Film e mostre di fotografie per passare dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”
“La zuppa del demonio”. Era la suggestiva definizione che Dino Buzzati, grande scrittore e sofisticato giornalista, aveva usato per un suo commento a un cortometraggio del 1964 sugli altoforni dell’Italsider (poi Ilva, a Taranto). La “zuppa del demonio” e cioè la colata d’acciaio fuso. Simbolo, all’epoca, di modernità e di progresso, industria e lavoro, nell’Italia del boom economico. Adesso, quella frase fa da titolo al bel documentario che Davide Ferrario ha dedicato all’industrializzazione italiana del Novecento, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi mandato in giro nelle sale cinematografiche delle grandi città. E’ un documentario essenziale, costruito sui materiali custoditi dall’Archivio Nazionale di Cinema d’Impresa di Ivrea, diretto da Sergio Toffetti (che ospita anche opere di Olmi, Risi, Antonioni, Vancini, Camerini, Ferrara). E racconta le speranze e le illusioni d’una stagione dell’economia che ha avuto proprio la fabbrica come luogo centrale, tra sogni e miti industriali, speranze e conflitti, progetti ambiziosi e grandi svolte tecnologiche (le auto Fiat, i prodotti hi tech Olivetti, la gomma Pirelli, l’energia dell’Eni e dell’Enel, le plastiche Moplen della Montecatini, le meccaniche Ansaldo, gli elettrodomestici Ignis, la pasta Barilla, etc.). “Per lungo tempo – spiega Ferrario – l’idea che la tecnica e il progresso avrebbero reso migliore il mondo ha accompagnato la mia generazione, nata durante il miracolo economico”. E con il suo documentario ha provato “a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi nella nostalgia, ma per capire come siamo arrivati dove siamo ora”.
Quell’Italia industriale ormai non c’è più. Sparite le grandi fabbriche, tramontate molte delle dinastie industriali, subìta la sconfitta di una “industrializzazione senza sviluppo” (soprattutto nel Mezzogiorno, nei poli petrolchimici, nei giganteschi impianti siderurgici, sino alla drammatica crisi attuale dell’Ilva), oggi il panorama economico italiano parla di crisi, ma anche di trasformazioni. La fabbrica tradizionale, buia, pericolosa, sporca, inquinante, dura, ha lasciato il posto a una “neo-fabbrica” segnata da produzioni digitali, impianti ad alta automazione, laboratori di ricerca collegati ai Politecnici delle università, energia pulita, servizi sofisticati, strutture di produzione all’avanguardia per sicurezza e sostenibilità ambientale. E l’Italia, nonostante abbia perso negli anni della Grande Crisi il 25% della sua capacità produttiva, resta pur sempre il secondo paese manifatturiero della Ue, dopo la Germania, con una robusta presenza export. Rileggere il nostro passato industriale, anche con gli occhi critici di un regista come Davide Ferrario, ci aiuta a capire non solo quel che siamo stati e “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche quali orizzonti è possibile intravvedere. Per passare cioè, criticamente, dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”, al rilancio dell’industria di qualità.
E’ proprio questo, il senso dell’impegno sulla memoria di fondazioni d’impresa e archivi storici (la Fondazione Pirelli ne è all’avanguardia da tempo), associazioni come Museimpresa di Confindustria e il Centro per la cultura d’impresa (su impulso di Camera di Commercio di Milano e Assolombarda), l’Isec di Sesto San Giovanni e l’Ismel di Torino (l’archivio sul lavoro e le fabbriche nato dalla collaborazione tra Comune, Fondazione Gramsci, Istituto Salvemini, Unione Industriali, Archivio Fiat e sindacati Cgil, Cisl e Uil) e le tante strutture che imprese medie e piccole hanno dedicato al recupero e alla valorizzazione della loro storia. Non un gioco dell’amarcord, tentazione di nostalgie. Ma l’orgoglio della proprio identità. Vanno proprio in tale direzione, per esempio, la mostra “Scatti di industria, 160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo”, a Palazzo Ducale di Genova (inaugurata nell’ottobre 2013), turbine e caldaie, fonderie e grandi impianti, navi e treni, il “saper fare” della meccanica italiana apprezzata nel mondo. O la rassegna d’immagini sul mondo del lavoro organizzata (febbraio 2014) alla Fondazione Mast di Bologna, curata da Urs Stahel e voluta da un’imprenditrice attenta alle sinergie tra industria d’eccellenza, lavoro e welfare, come Isabella Seragnoli (Gruppo Coesia, meccanica d’avanguardia): un confronto tra vecchi e nuovi mondi della produzione e dei servizi (“Un tempo i macchinari erano qualcosa di imponente, rumoroso e sovrastante, oggi gli strumenti di produzione sono enigmatici e sovente quasi invisibili”). O ancora la recente raccolta “Foto Industria”, 17 piccoli volumi editi da Contrasto che raccontano il mondo del lavoro con gli scatti di grandi autori, da Henri Cartier-Bresson a Elliott Erwitt, da Robert Doisneau a Gabriele Basilico, etc. Fabbriche e uffici, cantieri e laboratori, macchine e persone. Immagini di una civiltà industriale che vive, declina, cambia. Da rimemorare. Un vero e proprio patrimonio, di intelligenza e lavoro, cui dare spazio, da far vivere e fare durare, dunque rilanciare.
“La zuppa del demonio”. Era la suggestiva definizione che Dino Buzzati, grande scrittore e sofisticato giornalista, aveva usato per un suo commento a un cortometraggio del 1964 sugli altoforni dell’Italsider (poi Ilva, a Taranto). La “zuppa del demonio” e cioè la colata d’acciaio fuso. Simbolo, all’epoca, di modernità e di progresso, industria e lavoro, nell’Italia del boom economico. Adesso, quella frase fa da titolo al bel documentario che Davide Ferrario ha dedicato all’industrializzazione italiana del Novecento, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi mandato in giro nelle sale cinematografiche delle grandi città. E’ un documentario essenziale, costruito sui materiali custoditi dall’Archivio Nazionale di Cinema d’Impresa di Ivrea, diretto da Sergio Toffetti (che ospita anche opere di Olmi, Risi, Antonioni, Vancini, Camerini, Ferrara). E racconta le speranze e le illusioni d’una stagione dell’economia che ha avuto proprio la fabbrica come luogo centrale, tra sogni e miti industriali, speranze e conflitti, progetti ambiziosi e grandi svolte tecnologiche (le auto Fiat, i prodotti hi tech Olivetti, la gomma Pirelli, l’energia dell’Eni e dell’Enel, le plastiche Moplen della Montecatini, le meccaniche Ansaldo, gli elettrodomestici Ignis, la pasta Barilla, etc.). “Per lungo tempo – spiega Ferrario – l’idea che la tecnica e il progresso avrebbero reso migliore il mondo ha accompagnato la mia generazione, nata durante il miracolo economico”. E con il suo documentario ha provato “a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi nella nostalgia, ma per capire come siamo arrivati dove siamo ora”.
Quell’Italia industriale ormai non c’è più. Sparite le grandi fabbriche, tramontate molte delle dinastie industriali, subìta la sconfitta di una “industrializzazione senza sviluppo” (soprattutto nel Mezzogiorno, nei poli petrolchimici, nei giganteschi impianti siderurgici, sino alla drammatica crisi attuale dell’Ilva), oggi il panorama economico italiano parla di crisi, ma anche di trasformazioni. La fabbrica tradizionale, buia, pericolosa, sporca, inquinante, dura, ha lasciato il posto a una “neo-fabbrica” segnata da produzioni digitali, impianti ad alta automazione, laboratori di ricerca collegati ai Politecnici delle università, energia pulita, servizi sofisticati, strutture di produzione all’avanguardia per sicurezza e sostenibilità ambientale. E l’Italia, nonostante abbia perso negli anni della Grande Crisi il 25% della sua capacità produttiva, resta pur sempre il secondo paese manifatturiero della Ue, dopo la Germania, con una robusta presenza export. Rileggere il nostro passato industriale, anche con gli occhi critici di un regista come Davide Ferrario, ci aiuta a capire non solo quel che siamo stati e “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche quali orizzonti è possibile intravvedere. Per passare cioè, criticamente, dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”, al rilancio dell’industria di qualità.
E’ proprio questo, il senso dell’impegno sulla memoria di fondazioni d’impresa e archivi storici (la Fondazione Pirelli ne è all’avanguardia da tempo), associazioni come Museimpresa di Confindustria e il Centro per la cultura d’impresa (su impulso di Camera di Commercio di Milano e Assolombarda), l’Isec di Sesto San Giovanni e l’Ismel di Torino (l’archivio sul lavoro e le fabbriche nato dalla collaborazione tra Comune, Fondazione Gramsci, Istituto Salvemini, Unione Industriali, Archivio Fiat e sindacati Cgil, Cisl e Uil) e le tante strutture che imprese medie e piccole hanno dedicato al recupero e alla valorizzazione della loro storia. Non un gioco dell’amarcord, tentazione di nostalgie. Ma l’orgoglio della proprio identità. Vanno proprio in tale direzione, per esempio, la mostra “Scatti di industria, 160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo”, a Palazzo Ducale di Genova (inaugurata nell’ottobre 2013), turbine e caldaie, fonderie e grandi impianti, navi e treni, il “saper fare” della meccanica italiana apprezzata nel mondo. O la rassegna d’immagini sul mondo del lavoro organizzata (febbraio 2014) alla Fondazione Mast di Bologna, curata da Urs Stahel e voluta da un’imprenditrice attenta alle sinergie tra industria d’eccellenza, lavoro e welfare, come Isabella Seragnoli (Gruppo Coesia, meccanica d’avanguardia): un confronto tra vecchi e nuovi mondi della produzione e dei servizi (“Un tempo i macchinari erano qualcosa di imponente, rumoroso e sovrastante, oggi gli strumenti di produzione sono enigmatici e sovente quasi invisibili”). O ancora la recente raccolta “Foto Industria”, 17 piccoli volumi editi da Contrasto che raccontano il mondo del lavoro con gli scatti di grandi autori, da Henri Cartier-Bresson a Elliott Erwitt, da Robert Doisneau a Gabriele Basilico, etc. Fabbriche e uffici, cantieri e laboratori, macchine e persone. Immagini di una civiltà industriale che vive, declina, cambia. Da rimemorare. Un vero e proprio patrimonio, di intelligenza e lavoro, cui dare spazio, da far vivere e fare durare, dunque rilanciare.