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“Fare le cose difficili”: la priorità per la scuola e una formazione continua, trasversale e politecnica

Ecco la lezione di un grande maestro, Gianni Rodari: “È difficile fare le cose difficili:/ parlare al sordo,/ mostrare la rosa al cieco./ Bambini, imparate a fare cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi che si credono liberi”.

Rodari è stato uno scrittore molto amato da generazioni di genitori, che hanno letto le sue “Favole al telefono” e “Il libro delle filastrocche” a migliaia di bambini che, diventati a loro volta genitori, hanno continuato a leggerle ai figli, in un circuito virtuoso che ancora dura. Imparare “la grammatica della fantasia” e “fare le cose difficili”: la scelta sapiente di chi prova, fin dalla minore età, a fare bene le cose e s’impegna a cambiarle.

Quella frase sull’attenzione per “fare le cose difficili”, già dai primi anni di scuola, è risuonata più volte durante le discussioni degli Aspen Seminars for Leaders di Venezia, dedicati quest’anno a discutere, tra l’altro, di identità italiana nel contesto europeo, centralità dell’industria e del “nuovo triangolo industriale” (Lombardia, Emilia e Veneto) nella rivoluzione digitale, società data driven, salute e turismo, disparità sociali. Tutte le discussioni, per strade diverse, hanno portato verso un’attenzione particolare per i temi della formazione e della scuola, dalle prime classi delle elementari ai più sofisticati master universitari. Una scuola in cui “si impari a imparare” e ad avere gli strumenti necessari per fare fronte, lungo tutta la vita, alle evoluzioni di scienza, cultura, processi economici, fenomeni sociali e politici. Una scuola che sia consapevole della “obsolescenza della conoscenza” accelerata dall’evoluzione frenetica della società digitale e dunque sappia affrontare le sfide della conoscenza critica, del tempo della riflessione e della comprensione, della necessità di fornire persone utili al mondo delle imprese e del lavoro ma anche persone critiche, cittadini consapevoli della complessità della cultura e della necessità di un pensiero ben informato, critico e responsabile. Questioni generali, come si vede. Che riguardano la scuola come strumento essenziale di scelte che sono più ampie, generali: politiche, culturali, di equilibri sociali e civili.

Ecco perché il ricordo della lezione di Rodari sulle “cose difficili”. E’ indispensabile non cedere alla banalizzazione della conoscenza, al degrado del linguaggio, all’appiattimento delle competenze, alla caduta nella volgarità (fare cultura popolare, indispensabile, non vuol dire affatto cedere alla sciattezza e ai comportamenti volgari). Ma, semmai, dare spazio a una crescente consapevolezza diffusa del bisogno di ridurre la complessità a semplicità e di capire il più possibile senso e direzione dei cambiamenti, per cercare di governarli e indirizzarli. Abbiamo ancora una scuola costruita secondo i modelli della vecchia civiltà industriale: si studia per diciassette/ diciotto anni (dalle elementari alla laurea) acquisendo conoscenze utili per il resto della vita e poi si va a lavorare, quasi sempre nello stesso posto, facendo carriera per accumulo di competenze settoriali o (nel peggiore dei casi) per anzianità.

L’economia digitale, la globalizzazione, i rapidi progressi di scienza e tecnologia, negli ultimi anni, hanno cambiato radicalmente il quadro: i saperi si usurano nell’arco di pochi anni, i lavori si cambiano spesso. Dunque? Il ciclo della formazione deve durare tutta la vita: long life learning, dicono gli esperti. Il che cambia metodi di insegnamento e apprendimento, stili didattici, ma anche gli stessi luoghi fisici in cui si studia: non più le classi tradizionali buoni per  la “lezione frontale”, ma luoghi aperti e dinamici di insegnamento, confronto, interazione, nell’incrocio virtuoso tra lavoro e formazione, almeno dalla fine dell’università in poi. Con una didattica – ecco un altro punto chiave – che sia soprattutto multidisciplinare e trasversale (abbiamo parlato più volte, in questo blog, degli ingegneri poeti e filosofi e dei medici ingegneri: tutte attività didattiche già in corso, laddove si va avanti con l’innovazione scolastica)

Queste considerazioni sommarie portano a dire che proprio sulla scuola, sulla formazione, dovrebbero concentrarsi gli investimenti maggiori di un Paese responsabilmente in cerca di come costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Ci si ferma invece, appena a poco più dell’1,2% del Pil. Una miseria. La legge finanziaria in preparazione da parte del governo Conte bis non fa eccezione alla trasandatezza del passato (ma ci si ostina su quel provvedimento anti-giovani e anti-sviluppo che è “quota 100”: troppa gente mandata anzitempo in pensione, ingiustamente, costosamente e improduttivamente).

Ci sono, insomma, pochi soldi per la sicurezza e l’efficienza degli edifici, pochi per la qualificazione degli insegnanti e il premio a chi lavora meglio, pochi per le tecnologie della nuova didattica, pochi per le relazioni tra scuola e lavoro. Ma senza investire sulla formazione non c’è sviluppo che tenga. E nessuno o quasi, negli ambienti di governo e tra la maggior parte delle forze politiche, se ne preoccupa e se ne occupa. Continuiamo a essere in coda ai paesi europei per numero di laureati. I dati resi noti alcuni giorni fa (“La Stampa”, 13 ottobre) dalla Fondazione Italia Education e dal rapporto Unioncamere-Anpal dicono che da oggi al 2023 mancheranno almeno 165mila laureati per fare fronte ai fabbisogni di lavoro nelle aziende (quasi 182mila, secondo le stime di maggior crescita dell’offerta). In Italia si laurea, insomma, troppo poca gente. E molti si laureano in settori che non hanno mercati di sbocco. Mancano matematici e ingegneri, medici, economisti, statistici e filosofi bravi a lavorare nel mondo dei big data ed esperti nei settori dell’energia e della sostenibilità, ambientale e sociale. Sono sovrabbondanti i laureati in lettere e scienza della comunicazione.

C’è tutto un riequilibrio da progettare con intelligenza e flessibilità, tutto un mondo da riavviare, lungo le strade delle “reti politecniche” che innovino l’incrocio dei saperi e dei lavori, tra scienza, tecnologia e materie umanistiche. Come? Un governo e una politica responsabilmente interessati a costruire un migliore futuro dovrebbero occuparsene, come una priorità. Purtroppo, coloro che stanno tra Palazzo Chigi e il Parlamento non sembra proprio che ne siano anche pallidamente consapevoli. Non saprebbero mai, appunto, “fare le cose difficili”.

Ecco la lezione di un grande maestro, Gianni Rodari: “È difficile fare le cose difficili:/ parlare al sordo,/ mostrare la rosa al cieco./ Bambini, imparate a fare cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi che si credono liberi”.

Rodari è stato uno scrittore molto amato da generazioni di genitori, che hanno letto le sue “Favole al telefono” e “Il libro delle filastrocche” a migliaia di bambini che, diventati a loro volta genitori, hanno continuato a leggerle ai figli, in un circuito virtuoso che ancora dura. Imparare “la grammatica della fantasia” e “fare le cose difficili”: la scelta sapiente di chi prova, fin dalla minore età, a fare bene le cose e s’impegna a cambiarle.

Quella frase sull’attenzione per “fare le cose difficili”, già dai primi anni di scuola, è risuonata più volte durante le discussioni degli Aspen Seminars for Leaders di Venezia, dedicati quest’anno a discutere, tra l’altro, di identità italiana nel contesto europeo, centralità dell’industria e del “nuovo triangolo industriale” (Lombardia, Emilia e Veneto) nella rivoluzione digitale, società data driven, salute e turismo, disparità sociali. Tutte le discussioni, per strade diverse, hanno portato verso un’attenzione particolare per i temi della formazione e della scuola, dalle prime classi delle elementari ai più sofisticati master universitari. Una scuola in cui “si impari a imparare” e ad avere gli strumenti necessari per fare fronte, lungo tutta la vita, alle evoluzioni di scienza, cultura, processi economici, fenomeni sociali e politici. Una scuola che sia consapevole della “obsolescenza della conoscenza” accelerata dall’evoluzione frenetica della società digitale e dunque sappia affrontare le sfide della conoscenza critica, del tempo della riflessione e della comprensione, della necessità di fornire persone utili al mondo delle imprese e del lavoro ma anche persone critiche, cittadini consapevoli della complessità della cultura e della necessità di un pensiero ben informato, critico e responsabile. Questioni generali, come si vede. Che riguardano la scuola come strumento essenziale di scelte che sono più ampie, generali: politiche, culturali, di equilibri sociali e civili.

Ecco perché il ricordo della lezione di Rodari sulle “cose difficili”. E’ indispensabile non cedere alla banalizzazione della conoscenza, al degrado del linguaggio, all’appiattimento delle competenze, alla caduta nella volgarità (fare cultura popolare, indispensabile, non vuol dire affatto cedere alla sciattezza e ai comportamenti volgari). Ma, semmai, dare spazio a una crescente consapevolezza diffusa del bisogno di ridurre la complessità a semplicità e di capire il più possibile senso e direzione dei cambiamenti, per cercare di governarli e indirizzarli. Abbiamo ancora una scuola costruita secondo i modelli della vecchia civiltà industriale: si studia per diciassette/ diciotto anni (dalle elementari alla laurea) acquisendo conoscenze utili per il resto della vita e poi si va a lavorare, quasi sempre nello stesso posto, facendo carriera per accumulo di competenze settoriali o (nel peggiore dei casi) per anzianità.

L’economia digitale, la globalizzazione, i rapidi progressi di scienza e tecnologia, negli ultimi anni, hanno cambiato radicalmente il quadro: i saperi si usurano nell’arco di pochi anni, i lavori si cambiano spesso. Dunque? Il ciclo della formazione deve durare tutta la vita: long life learning, dicono gli esperti. Il che cambia metodi di insegnamento e apprendimento, stili didattici, ma anche gli stessi luoghi fisici in cui si studia: non più le classi tradizionali buoni per  la “lezione frontale”, ma luoghi aperti e dinamici di insegnamento, confronto, interazione, nell’incrocio virtuoso tra lavoro e formazione, almeno dalla fine dell’università in poi. Con una didattica – ecco un altro punto chiave – che sia soprattutto multidisciplinare e trasversale (abbiamo parlato più volte, in questo blog, degli ingegneri poeti e filosofi e dei medici ingegneri: tutte attività didattiche già in corso, laddove si va avanti con l’innovazione scolastica)

Queste considerazioni sommarie portano a dire che proprio sulla scuola, sulla formazione, dovrebbero concentrarsi gli investimenti maggiori di un Paese responsabilmente in cerca di come costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Ci si ferma invece, appena a poco più dell’1,2% del Pil. Una miseria. La legge finanziaria in preparazione da parte del governo Conte bis non fa eccezione alla trasandatezza del passato (ma ci si ostina su quel provvedimento anti-giovani e anti-sviluppo che è “quota 100”: troppa gente mandata anzitempo in pensione, ingiustamente, costosamente e improduttivamente).

Ci sono, insomma, pochi soldi per la sicurezza e l’efficienza degli edifici, pochi per la qualificazione degli insegnanti e il premio a chi lavora meglio, pochi per le tecnologie della nuova didattica, pochi per le relazioni tra scuola e lavoro. Ma senza investire sulla formazione non c’è sviluppo che tenga. E nessuno o quasi, negli ambienti di governo e tra la maggior parte delle forze politiche, se ne preoccupa e se ne occupa. Continuiamo a essere in coda ai paesi europei per numero di laureati. I dati resi noti alcuni giorni fa (“La Stampa”, 13 ottobre) dalla Fondazione Italia Education e dal rapporto Unioncamere-Anpal dicono che da oggi al 2023 mancheranno almeno 165mila laureati per fare fronte ai fabbisogni di lavoro nelle aziende (quasi 182mila, secondo le stime di maggior crescita dell’offerta). In Italia si laurea, insomma, troppo poca gente. E molti si laureano in settori che non hanno mercati di sbocco. Mancano matematici e ingegneri, medici, economisti, statistici e filosofi bravi a lavorare nel mondo dei big data ed esperti nei settori dell’energia e della sostenibilità, ambientale e sociale. Sono sovrabbondanti i laureati in lettere e scienza della comunicazione.

C’è tutto un riequilibrio da progettare con intelligenza e flessibilità, tutto un mondo da riavviare, lungo le strade delle “reti politecniche” che innovino l’incrocio dei saperi e dei lavori, tra scienza, tecnologia e materie umanistiche. Come? Un governo e una politica responsabilmente interessati a costruire un migliore futuro dovrebbero occuparsene, come una priorità. Purtroppo, coloro che stanno tra Palazzo Chigi e il Parlamento non sembra proprio che ne siano anche pallidamente consapevoli. Non saprebbero mai, appunto, “fare le cose difficili”.

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