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Europa, le scelte contro il declino, pensando insieme riforma delle istituzioni, difesa e politica industriale 

L’Europa bisogna pensarla, finalmente, nella sua intera complessità. E costruirne, come parte di un unico disegno politico, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento delle libertà e la diffusione del welfare più giusto ed equilibrato, le capacità di investimento (a cominciare dall’Intelligenza Artificiale, la nuova condizione della conoscenza e della competitività, con tutte le loro conseguenze) e l’equilibrio di lungo periodo dei conti pubblici. Per dirla in sintesi: serve tenere finalmente insieme la moneta e la spada, pilastri di ogni organizzazione statuale o struttura unitaria di stati (la prima ce l’abbiamo già, un miracolo di ingegneria politica e finanziaria; la seconda è velocemente da costruire e affilare). Ma anche le istituzioni e l’economia, come motore di produzione e distribuzione della ricchezza.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo le cronache dalle varie aree delle crisi geopolitiche in corso (Ucraina, Medio Oriente…) e riflettendo sui dati e sui fatti che testimoniano la fragilità della Ue di fronte alle scelte di fondo degli Usa e della Cina, dell’India, della Russia aggressiva ed espansiva e degli altri vecchi e nuovi protagonisti della scena mondiale.

Sono evidenti, insomma, i rischi crescenti di declino. Uno tra i principali: quello demografico. “Un’Europa senza figli”, documenta “Il Sole24Ore”, citando Eurostat che mostra come la popolazione europea in età di lavoro diminuirà dai 265 milioni del 2022 ai 258 milioni nel 2030 e senza interventi correttivi potrebbe scendere ancora ai 250 milioni nel 2050. “Servono 7 milioni di lavoratori al 2030”, calcola il quotidiano della Confindustria (3 marzo). E dunque sono indispensabili e urgenti nuove politiche di riforma del mercato del lavoro (immettendovi quei milioni di donne e di giovani che, per esempio in Italia, sono ancora tagliati fuori) e soprattutto migliori politiche dell’immigrazione, per milioni di nuove persone dall’Africa e dall’Asia.

“I flussi in entrata sono una necessità”, insiste Alessandro Rosina, competente demografo. Con persone da formare, qualificare, includere nel circuito virtuoso della produzione e della cittadinanza, dei diritti e dei doveri. Compito immenso, responsabilità storica.

Sono questi i temi su cui è essenziale riflettere, proprio in questi mesi che precedono le elezioni di giugno per il nuovo Parlamento Ue. E anche se sembra che il discorso pubblico, non solo in Italia ma anche negli altri principali paesi europei, privilegi le questioni di politica interna nazionale e troppo spesso cerchi di fare leva sulle paure, i risentimenti localistici e le ideologie escludenti, cerchi cioè di stimolare gli “istinti di pancia” e non l’intelligenza progettuale essenziale per costruire un futuro migliore, è indispensabile fare capire, responsabilmente, agli elettori, che siamo all’inizio di un nuovo ciclo storico. In cui la scelta di fondo è chiara: o sapremo avere più Europa e un’Europa migliore, o andremo incontro a una crisi radicale dell’Europa che abbiamo sinora voluto, costruito, vissuto: la decadenza europea, il tramonto del nostro modello di civiltà democratica e, tutto sommato, prospera.

Vale allora la pena, proprio in una stagione così carica di incertezze e timori, tornare agli atti fondativi. Il Manifesto di Ventotene (firmato nel 1941 da tre straordinari intellettuali italiani, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, mentre il mondo era nella morsa della guerra e della violenza nazista e fascista e i tre erano chiusi al confino, appunto nell’isola di Ventotene, perché antifascisti; un Manifesto poi diffuso da due donne coraggiose, Ursula Hirschmann e Ada Rossi). Gli scritti dei “padri fondatori”, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, Jean Monnet e Robert Schuman, Paul Henri Spaak e Joseph Beck. I Trattati, a cominciare da quello di Roma con cui, nel 1957, nasce la CEE (Comunità Economica Europea) tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. E, ancora, tutti gli altri atti che rafforzano le istituzioni comunitarie e rendono più efficace ed efficiente la costruzione europea, che via via si allarga, sino all’attuale struttura con 27 paesi (in vista dell’ulteriore allargamento a 35). Le scelte ispirate da grandi europei come Jacques Delors e leader politici come Charles De Gaulle e poi François Mitterrand ed Helmut Kohl. La nascita dell’Euro e della Banca Centrale Europea. Le scelte contemporanee, compresa la Costituzione.

Un percorso complesso. Tutt’altro che privo di ombre, conflitti, limiti, cadute burocratiche, scarso spirito di collaborazione, egoismi nazionali (d’altronde la storia umana non è mai lineare e trionfale). Ma è un percorso di grande valore, da non svalutare né accantonare. Gli stessi inglesi, adesso, stanno ripensando criticamente la scelta della Brexit, la rottura con la Ue che ne ha indebolito economia e relazioni sociali e culturali.

E’ l’Europa di settant’anni di pace e di sviluppo economico. In cui siamo stati capaci di fare convivere la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare State e cioè la libertà, la crescita e il benessere diffuso. Un patrimonio unico al mondo. Che è necessario studiare, rivendicare, difendere, valorizzare. Un patrimonio per le nuove generazioni.

Al nuovo Parlamento e alla nuova Commissione, dunque, toccheranno compiti di rifondazione e rilancio, in un mix originale di continuità e innovazione. Un rilancio istituzionale (superando l’attuale lenta e spesso paralizzante governance all’unanimità e passando a decisioni a maggioranza). E una riforma dei processi di governo, a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli altri strumenti in mano alla Commissione. Un rinnovamento finanziario (dal bilancio pluriennale Ue ‘24-‘27 da potenziare agli eurobond da lanciare sui mercati internazionali, per finanziare i programmi di rafforzamento e sviluppo). E progettuale.

Ecco il punto: un grande progetto europeo che pensi all’Europa dal punto di vista della difesa comune (nello schieramento atlantico, naturalmente, ma con maggiore autonomia rispetto agli Usa, come peraltro gli Usa stessi pretendono) e dell’energia (l’energia atomica europea). Della transizione ambientale da rendere compatibile con la competitività delle imprese europee e con la sostenibilità sociale. Dello sviluppo dell’economia digitale e dell’Intelligenza Artificiale (un’AI europea, da costruire rapidamente per fare fronte agli scelte di Usa, Cina e India; ne abbiamo già parlato nei blog delle scorse settimane). Della scienza e della cultura aperta e inclusiva, secondo i canoni migliori della cultura occidentale.

Sono in discussione, insomma, cambiamenti economici e sociali di lungo periodo. Da affrontare in una prospettiva di lungo periodo e cioè con la gradualità necessaria, ma con la chiara e impegnativa visione del futuro. Serve dunque una politica industriale europea (ne abbiamo scritto più volte) che abbia un perno nell’industria della difesa e insista sui fattori di produttività e competitività, lasciando alle imprese le scelte degli strumenti di investimento nei vari settori e di crescita (un esempio? la neutralità tecnologica per il mondo automotive, senza vincoli sul primato dell’auto elettrica). E servirono politiche fiscali comuni, che si riflettano sul bilancio, evitino le asimmetrie tra paesi (che incoraggiano evasioni ed elusioni fiscali) e rimodulino la spesa pubblica, rendendola più efficiente e produttiva (l’agricoltura è uno dei settori chiave).

Troppo difficile? Marco Buti e Marcello Messori (Il Sole24Ore, 3 marzo) ricordano che negli anni passati gli ambizioni principi di riforma e rilancio della Ue hanno trovato realizzazione. Nella costruzione del Mercato unico, con il Libro Bianco del 1985 e con le conseguenze che si sono riflesse nel Trattato di Maastricht del 1992 e poi sull’unione monetaria. Nel whatever it takes di Mario Draghi nel luglio 2012, “che ha superato la politica monetaria convenzionale e ha evitato una crisi irreversibile dell’euro”. Nell’iniziativa di Merkel e Macron e della Commissione Ue che ha portato al Recovery Plan post Covid ed è sfociata nel varo di Next Generation Ue nell’estate del 2020: “Si è resa così elastica la dotazione del capitale politico esistente, attraversando ‘linee rosse’ che apparivano invalicabili”.

Esperienze da ripetere. Superando – dicono Buti e Messori – anche “il tabù della riforma dei Trattati” e dunque dando all’Europa una struttura di governo migliore ed efficace, più in linea con i tempi di crisi e cambiamenti. Più Europa, nonostante tutto.

(foto Getty Images)

L’Europa bisogna pensarla, finalmente, nella sua intera complessità. E costruirne, come parte di un unico disegno politico, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento delle libertà e la diffusione del welfare più giusto ed equilibrato, le capacità di investimento (a cominciare dall’Intelligenza Artificiale, la nuova condizione della conoscenza e della competitività, con tutte le loro conseguenze) e l’equilibrio di lungo periodo dei conti pubblici. Per dirla in sintesi: serve tenere finalmente insieme la moneta e la spada, pilastri di ogni organizzazione statuale o struttura unitaria di stati (la prima ce l’abbiamo già, un miracolo di ingegneria politica e finanziaria; la seconda è velocemente da costruire e affilare). Ma anche le istituzioni e l’economia, come motore di produzione e distribuzione della ricchezza.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo le cronache dalle varie aree delle crisi geopolitiche in corso (Ucraina, Medio Oriente…) e riflettendo sui dati e sui fatti che testimoniano la fragilità della Ue di fronte alle scelte di fondo degli Usa e della Cina, dell’India, della Russia aggressiva ed espansiva e degli altri vecchi e nuovi protagonisti della scena mondiale.

Sono evidenti, insomma, i rischi crescenti di declino. Uno tra i principali: quello demografico. “Un’Europa senza figli”, documenta “Il Sole24Ore”, citando Eurostat che mostra come la popolazione europea in età di lavoro diminuirà dai 265 milioni del 2022 ai 258 milioni nel 2030 e senza interventi correttivi potrebbe scendere ancora ai 250 milioni nel 2050. “Servono 7 milioni di lavoratori al 2030”, calcola il quotidiano della Confindustria (3 marzo). E dunque sono indispensabili e urgenti nuove politiche di riforma del mercato del lavoro (immettendovi quei milioni di donne e di giovani che, per esempio in Italia, sono ancora tagliati fuori) e soprattutto migliori politiche dell’immigrazione, per milioni di nuove persone dall’Africa e dall’Asia.

“I flussi in entrata sono una necessità”, insiste Alessandro Rosina, competente demografo. Con persone da formare, qualificare, includere nel circuito virtuoso della produzione e della cittadinanza, dei diritti e dei doveri. Compito immenso, responsabilità storica.

Sono questi i temi su cui è essenziale riflettere, proprio in questi mesi che precedono le elezioni di giugno per il nuovo Parlamento Ue. E anche se sembra che il discorso pubblico, non solo in Italia ma anche negli altri principali paesi europei, privilegi le questioni di politica interna nazionale e troppo spesso cerchi di fare leva sulle paure, i risentimenti localistici e le ideologie escludenti, cerchi cioè di stimolare gli “istinti di pancia” e non l’intelligenza progettuale essenziale per costruire un futuro migliore, è indispensabile fare capire, responsabilmente, agli elettori, che siamo all’inizio di un nuovo ciclo storico. In cui la scelta di fondo è chiara: o sapremo avere più Europa e un’Europa migliore, o andremo incontro a una crisi radicale dell’Europa che abbiamo sinora voluto, costruito, vissuto: la decadenza europea, il tramonto del nostro modello di civiltà democratica e, tutto sommato, prospera.

Vale allora la pena, proprio in una stagione così carica di incertezze e timori, tornare agli atti fondativi. Il Manifesto di Ventotene (firmato nel 1941 da tre straordinari intellettuali italiani, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, mentre il mondo era nella morsa della guerra e della violenza nazista e fascista e i tre erano chiusi al confino, appunto nell’isola di Ventotene, perché antifascisti; un Manifesto poi diffuso da due donne coraggiose, Ursula Hirschmann e Ada Rossi). Gli scritti dei “padri fondatori”, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, Jean Monnet e Robert Schuman, Paul Henri Spaak e Joseph Beck. I Trattati, a cominciare da quello di Roma con cui, nel 1957, nasce la CEE (Comunità Economica Europea) tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. E, ancora, tutti gli altri atti che rafforzano le istituzioni comunitarie e rendono più efficace ed efficiente la costruzione europea, che via via si allarga, sino all’attuale struttura con 27 paesi (in vista dell’ulteriore allargamento a 35). Le scelte ispirate da grandi europei come Jacques Delors e leader politici come Charles De Gaulle e poi François Mitterrand ed Helmut Kohl. La nascita dell’Euro e della Banca Centrale Europea. Le scelte contemporanee, compresa la Costituzione.

Un percorso complesso. Tutt’altro che privo di ombre, conflitti, limiti, cadute burocratiche, scarso spirito di collaborazione, egoismi nazionali (d’altronde la storia umana non è mai lineare e trionfale). Ma è un percorso di grande valore, da non svalutare né accantonare. Gli stessi inglesi, adesso, stanno ripensando criticamente la scelta della Brexit, la rottura con la Ue che ne ha indebolito economia e relazioni sociali e culturali.

E’ l’Europa di settant’anni di pace e di sviluppo economico. In cui siamo stati capaci di fare convivere la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare State e cioè la libertà, la crescita e il benessere diffuso. Un patrimonio unico al mondo. Che è necessario studiare, rivendicare, difendere, valorizzare. Un patrimonio per le nuove generazioni.

Al nuovo Parlamento e alla nuova Commissione, dunque, toccheranno compiti di rifondazione e rilancio, in un mix originale di continuità e innovazione. Un rilancio istituzionale (superando l’attuale lenta e spesso paralizzante governance all’unanimità e passando a decisioni a maggioranza). E una riforma dei processi di governo, a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli altri strumenti in mano alla Commissione. Un rinnovamento finanziario (dal bilancio pluriennale Ue ‘24-‘27 da potenziare agli eurobond da lanciare sui mercati internazionali, per finanziare i programmi di rafforzamento e sviluppo). E progettuale.

Ecco il punto: un grande progetto europeo che pensi all’Europa dal punto di vista della difesa comune (nello schieramento atlantico, naturalmente, ma con maggiore autonomia rispetto agli Usa, come peraltro gli Usa stessi pretendono) e dell’energia (l’energia atomica europea). Della transizione ambientale da rendere compatibile con la competitività delle imprese europee e con la sostenibilità sociale. Dello sviluppo dell’economia digitale e dell’Intelligenza Artificiale (un’AI europea, da costruire rapidamente per fare fronte agli scelte di Usa, Cina e India; ne abbiamo già parlato nei blog delle scorse settimane). Della scienza e della cultura aperta e inclusiva, secondo i canoni migliori della cultura occidentale.

Sono in discussione, insomma, cambiamenti economici e sociali di lungo periodo. Da affrontare in una prospettiva di lungo periodo e cioè con la gradualità necessaria, ma con la chiara e impegnativa visione del futuro. Serve dunque una politica industriale europea (ne abbiamo scritto più volte) che abbia un perno nell’industria della difesa e insista sui fattori di produttività e competitività, lasciando alle imprese le scelte degli strumenti di investimento nei vari settori e di crescita (un esempio? la neutralità tecnologica per il mondo automotive, senza vincoli sul primato dell’auto elettrica). E servirono politiche fiscali comuni, che si riflettano sul bilancio, evitino le asimmetrie tra paesi (che incoraggiano evasioni ed elusioni fiscali) e rimodulino la spesa pubblica, rendendola più efficiente e produttiva (l’agricoltura è uno dei settori chiave).

Troppo difficile? Marco Buti e Marcello Messori (Il Sole24Ore, 3 marzo) ricordano che negli anni passati gli ambizioni principi di riforma e rilancio della Ue hanno trovato realizzazione. Nella costruzione del Mercato unico, con il Libro Bianco del 1985 e con le conseguenze che si sono riflesse nel Trattato di Maastricht del 1992 e poi sull’unione monetaria. Nel whatever it takes di Mario Draghi nel luglio 2012, “che ha superato la politica monetaria convenzionale e ha evitato una crisi irreversibile dell’euro”. Nell’iniziativa di Merkel e Macron e della Commissione Ue che ha portato al Recovery Plan post Covid ed è sfociata nel varo di Next Generation Ue nell’estate del 2020: “Si è resa così elastica la dotazione del capitale politico esistente, attraversando ‘linee rosse’ che apparivano invalicabili”.

Esperienze da ripetere. Superando – dicono Buti e Messori – anche “il tabù della riforma dei Trattati” e dunque dando all’Europa una struttura di governo migliore ed efficace, più in linea con i tempi di crisi e cambiamenti. Più Europa, nonostante tutto.

(foto Getty Images)

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