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Gestire un’azienda è come fare un concerto?

Gestire un’azienda. E fare musica. Costruire comportamenti armonici. Mettere insieme persone. Accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Ipotesi culturale affascinante. Su cui si fonda un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett, pubblicato in Italia da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, con una bella prefazione di Severino Salvemini. Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni su muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

Sono temi ricorrenti, in questa rubrica (chi legge assiduamente ricorderà, forse, gli accostamenti arditi e ironici tra la musica di Eric Satie e la costruzione di un pneumatico). Segno di una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E di una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi che stiamo ancora vivendo e soffrendo, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui oggi parliamo, possono essere di grande aiuto.

La riprova sta proprio nella discussione sul libro di Barrett animata in Bocconi dagli interventi di Salvemini, di un manager come il presidente di Aon Alfredo Scotti, di un uomo di finanza e di eccellente cultura musicale, Francesco Micheli, presidente di MiTo, di un musicologo come Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano e dei jazzisti Paolo Fresu, Cesare Picco, Bobo Ferra ed Enrico Intra.  Voci diverse. Punti di vista originali. Dibattito stimolante sia per chi si occupa di impresa sia per chi costruisce musica.

Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davies, Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che accompagnano, anticipano, provocano, sostengono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione. In Pirelli si è fatta musica in fabbrica, di recente, portando un gruppo di ottoni e poi un’orchestra, negli stabilimenti di Settimo Torinese. E, poi ancora, un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, a suonare nell’Auditorium dell’Head Quarter Pirelli a Milano, prove per le tournée dei concerti aperte a tutti i dipendenti, per capire cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E la fatica della sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità. Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

Gestire un’azienda. E fare musica. Costruire comportamenti armonici. Mettere insieme persone. Accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Ipotesi culturale affascinante. Su cui si fonda un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett, pubblicato in Italia da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, con una bella prefazione di Severino Salvemini. Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni su muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

Sono temi ricorrenti, in questa rubrica (chi legge assiduamente ricorderà, forse, gli accostamenti arditi e ironici tra la musica di Eric Satie e la costruzione di un pneumatico). Segno di una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E di una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi che stiamo ancora vivendo e soffrendo, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui oggi parliamo, possono essere di grande aiuto.

La riprova sta proprio nella discussione sul libro di Barrett animata in Bocconi dagli interventi di Salvemini, di un manager come il presidente di Aon Alfredo Scotti, di un uomo di finanza e di eccellente cultura musicale, Francesco Micheli, presidente di MiTo, di un musicologo come Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano e dei jazzisti Paolo Fresu, Cesare Picco, Bobo Ferra ed Enrico Intra.  Voci diverse. Punti di vista originali. Dibattito stimolante sia per chi si occupa di impresa sia per chi costruisce musica.

Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davies, Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che accompagnano, anticipano, provocano, sostengono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione. In Pirelli si è fatta musica in fabbrica, di recente, portando un gruppo di ottoni e poi un’orchestra, negli stabilimenti di Settimo Torinese. E, poi ancora, un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, a suonare nell’Auditorium dell’Head Quarter Pirelli a Milano, prove per le tournée dei concerti aperte a tutti i dipendenti, per capire cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E la fatica della sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità. Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

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