Gli Addetti Scientifici della Farnesina e la migliore competitività delle imprese
Come stimolare e rafforzare l’innovazione del sistema Italia, a vantaggio dello sviluppo del Paese e della competitività delle sue imprese? Anche attraverso un coinvolgimento più assiduo e puntuale degli Addetti Scientifici presso le ambasciate nei vari paesi del mondo: una “diplomazia della scienza” che ha forti implicazioni culturali ed economiche e può ben lavorare in due direzioni: un cross over tecnologico tra Italia e mondo, ma anche un lavoro costante di miglioramento delle conoscenze hi tech a tutto vantaggio delle nostre imprese.
Se ne è discusso a lungo, per un’intera giornata, martedì scorso a Roma, nella grande Sala delle Conferenze Internazionali della Farnesina, il Ministero degli Esteri, con la partecipazione di membri del Governo, diplomatici, rappresentanti dei principali enti di ricerca italiani e di Confindustria e, naturalmente, una trentina di Addetti Scientifici (a Washington, Brasilia, Tel Aviv, Pechino, Londra, Berlino, Seul, Ginevra, Mosca, Tokyo, etc.).
Gli obiettivi di fondo: fare un confronto di esperienze e di modelli di attività legati a scienza e tecnologia sui mercati globali, discutere dell’eredità di Expo in chiave di valorizzazione delle innovazioni che dal mondo dell’alimentazione investono scienza e imprese, definire metodi e obiettivi per una sempre più efficace relazione tra istituzioni pubbliche, ricerca e industria.
Una buona iniziativa, dunque. Che ha messo in evidenza la necessità di un rafforzamento di un circuito virtuoso tra quattro grandi soggetti: le istituzioni pubbliche, appunto, gli enti e le istituzioni della ricerca pubblici e privati, le università e le imprese.
L’Italia, com’è noto, investe poco in “ricerca e innovazione”, appena l’1,2% del Pil, molto meno della media Ue e degli altri grandi paesi industriali (accurata la mappatura fatta dalla Farnesina in preparazione della riunione degli Addetti Scientifici): il 2,9 della Germania, il 2,2% della Francia, il 3% della Svizzera, il 3,5% del Giappone, il 4,15% della Corea, per non dire di Usa e Cina. E’ vero, quella percentuale non rappresenta realmente quanto l’Italia investa, perché le imprese, soprattutto le piccole e medie, spesso citano gli investimenti per l’innovazione sotto altra voce in bilancio e hanno la tendenza a brevettare poco, fanno innovazione combinatoria e adattativa scarsamente documentabile (la riprova di quella sottorappresentazione sta in un altro dato: il miglioramento crescente dell’export, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Una crescita che non ci sarebbe senza una robusta capacità innovativa di prodotti e produzioni). Resta comunque vero un fatto: o l’Italia migliora la sua competitività, proprio con tutti gli strumenti dell’innovazione o la sua crescita resterà asfittica.
Le imprese investono e, naturalmente, potrebbero fare di più (il credito d’imposta mirato è uno stimolo quanto mai opportuno). Ma tocca soprattutto alla mano pubblica investire di più e meglio. E usare con maggior efficienza ed efficacia gli strumenti che già ci sono. Come gli Addetti scientifici, appunto. Antenne sensibili, a favore delle imprese, degli enti di ricerca e del sistema Paese, su quanto sia maturando nelle capitali e nelle grandi città in cui operano. Promotori di migliori relazioni tra le eccellenze hi tech e medium tech e il mondo industriale italiano che sta rafforzando i suoi investimenti all’estero e ha bisogno di stabilire buone relazioni con università e centri dei paesi in cui stringe joint ventures e apre stabilimenti produttivi. Diffusori delle eccellenze scientifiche e tecnologiche italiane, della nostra ottima “cultura politecnica” nei circoli scientifici e imprenditoriali del resto del mondo.
Sono compiti impegnativi, naturalmente. Ma ai quali la Farnesina continua a dimostrarsi sempre più sensibile. Una buona prospettiva, per la competitività italiana.
Come stimolare e rafforzare l’innovazione del sistema Italia, a vantaggio dello sviluppo del Paese e della competitività delle sue imprese? Anche attraverso un coinvolgimento più assiduo e puntuale degli Addetti Scientifici presso le ambasciate nei vari paesi del mondo: una “diplomazia della scienza” che ha forti implicazioni culturali ed economiche e può ben lavorare in due direzioni: un cross over tecnologico tra Italia e mondo, ma anche un lavoro costante di miglioramento delle conoscenze hi tech a tutto vantaggio delle nostre imprese.
Se ne è discusso a lungo, per un’intera giornata, martedì scorso a Roma, nella grande Sala delle Conferenze Internazionali della Farnesina, il Ministero degli Esteri, con la partecipazione di membri del Governo, diplomatici, rappresentanti dei principali enti di ricerca italiani e di Confindustria e, naturalmente, una trentina di Addetti Scientifici (a Washington, Brasilia, Tel Aviv, Pechino, Londra, Berlino, Seul, Ginevra, Mosca, Tokyo, etc.).
Gli obiettivi di fondo: fare un confronto di esperienze e di modelli di attività legati a scienza e tecnologia sui mercati globali, discutere dell’eredità di Expo in chiave di valorizzazione delle innovazioni che dal mondo dell’alimentazione investono scienza e imprese, definire metodi e obiettivi per una sempre più efficace relazione tra istituzioni pubbliche, ricerca e industria.
Una buona iniziativa, dunque. Che ha messo in evidenza la necessità di un rafforzamento di un circuito virtuoso tra quattro grandi soggetti: le istituzioni pubbliche, appunto, gli enti e le istituzioni della ricerca pubblici e privati, le università e le imprese.
L’Italia, com’è noto, investe poco in “ricerca e innovazione”, appena l’1,2% del Pil, molto meno della media Ue e degli altri grandi paesi industriali (accurata la mappatura fatta dalla Farnesina in preparazione della riunione degli Addetti Scientifici): il 2,9 della Germania, il 2,2% della Francia, il 3% della Svizzera, il 3,5% del Giappone, il 4,15% della Corea, per non dire di Usa e Cina. E’ vero, quella percentuale non rappresenta realmente quanto l’Italia investa, perché le imprese, soprattutto le piccole e medie, spesso citano gli investimenti per l’innovazione sotto altra voce in bilancio e hanno la tendenza a brevettare poco, fanno innovazione combinatoria e adattativa scarsamente documentabile (la riprova di quella sottorappresentazione sta in un altro dato: il miglioramento crescente dell’export, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Una crescita che non ci sarebbe senza una robusta capacità innovativa di prodotti e produzioni). Resta comunque vero un fatto: o l’Italia migliora la sua competitività, proprio con tutti gli strumenti dell’innovazione o la sua crescita resterà asfittica.
Le imprese investono e, naturalmente, potrebbero fare di più (il credito d’imposta mirato è uno stimolo quanto mai opportuno). Ma tocca soprattutto alla mano pubblica investire di più e meglio. E usare con maggior efficienza ed efficacia gli strumenti che già ci sono. Come gli Addetti scientifici, appunto. Antenne sensibili, a favore delle imprese, degli enti di ricerca e del sistema Paese, su quanto sia maturando nelle capitali e nelle grandi città in cui operano. Promotori di migliori relazioni tra le eccellenze hi tech e medium tech e il mondo industriale italiano che sta rafforzando i suoi investimenti all’estero e ha bisogno di stabilire buone relazioni con università e centri dei paesi in cui stringe joint ventures e apre stabilimenti produttivi. Diffusori delle eccellenze scientifiche e tecnologiche italiane, della nostra ottima “cultura politecnica” nei circoli scientifici e imprenditoriali del resto del mondo.
Sono compiti impegnativi, naturalmente. Ma ai quali la Farnesina continua a dimostrarsi sempre più sensibile. Una buona prospettiva, per la competitività italiana.