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Gli imprenditori piacciono poco agli italiani, ma sta nelle loro mani la chiave d’uno sviluppo migliore

Agli italiani piacciono le imprese, le considerano il principale motore dello sviluppo economico, quelle piccole e medie soprattutto. Ma non apprezzano gli imprenditori. Siamo un paese strabico, insomma. E in buona parte inconsapevole della sua forza, della sua ricchezza: l’industria. E’ questo, in sintesi, il risultato di un’indagine appena condotta dell’Ipsos, l’autorevole istituto di ricerche guidato da Nando Pagnoncelli e presentata venerdì scorso a Parma, al convegno del Centro Studi Confindustria dedicato al tema “Imprenditori, i geni dello sviluppo”. Indagine spiazzante, non tanto perché sorprendente (gli indici di popolarità degli imprenditori sono da tempo calanti, nella generale crisi di credibilità e affidabilità che coinvolge tutta la classe dirigente) quanto perché rischia di mettere in ombra, proprio nel momento in cui bisogna rafforzare la fragile ripresa, le energie positive che, anche negli anni della lunga recessione, hanno comunque costruito ricchezza, lavoro, coesione sociale: le imprese, chi le guida, chi garantisce loro un futuro.

Mettere su un’impresa, documenta l’Ipsos sulla base di un’indagine condotta su un campione di mille italiani e approfondita da una serie di altri elementi statistici, riscuote minore appeal di dieci anni fa, quando si raccoglievano incoraggiamenti da parte d’un quarto della popolazione: oggi, lo valuta positivamente appena un quinto. E se si chiede agli intervistati un consiglio sulla professione da ricercare, il campione mette sullo stesso piano “imprenditore” e “dipendente pubblico” (20%) ed esprime invece un grande apprezzamento per la “libera professione” (35%). E’ un’Italia di impiegati, medici e avvocati, soprattutto. Che non ci pone la domanda su chi costruisca ricchezza e innovazione. Commenta Pagnoncelli: “Non c’è un’immagine aggiornata dell’imprenditore che sia capace di coniugare crescita, competitività e attenzione al sociale. E così il 45% pensa che l’operato degli imprenditori si sia involuto rispetto al passato”.

L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania e tra i primi cinque paesi al mondo con un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (soprattutto per merito della sua eccellente industria meccanica, prima ancora che di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare). Ma gli italiani non lo sanno. E non se ne curano. Ma se si vuole andare avanti sulla strada dello sviluppo economico, della competitività, delle opportunità di lavoro per le nuove generazioni, tocca proprio agli imprenditori imparare ad affrontare la grande sfida, culturale e sociale, ma anche politica, d’una nuova e migliore percezione del loro ruolo.

“La sfida che attende Confindustria – sostiene Giorgio Squinzi, davanti alla platea degli imprenditori riuniti a Parma, una sorta di passaggio di testimone al suo successore Vincenzo Boccia – è di costruire una nuova visione e una nuova sensibilità nei confronti dei nostri mondi produttivi”. Dunque, un miglior racconto dell’impresa, su cui sono chiamati a confrontarsi pure politici, economisti, uomini e donne dei mondi della cultura e della creatività: imprenditori come innovatori, ma anche come attori sociali responsabili della qualità della crescita economica e del lavoro, abili a maneggiare le nuove tecnologie come chiavi dello sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente.

E’ una strada già intrapresa dalle imprese migliori, fuori dalle trappole del familismo e dalle ideologie distorte del “piccolo è bello”. Ma da continuare a seguire, sulla strategia già impostata da quelle “multinazionali tascabili”, le imprese medie e medio-grandi forti di robuste radici familiari ma ben managerializzate, innovative, con una presenza sui territori d’origine ma una lungimirante attenzione ai mercati internazionali: le manifatture testimonial del miglior “made in Italy”.

Circola, nel paese, è vero, una diffusa sub-cultura anti-impresa. E ci sono settori di opinione pubblica (e di attori istituzionali) che pensano agli imprenditori e ai manager come personaggi attenti solo al profitto, agli affari comunque portati al successo, spregiudicati, inclini a ogni pur basso compromesso. E’ una dimensione da controbattere.

Lotta ai corrotti, non il mercato”, ha scritto giustamente Antonio Polito in un editoriale sul “Corriere della Sera” sabato 9 aprile: “La corruzione va combattuta senza quartiere perché è distruttiva dell’economia, ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari: la qualità della nostra vita e il nostro reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo”.

La sfida non è solo imprenditoriale, culturale e sociale. Ma anche morale. E se ne è discusso per due giorni, venerdì e sabato, al “Positive Economy Forum” di San Patrignano, su iniziativa di Letizia Moratti, con un dibattito internazionale che ha visto la partecipazione di imprenditori, economisti, artisti: ”Riplasmare lo spirito del capitalismo, fare prevalere l’altruismo sull’egoismo e l’interesse generale su quello particolare”,  ha sintetizzato “Il Sole24Ore”. Responsabilità, sostenibilità, partecipazione, qualità dello sviluppo, “doing well by doing good”, fare bene facendo del bene, secondo il motto di Kasturi Rangar, professore alla Harvard Business School. E’ la nuova frontiera anche per le imprese: sviluppo e qualità. Un obiettivo possibile.

Agli italiani piacciono le imprese, le considerano il principale motore dello sviluppo economico, quelle piccole e medie soprattutto. Ma non apprezzano gli imprenditori. Siamo un paese strabico, insomma. E in buona parte inconsapevole della sua forza, della sua ricchezza: l’industria. E’ questo, in sintesi, il risultato di un’indagine appena condotta dell’Ipsos, l’autorevole istituto di ricerche guidato da Nando Pagnoncelli e presentata venerdì scorso a Parma, al convegno del Centro Studi Confindustria dedicato al tema “Imprenditori, i geni dello sviluppo”. Indagine spiazzante, non tanto perché sorprendente (gli indici di popolarità degli imprenditori sono da tempo calanti, nella generale crisi di credibilità e affidabilità che coinvolge tutta la classe dirigente) quanto perché rischia di mettere in ombra, proprio nel momento in cui bisogna rafforzare la fragile ripresa, le energie positive che, anche negli anni della lunga recessione, hanno comunque costruito ricchezza, lavoro, coesione sociale: le imprese, chi le guida, chi garantisce loro un futuro.

Mettere su un’impresa, documenta l’Ipsos sulla base di un’indagine condotta su un campione di mille italiani e approfondita da una serie di altri elementi statistici, riscuote minore appeal di dieci anni fa, quando si raccoglievano incoraggiamenti da parte d’un quarto della popolazione: oggi, lo valuta positivamente appena un quinto. E se si chiede agli intervistati un consiglio sulla professione da ricercare, il campione mette sullo stesso piano “imprenditore” e “dipendente pubblico” (20%) ed esprime invece un grande apprezzamento per la “libera professione” (35%). E’ un’Italia di impiegati, medici e avvocati, soprattutto. Che non ci pone la domanda su chi costruisca ricchezza e innovazione. Commenta Pagnoncelli: “Non c’è un’immagine aggiornata dell’imprenditore che sia capace di coniugare crescita, competitività e attenzione al sociale. E così il 45% pensa che l’operato degli imprenditori si sia involuto rispetto al passato”.

L’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania e tra i primi cinque paesi al mondo con un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (soprattutto per merito della sua eccellente industria meccanica, prima ancora che di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare). Ma gli italiani non lo sanno. E non se ne curano. Ma se si vuole andare avanti sulla strada dello sviluppo economico, della competitività, delle opportunità di lavoro per le nuove generazioni, tocca proprio agli imprenditori imparare ad affrontare la grande sfida, culturale e sociale, ma anche politica, d’una nuova e migliore percezione del loro ruolo.

“La sfida che attende Confindustria – sostiene Giorgio Squinzi, davanti alla platea degli imprenditori riuniti a Parma, una sorta di passaggio di testimone al suo successore Vincenzo Boccia – è di costruire una nuova visione e una nuova sensibilità nei confronti dei nostri mondi produttivi”. Dunque, un miglior racconto dell’impresa, su cui sono chiamati a confrontarsi pure politici, economisti, uomini e donne dei mondi della cultura e della creatività: imprenditori come innovatori, ma anche come attori sociali responsabili della qualità della crescita economica e del lavoro, abili a maneggiare le nuove tecnologie come chiavi dello sviluppo sostenibile, ambientalmente e socialmente.

E’ una strada già intrapresa dalle imprese migliori, fuori dalle trappole del familismo e dalle ideologie distorte del “piccolo è bello”. Ma da continuare a seguire, sulla strategia già impostata da quelle “multinazionali tascabili”, le imprese medie e medio-grandi forti di robuste radici familiari ma ben managerializzate, innovative, con una presenza sui territori d’origine ma una lungimirante attenzione ai mercati internazionali: le manifatture testimonial del miglior “made in Italy”.

Circola, nel paese, è vero, una diffusa sub-cultura anti-impresa. E ci sono settori di opinione pubblica (e di attori istituzionali) che pensano agli imprenditori e ai manager come personaggi attenti solo al profitto, agli affari comunque portati al successo, spregiudicati, inclini a ogni pur basso compromesso. E’ una dimensione da controbattere.

Lotta ai corrotti, non il mercato”, ha scritto giustamente Antonio Polito in un editoriale sul “Corriere della Sera” sabato 9 aprile: “La corruzione va combattuta senza quartiere perché è distruttiva dell’economia, ma guai se pensassimo di stroncarla stroncando gli affari: la qualità della nostra vita e il nostro reddito dipendono dal livello di sviluppo e di tecnologia del Paese in cui viviamo”.

La sfida non è solo imprenditoriale, culturale e sociale. Ma anche morale. E se ne è discusso per due giorni, venerdì e sabato, al “Positive Economy Forum” di San Patrignano, su iniziativa di Letizia Moratti, con un dibattito internazionale che ha visto la partecipazione di imprenditori, economisti, artisti: ”Riplasmare lo spirito del capitalismo, fare prevalere l’altruismo sull’egoismo e l’interesse generale su quello particolare”,  ha sintetizzato “Il Sole24Ore”. Responsabilità, sostenibilità, partecipazione, qualità dello sviluppo, “doing well by doing good”, fare bene facendo del bene, secondo il motto di Kasturi Rangar, professore alla Harvard Business School. E’ la nuova frontiera anche per le imprese: sviluppo e qualità. Un obiettivo possibile.

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