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Fuzzy o Techie? Per le imprese servono più filosofi e poeti, oltre che ingegneri

Fuzzy, dicono gli americani della Stanford University, per indicare gli studenti delle humanities, le materie umanistiche. Techie sono invece quelli d’ingegneria e matematica, fisica e chimica, le cosiddette “scienze dure”. Nelle accese discussioni su ciò che serve all’economia e alle imprese, per crescere meglio, l’opinione pubblica prevalente insiste sui techie. E soprattutto in Italia sono in tanti a lamentare la grave carenze di figure professionali formate per fare fronte alle nuove sfide produttive del mondo digital, di quella particolare dimensione di Industry4.0 che lega manifattura hi tech, servizi innovativi, big data e internet of things: gli ingegneri, appunto, i tecnologi, gli informatici, i tecnici.

Le esigenze delle imprese per una buona mano d’opera aperta all’innovazione sono certamente fondate, legittime: tedeschi e americani, cinesi e giapponesi investono molto in formazione scientifica e tecnica e dunque hanno tutti quei techie che servono alla produttività, alla competitività, alla crescita economica. Ed è dunque essenziale potenziare gli ITS, gli Istituti tecnici superiori (800mila iscritti in Germania, 160mila in Francia, appena poco più di 8mila in Italia: troppo pochi, per la seconda manifattura d’Europa)

Ma stanno proprio così, le cose? La sfida della crescita, se davvero vogliamo che sia “sostenibile ed equilibrata”, ha bisogno soprattutto di ingegneri e chimici ma anche di altre dimensioni culturali? E, per andare un po’ più a fondo, di che tipo di ingegneri e chimici? E come integrare conoscenze, per farle diventare competenze originali utili allo sviluppo equilibrato del Paese?

Per cercare di trovare risposte, vale la pena riflettere fuori dai luoghi comuni. E fermarsi un attimo proprio a Stanford, eccellenza della formazione Usa. Prendendo in mano un libro recente di Scott Hartely: The Fuzzy and the Techie, appunto. Ovvero Why the Liberal Arts will rule the Digital World. Pubblicato da Houghton Mifflin Harcourt, è un saggio di grande interesse (ne ha parlato acutamente un bravo filosofo italiano, Sebastiano Maffettone, su “IlSole24Ore” del 18 marzo). Per le qualità dell’autore, innanzitutto: non un filosofo né un letterato, ma un uomo d’impresa esperto in venture capital e in start up innovative, un’intensa stagione di lavoro con Google e Facebook e una competenza tecnica sofisticata nel mondo delle nuove tecnologie. La tesi di Hartley è chiara: i big data sono vuoti se non li supporta il fattore umano, interpretandoli e dando loro una struttura di senso. Bisogna aggiungere conoscenza umana e umanistica alla tecnologia, per farla funzionare in maniera ottimale. E chi può farlo meglio d’un filosofo, per cui l’ermeneutica (cioè il lavoro d’interpretazione dei testi, ma anche della realtà) è pane quotidiano? Gli algoritmi che guidano la nuova civiltà delle macchine vanno scritti, modificati nel tempo, interpretati. Devono tradurre la complessità di elementi e comportamenti, gestire fenomeni molteplici, trovare una linea tra conflitti. Mestiere da filosofi, appunto. Da chi sa tutto di tecniche ma ne conosce e le governa anche il senso, gli indirizzi, le questioni aperte. E da chi, proprio nel mondo segnato da macchine tecnologicamente sofisticatissime, deve non dimenticare mai l’umanità e i valori. Filosofi e ingegneri. O anche ingegneri-filosofi. E poeti-ingegneri. “Studiate humanities”, dunque, consigliano i professori di Stanford ai loro studenti.

Quello di Hartely è un messaggio analogo all’appello a essere “rinascimentali” lanciato da Steve Jobs agli studenti americani. E proprio nelle due parole italiane, Umanesimo e Rinascimento, sta la chiave di riflessione migliore: erano uomini dal sapere completo, gli umanisti, non separavano scienza da conoscenza, bellezza da matematica, equilibrio di forme architettonica da urbanistica, macchine da uomini. Avevano una sapienza complessa e completa, una solida “cultura politecnica”. Attitudini da ritrovare. E su cui fondare un rilancio della “buona scuola”.

“Farsi guidare dall’intelligenza artificiale, dai suoi algoritmi, finisce per fare di noi delle macchine banali”, avverte Edgar Morin, uno dei maggiori filosofi contemporanei, nell’introduzione a “Il tempo della complessità” di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Editore. L’interrogazione sul senso delle cose e dunque sulla stessa nuova fase di sviluppo ad alta tecnologia “ha bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. Ha bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze e non soltanto di giustapporle”.

Non basta insomma la tecnica, anche alla stessa crescita tecnologica, se di tanto avanzare non si colgono significati, limiti, valori di fondo. Se, accanto al “come”, scienza ed economia non si pongono anche il problema del “perché” e del “fine”.

Anche da questa strada si torna al valore delle conoscenze umanistiche, da tenere ben strette alle competenze.

Ne avremo anche delle imprese migliori, più produttive e competitive. “I filosofi in azienda fanno decollare il profitto”, ha titolato “Affari&Finanza”, il settimanale economico de “la Repubblica” (23 aprile)  citando il quotidiano inglese “The Guardian” e raccontando il lavoro di Lou Marinoff, filosofo da più di vent’anni consulente aziendale e di Paolo Cervari, autore, con Neri Pollastri, d’un libro di successo, nella letteratura manageriale, “Il filosofo in azienda – Pratiche filosofiche per le organizzazioni”, edito da Apogeo Education. Ci sono crisi da affrontare, valori da condividere (responsabilità, inclusione, fiducia, passione, partecipazione), relazioni da interrompere o da ristabilire. E non servono pratiche manageriali né strumenti economicistici, ma discussioni sul senso delle cose che si fanno, sullo spirito di comunità, sull’importanza delle persone. E senza persone consapevoli e responsabili non c’è impresa.

Lo spiega bene un altro filosofo d’azienda, Roger Steare, professore alla Cass Business School della City University di Londra: “Spesso si sostiene la tesi che profitto e filosofia siano incompatibili, ma è un grande equivoco. La difficoltà infatti non è tra filosofia e profitto, quanto tira la saggezza e il tentativo di raggiungere il profitto a breve termine. Quello che bisogna cercare di realizzare è un valore sostenibile e a lungo termine”. Un’efficace filosofia della buona economia e dell’impresa capace di pensieri lunghi e di solidi valori.

 

Fuzzy, dicono gli americani della Stanford University, per indicare gli studenti delle humanities, le materie umanistiche. Techie sono invece quelli d’ingegneria e matematica, fisica e chimica, le cosiddette “scienze dure”. Nelle accese discussioni su ciò che serve all’economia e alle imprese, per crescere meglio, l’opinione pubblica prevalente insiste sui techie. E soprattutto in Italia sono in tanti a lamentare la grave carenze di figure professionali formate per fare fronte alle nuove sfide produttive del mondo digital, di quella particolare dimensione di Industry4.0 che lega manifattura hi tech, servizi innovativi, big data e internet of things: gli ingegneri, appunto, i tecnologi, gli informatici, i tecnici.

Le esigenze delle imprese per una buona mano d’opera aperta all’innovazione sono certamente fondate, legittime: tedeschi e americani, cinesi e giapponesi investono molto in formazione scientifica e tecnica e dunque hanno tutti quei techie che servono alla produttività, alla competitività, alla crescita economica. Ed è dunque essenziale potenziare gli ITS, gli Istituti tecnici superiori (800mila iscritti in Germania, 160mila in Francia, appena poco più di 8mila in Italia: troppo pochi, per la seconda manifattura d’Europa)

Ma stanno proprio così, le cose? La sfida della crescita, se davvero vogliamo che sia “sostenibile ed equilibrata”, ha bisogno soprattutto di ingegneri e chimici ma anche di altre dimensioni culturali? E, per andare un po’ più a fondo, di che tipo di ingegneri e chimici? E come integrare conoscenze, per farle diventare competenze originali utili allo sviluppo equilibrato del Paese?

Per cercare di trovare risposte, vale la pena riflettere fuori dai luoghi comuni. E fermarsi un attimo proprio a Stanford, eccellenza della formazione Usa. Prendendo in mano un libro recente di Scott Hartely: The Fuzzy and the Techie, appunto. Ovvero Why the Liberal Arts will rule the Digital World. Pubblicato da Houghton Mifflin Harcourt, è un saggio di grande interesse (ne ha parlato acutamente un bravo filosofo italiano, Sebastiano Maffettone, su “IlSole24Ore” del 18 marzo). Per le qualità dell’autore, innanzitutto: non un filosofo né un letterato, ma un uomo d’impresa esperto in venture capital e in start up innovative, un’intensa stagione di lavoro con Google e Facebook e una competenza tecnica sofisticata nel mondo delle nuove tecnologie. La tesi di Hartley è chiara: i big data sono vuoti se non li supporta il fattore umano, interpretandoli e dando loro una struttura di senso. Bisogna aggiungere conoscenza umana e umanistica alla tecnologia, per farla funzionare in maniera ottimale. E chi può farlo meglio d’un filosofo, per cui l’ermeneutica (cioè il lavoro d’interpretazione dei testi, ma anche della realtà) è pane quotidiano? Gli algoritmi che guidano la nuova civiltà delle macchine vanno scritti, modificati nel tempo, interpretati. Devono tradurre la complessità di elementi e comportamenti, gestire fenomeni molteplici, trovare una linea tra conflitti. Mestiere da filosofi, appunto. Da chi sa tutto di tecniche ma ne conosce e le governa anche il senso, gli indirizzi, le questioni aperte. E da chi, proprio nel mondo segnato da macchine tecnologicamente sofisticatissime, deve non dimenticare mai l’umanità e i valori. Filosofi e ingegneri. O anche ingegneri-filosofi. E poeti-ingegneri. “Studiate humanities”, dunque, consigliano i professori di Stanford ai loro studenti.

Quello di Hartely è un messaggio analogo all’appello a essere “rinascimentali” lanciato da Steve Jobs agli studenti americani. E proprio nelle due parole italiane, Umanesimo e Rinascimento, sta la chiave di riflessione migliore: erano uomini dal sapere completo, gli umanisti, non separavano scienza da conoscenza, bellezza da matematica, equilibrio di forme architettonica da urbanistica, macchine da uomini. Avevano una sapienza complessa e completa, una solida “cultura politecnica”. Attitudini da ritrovare. E su cui fondare un rilancio della “buona scuola”.

“Farsi guidare dall’intelligenza artificiale, dai suoi algoritmi, finisce per fare di noi delle macchine banali”, avverte Edgar Morin, uno dei maggiori filosofi contemporanei, nell’introduzione a “Il tempo della complessità” di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Editore. L’interrogazione sul senso delle cose e dunque sulla stessa nuova fase di sviluppo ad alta tecnologia “ha bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. Ha bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze e non soltanto di giustapporle”.

Non basta insomma la tecnica, anche alla stessa crescita tecnologica, se di tanto avanzare non si colgono significati, limiti, valori di fondo. Se, accanto al “come”, scienza ed economia non si pongono anche il problema del “perché” e del “fine”.

Anche da questa strada si torna al valore delle conoscenze umanistiche, da tenere ben strette alle competenze.

Ne avremo anche delle imprese migliori, più produttive e competitive. “I filosofi in azienda fanno decollare il profitto”, ha titolato “Affari&Finanza”, il settimanale economico de “la Repubblica” (23 aprile)  citando il quotidiano inglese “The Guardian” e raccontando il lavoro di Lou Marinoff, filosofo da più di vent’anni consulente aziendale e di Paolo Cervari, autore, con Neri Pollastri, d’un libro di successo, nella letteratura manageriale, “Il filosofo in azienda – Pratiche filosofiche per le organizzazioni”, edito da Apogeo Education. Ci sono crisi da affrontare, valori da condividere (responsabilità, inclusione, fiducia, passione, partecipazione), relazioni da interrompere o da ristabilire. E non servono pratiche manageriali né strumenti economicistici, ma discussioni sul senso delle cose che si fanno, sullo spirito di comunità, sull’importanza delle persone. E senza persone consapevoli e responsabili non c’è impresa.

Lo spiega bene un altro filosofo d’azienda, Roger Steare, professore alla Cass Business School della City University di Londra: “Spesso si sostiene la tesi che profitto e filosofia siano incompatibili, ma è un grande equivoco. La difficoltà infatti non è tra filosofia e profitto, quanto tira la saggezza e il tentativo di raggiungere il profitto a breve termine. Quello che bisogna cercare di realizzare è un valore sostenibile e a lungo termine”. Un’efficace filosofia della buona economia e dell’impresa capace di pensieri lunghi e di solidi valori.

 

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