Export, è ancora record per le QuattroA della migliore manifattura
L’impresa italiana d’eccellenza migliora ancora la sua competitività. Lo dicono i dati sull’export che nel 2014 ha sfiorato i 400 miliardi (398, per l’esattezza), con un incremento di 61 miliardi tra il 2010 e il 2014. Export da industria, servizi esclusi. Primato manifatturiero, insomma. Con un rilevante contributo ai conti generali del sistema Paese, che nello stesso periodo ha visto migliorare la sua bilancia commerciale complessiva di 73 miliardi, passando da un saldo negativo di 30 miliardi a un saldo positivo di 42,9. Per i manufatti in particolare, la crescita è stata di 62 miliardi. Minor apporto di importazioni, certo (la Grande Crisi ha gelato il mercato interno). Ma anche miglioramento dei prodotti destinati a competere sui mercati internazionali e aumento delle capacità produttive interne (siamo andati molto avanti, per esempio, nelle apparecchiature per l’energia rinnovabile, che prima importavamo massicciamente dall’estero).
I dati vengono da una recente indagine del’Osservatorio Gea-Fondazione Edison. E confermano che a trainare l’export, record dopo record, ci sono le “QuattroA” della più qualificata industria italiana, che nel 2014 hanno determinato un surplus commerciale di 128 miliardi di euro: Automazione-meccanica-gomma-plastica per 84 miliardi (ecco qui, la punta alta dell’eccellenza) e poi Abbigliamento-moda-cosmetici per 25 miliardi, Arredo-casa per 12 miliardi e Alimentari e vini per 7 miliardi.
Ancora dati su cui riflettere: dei 5mila prodotti in cui è suddiviso il commercio mondiale, per 928 l’Italia è prima o seconda o terza per miglior bilancia commerciale. Mille campioni mondiali del “made in Italy”, potremmo dire. Una condizione che deve spingere a scrivere un altro racconto sull’economia e sull’industria italiana, tale da fare emergere la realtà della “buona manifattura” e individuare correttamente la leva su cui fondare le politiche di sviluppo.
Italiani “bravi meccanici”, innanzitutto, ampiamente competitivi con i principali concorrenti, i tedeschi, cui reggiamo bene testa, nonostante una certa interessata propaganda nutrita dalla Germania attribuisca a se stessa il primato di questo settore industriale (in altri termini, per automazione, meccanica, gomma e plastica i tedeschi non sono affatto dei fuori-serie, ma solo dei concorrenti da emulare e battere).
Poi, italiani bravi a confrontarsi sui mercati internazionali e con buoni risultati crescenti (nonostante le istituzioni e il sistema bancario aiutino poco, al contrario per quel che succede ai nostri concorrenti tedeschi o francesi, ben sorretti dallo Stato). Con una capacità di superare la concorrenza che si è molto affinata nel corso degli anni Duemila, quando finalmente si è preso atto che la “svalutazione competitiva” permessa dalla fragile lira non era più possibile e si è imparato a competere non sul basso prezzo ma sull’alta qualità.
Eccoci dunque al punto: crescere sull’eccellenza manifatturiera medium tech (che incorpora ricerca e servizi avanzati) e ampliare l’orizzonte dei mercati, oltre i confini Ue: gli Usa, la Cina e tutto il Far East, la Russia (che prima o poi si riprenderà), il Brasile (che nonostante la crisi resta un grande Paese attratto dal “made in Italy) e, adesso, anche l’Iran. C’è molta strada, da fare. E la manifattura italiana è ben attrezzata.
L’impresa italiana d’eccellenza migliora ancora la sua competitività. Lo dicono i dati sull’export che nel 2014 ha sfiorato i 400 miliardi (398, per l’esattezza), con un incremento di 61 miliardi tra il 2010 e il 2014. Export da industria, servizi esclusi. Primato manifatturiero, insomma. Con un rilevante contributo ai conti generali del sistema Paese, che nello stesso periodo ha visto migliorare la sua bilancia commerciale complessiva di 73 miliardi, passando da un saldo negativo di 30 miliardi a un saldo positivo di 42,9. Per i manufatti in particolare, la crescita è stata di 62 miliardi. Minor apporto di importazioni, certo (la Grande Crisi ha gelato il mercato interno). Ma anche miglioramento dei prodotti destinati a competere sui mercati internazionali e aumento delle capacità produttive interne (siamo andati molto avanti, per esempio, nelle apparecchiature per l’energia rinnovabile, che prima importavamo massicciamente dall’estero).
I dati vengono da una recente indagine del’Osservatorio Gea-Fondazione Edison. E confermano che a trainare l’export, record dopo record, ci sono le “QuattroA” della più qualificata industria italiana, che nel 2014 hanno determinato un surplus commerciale di 128 miliardi di euro: Automazione-meccanica-gomma-plastica per 84 miliardi (ecco qui, la punta alta dell’eccellenza) e poi Abbigliamento-moda-cosmetici per 25 miliardi, Arredo-casa per 12 miliardi e Alimentari e vini per 7 miliardi.
Ancora dati su cui riflettere: dei 5mila prodotti in cui è suddiviso il commercio mondiale, per 928 l’Italia è prima o seconda o terza per miglior bilancia commerciale. Mille campioni mondiali del “made in Italy”, potremmo dire. Una condizione che deve spingere a scrivere un altro racconto sull’economia e sull’industria italiana, tale da fare emergere la realtà della “buona manifattura” e individuare correttamente la leva su cui fondare le politiche di sviluppo.
Italiani “bravi meccanici”, innanzitutto, ampiamente competitivi con i principali concorrenti, i tedeschi, cui reggiamo bene testa, nonostante una certa interessata propaganda nutrita dalla Germania attribuisca a se stessa il primato di questo settore industriale (in altri termini, per automazione, meccanica, gomma e plastica i tedeschi non sono affatto dei fuori-serie, ma solo dei concorrenti da emulare e battere).
Poi, italiani bravi a confrontarsi sui mercati internazionali e con buoni risultati crescenti (nonostante le istituzioni e il sistema bancario aiutino poco, al contrario per quel che succede ai nostri concorrenti tedeschi o francesi, ben sorretti dallo Stato). Con una capacità di superare la concorrenza che si è molto affinata nel corso degli anni Duemila, quando finalmente si è preso atto che la “svalutazione competitiva” permessa dalla fragile lira non era più possibile e si è imparato a competere non sul basso prezzo ma sull’alta qualità.
Eccoci dunque al punto: crescere sull’eccellenza manifatturiera medium tech (che incorpora ricerca e servizi avanzati) e ampliare l’orizzonte dei mercati, oltre i confini Ue: gli Usa, la Cina e tutto il Far East, la Russia (che prima o poi si riprenderà), il Brasile (che nonostante la crisi resta un grande Paese attratto dal “made in Italy) e, adesso, anche l’Iran. C’è molta strada, da fare. E la manifattura italiana è ben attrezzata.