politica, “a una nuova stagione di impegno civile e di lotta politica”, come suggerisce Antonio Scurati sul “Corriere della Sera” (9 maggio). Una politica di valori e interessi legittimi. Era buona politica il whatever it takes con cui Mario Draghi, presidente della Bce, ha salvato l’euro. Buona politica il Recovery Plan della Ue guidata da Ursula von der Layen e il green new deal voluto anche da Angela Merkel. Adesso è buona politica l’attuazione della “Dichiarazione sui diritti sociali” di Oporto. Sono tutte scelte che dobbiamo alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti, con la memoria grata di avere ereditato, dai nostri padri, un’Europa segnata dall’ambizione della pace e dello sviluppo.

La dialettica povera dei social media schiaccia la realtà in due schematiche dimensioni: il pollice alzato dei like o il pollice verso il basso, come nei feroci giochi gladiatorii da Circo Massimo, la vita o la morte. Gli haters o i followers, senza margini di critica ragionata e consapevole. I no vax integralisti, ostili a scienza e competenza e gli adoratori plaudenti di qualunque cosa dica uno scienziato su twitter o in Tv, dimenticando che proprio la scienza è ricerca, dubbio, esperimento, percorso per trials and errors, conquiste ogni volta da ridiscutere e superare. Apocalittici o integrati, come avrebbe detto Umberto Eco.

La realtà che ogni giorno ci tocca vivere, invece, è sempre più complessa, refrattaria alle retoriche della banale semplificazione. Ci impone di pensare e decidere non per le opposizioni nette dell’aut aut ma secondo le composizioni dell’et et: costruire sintesi originali che tengano insieme elementi, tensioni, interessi diversi.

E’ proprio ciò che sta cercando di fare adesso l’Europa mentre, sotto le spinte di pandemia e recessione che ne hanno evidenziato la fragilità dei modelli economici e sociali, ha cominciato a discutere al Social Summit di Oporto una nuova “Dichiarazione sui diritti sociali” che adegui i sistemi di welfare e dunque la spesa pubblica dei paesi Ue alle modifiche del mondo del lavoro, alle esigenze della salute come bene comune di dimensioni globali, ai bisogni di istruzione e conoscenza non solo delle nuove generazioni, ma anche di quelle persone di mezza età che rischiano di essere travolte dal digital divide e dunque tagliate fuori sia dai processi di occupazione, sia dal godimento dei servizi pubblici e privati e, più in generale, dall’incrocio dei diritti e doveri della cittadinanza.

Un’Europa che componga diversità, lungo un cammino comune. Non certo un’Europa che allarghi discriminazioni e differenze, in un mondo in cui comunque crescono tensioni politiche ed economiche sui grandi temi: l’ambiente, le diseguaglianze sociali, gli interessi legati alla crescita economica, il governo dell’innovazione digitale, la sicurezza anche nella sofisticata dimensione della cyber security. Nell’età delle incertezze in cui stiamo vivendo, proprio l’Europa, ridisegnando ruoli e responsabilità di sviluppo al suo interno e verso l’esterno, può dare un contributo determinante agli equilibri di nuove civiltà.

Sta qui, il senso del cammino intrapreso nei giorni scorsi a Oporto. Abbiamo di fronte tre grandi divari: generazionale, di genere, tra territori. Senza cercare di sanarli, con solido senso di responsabilità pragmatica dei buoni riformisti e con sguardo ambizioso verso il futuro, il “modello sociale europeo” di cui siamo giustamente orgogliosi (economia di mercato e welfare, intraprendenza personale e intervento pubblico sui grandi temi, diritti individuali e spirito di comunità, competitività e solidarietà) rischia di non reggere di fronte alle sfide dei tempi nuovi.

Ne sono ben consapevoli alcuni dei maggiori capi di Stato della Ue, da Sergio Mattarella al francese Macron e al tedesco Steinmeier che in una lettera inviata nei giorni scorsi “ai cittadini europei”, hanno chiarito: “Abbiamo bisogno di una Unione europea forte, ed efficace, che sia leader globale nella transizione verso uno sviluppo sostenibile, climaticamente neutrale e trainato dal digitale. Occorre un’Unione nella quale ci possiamo tutti identificare, certi di avere fatto tutto il possibile a beneficio delle generazioni future”.

La lettera (nata da un’iniziativa del presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor e subito condivisa dal Quirinale) insiste su quanto siano importanti oggi i temi della salute, dell’istruzione, dell’ambiente, della “reciproca solidarietà e collaborazione”. Ci si chiede “come possiamo assicurare collettivamente che i principi fondanti dell’integrazione (libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e libertà di espressione, solidarietà, democrazia e lealtà tra gli Stati membri) restino rilevanti per il futuro”. E si risponde che “nonostante l’Unione europea a volte sembri non equipaggiata per fare fronte alle molte sfide emerse nell’ultimo decennio – dalla crisi economica e finanziaria alle sfide nel perseguire un sistema migratorio europeo giusto ed equo, sino all’attuale pandemia – siamo ben consapevoli che sarebbe molto più difficile per ciascuno di noi se fossimo da soli”.

“Insieme”, dunque, è la parola chiave per una Ue “forte ed efficace”.

La traduzione in scelte politiche di queste indicazioni strategiche ha occupato l’attenzione del vertice di Oporto. Con Mario Draghi impegnato a fare da riferimento per le spinte a una maggiore solidarietà contro le resistenze di coloro (Olanda e paesi scandinavi in primo piano) restii a un impegno finanziario comune sui temi sociali. Le politiche nazionali, da sole, non bastano a disegnare un nuovo welfare, ha detto Draghi. E ha sostenuto il piano, definito dal commissario all’Economia Paolo Gentiloni, per un uso più estero del “Sure”, il fondo europeo che finanzia la cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali, da rafforzare nel tempo con bond Ue (offerti e garantiti da Bruxelles sui mercati mondiali) proprio per avere risorse utili a seguire le evoluzioni del mercato del lavoro in rapido e impetuoso cambiamento, investendo in sostegni temporanei e in formazione. La strada, per quanto impervia, è aperta.

Siamo di fronte a una grande partita politica, di democrazia e cambiamento, a una sfida di fiducia.

Populismi di opposto colore e sovranismi di vario tipo (compresi quelli purtroppo interni al complesso mondo Ue) si sono rivelati totalmente incapaci di dare risposte efficaci ai bisogni di lavoro, sicurezza sociale, fiducia nel futuro, se si va al di là dalle parole d’ordine della propaganda che, naturalmente, non “aboliscono la povertà” né assicurano benefici duraturi secondo i proclami del “prima gli americani”, o gli inglesi, o gli italiani. Serve, invece, tornare alle passioni e alle scelte della buona politica, “a una nuova stagione di impegno civile e di lotta politica”, come suggerisce Antonio Scurati sul “Corriere della Sera” (9 maggio). Una politica di valori e interessi legittimi. Era buona politica il whatever it takes con cui Mario Draghi, presidente della Bce, ha salvato l’euro. Buona politica il Recovery Plan della Ue guidata da Ursula von der Layen e il green new deal voluto anche da Angela Merkel. Adesso è buona politica l’attuazione della “Dichiarazione sui diritti sociali” di Oporto. Sono tutte scelte che dobbiamo alle nuove generazioni, ai nostri figli e nipoti, con la memoria grata di avere ereditato, dai nostri padri, un’Europa segnata dall’ambizione della pace e dello sviluppo.

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