Gender gap, resta il divario su ruoli e salari ma la situazione migliora un po’
C’è “troppo scarto tra occupazione e salari di uomini e donne”, dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione dell’8 marzo. Uno scarto di oltre 20 punti percentuali. Un’ingiustizia da colmare, naturalmente. Ma anche uno spreco: il cattivo uso del capitale umano e dei suoi effetti su un innovativo capitale sociale limita la crescita economica, rallenta uno sviluppo economico e sociale di qualità. “Discriminare non conviene”, ha insegnato il premio Nobel per l’economia Gary Becker (una lezione più volte citata in questo blog). E il “gender gap” in termini di lavoro, ruoli, responsabilità e retribuzioni conferma la “stupidità economica” di chi si ostina a premiare non il merito ma il sesso (stesso discorso vale per la religione, la cultura, il colore della pelle, etc.).
L’Italia è in buona/cattiva compagnia. Il “Gender Gap Report” 2016 realizzato da Job Pricing anche su dati Eurostat (IlSole24Ore 2 marzo) dice che le donne, a parità di mansioni, inquadramento e titolo di studio, hanno in media un salario inferiore di oltre 3mila euro rispetto all’uomo. La differenza sale a 11mila euro per le dirigenti. Le donne, insomma, guadagnano il 10% in meno degli uomini.
L’Italia, per disparità, sta all’ottavo posto sui trentun paesi europei cui si riferiscono i dati Eurostat. Dunque non malissimo (le francesi stanno al 18°, le tedesche al 28°). Il divario c’è, ma diminuisce. Si può dire che abbiamo fatto un po’ di strada verso l’eguaglianza, ma pure che tanto resta ancora da fare. Lo conferma il Rapporto IlSole24Ore-Fondazione Hume (pubblicato l’8 marzo) che sostiene che “la resilienza delle donne vince la crisi ma sul lavoro la parità è lontana” e cioè che “il calo dell’economia ha avuto un impatto minore rispetto agli uomini, ma restano i nodi di sempre: salario e family gap”.
A guardare meglio, si scopre pure che la presenza femminile ai vertici delle imprese è cresciuta, ma ancora non abbastanza: nelle 316 società quotate in Piazza Affari, la presenza femminile nei Consigli d’amministrazione è al 23,7% (grazie anche alla legge Golfo-Mosca) ma presidenti e amministratori delegati donna sono sotto il 7%. “Le donne non sono ancora fattore di cambiamento”, commenta IlSole24Ore. Né le loro capacità sono ben utilizzate in chiave di migliore competitività e più ricca e matura cultura d’impresa.
Ci sono, comunque, settori in cui le cose vanno un po’ meglio. Se per esempio si guarda all’industria farmaceutica, si vede che il 43% degli addetti è donna, ma anche che è donna il 43% di quadri e dirigenti (il doppio che negli altri settori industriali). La farmaceutica è una delle eccellenze dell’impresa italiana. Il ridotto gender gap, insomma, ha un suo peso positivo.
Che il ruolo delle donne in impresa sia un acceleratore di positive prestazioni in termini di fatturato e profitti lo conferma una recente indagine del Fondo Monetario Internazionale, di cui parla Danilo Taino sul Corriere della Sera, 13 marzo: “L’ingresso di una donna in posizioni rilevanti aumenta la redditività maggiormente in settori ad alta mano d’opera femminile, nelle industrie hi tech e a forte creatività. Per esempio, la crescita dell’Ebit è del 5,2% nel servizi, del 2,7% nel manifatturiero, dell’1,2% nel commercio e negativa del 2,2% nelle costruzioni. L’analisi riguarda la presenza delle donne in posizioni top, non le donne entrate al vertice grazie a leggi che lo prescrivono. Non è quindi applicabile a un’interpretazione sugli effetti delle cosiddette quote rosa”. Premio al merito e alla competenza, dunque, con positivi effetti economici. Gary Becker ha ancora una volta ragione.
C’è “troppo scarto tra occupazione e salari di uomini e donne”, dice il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione dell’8 marzo. Uno scarto di oltre 20 punti percentuali. Un’ingiustizia da colmare, naturalmente. Ma anche uno spreco: il cattivo uso del capitale umano e dei suoi effetti su un innovativo capitale sociale limita la crescita economica, rallenta uno sviluppo economico e sociale di qualità. “Discriminare non conviene”, ha insegnato il premio Nobel per l’economia Gary Becker (una lezione più volte citata in questo blog). E il “gender gap” in termini di lavoro, ruoli, responsabilità e retribuzioni conferma la “stupidità economica” di chi si ostina a premiare non il merito ma il sesso (stesso discorso vale per la religione, la cultura, il colore della pelle, etc.).
L’Italia è in buona/cattiva compagnia. Il “Gender Gap Report” 2016 realizzato da Job Pricing anche su dati Eurostat (IlSole24Ore 2 marzo) dice che le donne, a parità di mansioni, inquadramento e titolo di studio, hanno in media un salario inferiore di oltre 3mila euro rispetto all’uomo. La differenza sale a 11mila euro per le dirigenti. Le donne, insomma, guadagnano il 10% in meno degli uomini.
L’Italia, per disparità, sta all’ottavo posto sui trentun paesi europei cui si riferiscono i dati Eurostat. Dunque non malissimo (le francesi stanno al 18°, le tedesche al 28°). Il divario c’è, ma diminuisce. Si può dire che abbiamo fatto un po’ di strada verso l’eguaglianza, ma pure che tanto resta ancora da fare. Lo conferma il Rapporto IlSole24Ore-Fondazione Hume (pubblicato l’8 marzo) che sostiene che “la resilienza delle donne vince la crisi ma sul lavoro la parità è lontana” e cioè che “il calo dell’economia ha avuto un impatto minore rispetto agli uomini, ma restano i nodi di sempre: salario e family gap”.
A guardare meglio, si scopre pure che la presenza femminile ai vertici delle imprese è cresciuta, ma ancora non abbastanza: nelle 316 società quotate in Piazza Affari, la presenza femminile nei Consigli d’amministrazione è al 23,7% (grazie anche alla legge Golfo-Mosca) ma presidenti e amministratori delegati donna sono sotto il 7%. “Le donne non sono ancora fattore di cambiamento”, commenta IlSole24Ore. Né le loro capacità sono ben utilizzate in chiave di migliore competitività e più ricca e matura cultura d’impresa.
Ci sono, comunque, settori in cui le cose vanno un po’ meglio. Se per esempio si guarda all’industria farmaceutica, si vede che il 43% degli addetti è donna, ma anche che è donna il 43% di quadri e dirigenti (il doppio che negli altri settori industriali). La farmaceutica è una delle eccellenze dell’impresa italiana. Il ridotto gender gap, insomma, ha un suo peso positivo.
Che il ruolo delle donne in impresa sia un acceleratore di positive prestazioni in termini di fatturato e profitti lo conferma una recente indagine del Fondo Monetario Internazionale, di cui parla Danilo Taino sul Corriere della Sera, 13 marzo: “L’ingresso di una donna in posizioni rilevanti aumenta la redditività maggiormente in settori ad alta mano d’opera femminile, nelle industrie hi tech e a forte creatività. Per esempio, la crescita dell’Ebit è del 5,2% nel servizi, del 2,7% nel manifatturiero, dell’1,2% nel commercio e negativa del 2,2% nelle costruzioni. L’analisi riguarda la presenza delle donne in posizioni top, non le donne entrate al vertice grazie a leggi che lo prescrivono. Non è quindi applicabile a un’interpretazione sugli effetti delle cosiddette quote rosa”. Premio al merito e alla competenza, dunque, con positivi effetti economici. Gary Becker ha ancora una volta ragione.