I compiti dell’Italia? Essere finalmente un attore credibile delle riforme europee: dai sussidi all’innovazione produttiva
“Ce lo chiede l’Europa”. Per anni è stato il mantra di una lunga serie di posizioni politiche, di fronte a un’opinione pubblica e a larghi settori di classi dirigenti restii a favorire cambiamenti e riforme. Un utile ricorso al “vincolo esterno” per avere ragione dei vizi italiani inclini all’assistenzialismo e alla spesa pubblica facile per clientele diffuse e corporazioni potenti. Ma, alla lunga, un mantra che ha molto allentato il senso di responsabilità di tanti italiani e costruito “il nemico”: Bruxelles, “i burocrati europei”, le “regole stupide” di Maastricht, l’egoismo degli altri paesi oltranzisti del “rigore”. Una “invenzione del nemico” che ha alimentato la propaganda populista e sovranista, fomentato paure e rancori, drammatizzato un reale disagio sociale e avvelenato il confronto politico. Sarebbe stato meglio, invece, con senso di responsabilità, spiegare che era innanzitutto interesse di noi italiani avere conti pubblici in regola, debito pubblico ridotto, spesa pubblica produttiva e non assistenziale, welfare meno sbilenco sulle pensioni, riforme serie per rendere la nostra economia competitiva.
Sono queste le considerazioni che vengono in mente a margine dei lunghi giorni della difficile trattativa sul Recovery Fund della Ue. E pongono, al di là degli esiti del Consiglio Europeo, una questione di fondo che riguarda, appunto, noi italiani: come costruire non un nuovo capitolo di “attendismo senza partecipazione” (per usare un’efficace frase di Giuseppe De Rita) ma un ambizioso e responsabile processo di cambiamento degli attori e delle culture della nostra crescita economica e sociale.
Lasciamo stare, qui, le ragioni politiche dei paesi che si autodefiniscono, impropriamente, “frugali”, Olanda in testa, e che considerano la Ue al massimo come un mercato, da cui trarre il massimo dei vantaggi pagando il minimo prezzo degli obblighi (tutto il contrario dello spirito politico dei “padri fondatori” dell’Europa, Olanda compresa). Mettiamo nel conto le contorsioni di chi, facendo il rigorista contro i paesi mediterranei, prova a blandire i populisti e i sovranisti di casa propria. E, tanto per completare il quadro, prendiamo atto positivamente dei due dati politici fondamentali di questa tormentata serie di incontri del Consiglio Ue: innanzitutto, la scelta, accettata, di rafforzare il bilancio Ue e andare a cercare, sul mercato, proprio come Ue, parte delle risorse necessarie a finanziare il Recovery Fund (dunque, un avvio di politica economica comune, che rafforza le potenzialità della moneta comune); e, secondo dato strategico, la scelta responsabile di Angela Merkel, con la presidenza tedesca del semestre europeo, di rilanciare valori ideali e forza politica della Ue, nella lungimirante consapevolezza che non serve “una Europa tedesca, ma una Germania europea” (secondo la lucidissima lezione di Thomas Mann). L’asse Merkel-Macron fa parte di questa strategia. La vicinanza a Italia e Spagna (i paesi più colpiti dalla pandemia da Covid 19) la rafforza. Europa lacerata? Semmai, una Europa in cerca, nonostante tutto, di una migliore coesione.
A noi italiani, al di là della battagliera gestione delle trattative da parte del presidente del Consiglio Conte, tocca adesso dimostrare che il nostro Paese sa essere un protagonista serio e credibile del rilancio della Ue. Come? Innanzitutto, presentando un programma ben costruito di riforme e di investimenti da finanziare con il Recovery Fund, secondo le indicazioni strategiche della green economy e della digital economy, guardando alla qualità dello sviluppo e alla indicazione di opportunità per la Next Generation Ue: scuola, formazione continua, ricerca, innovazione, utilizzo dell’intelligenza artificiale come “intelligenza umana aumentata”, etc.
Nella definizione dei progetti, si sa, siamo ancora molto indietro. I prossimi mesi dovranno essere ben impiegati per arrivare a Bruxelles non con proposte generiche, ma con programmi ben articolati e con indicazioni chiare degli obiettivi e degli strumenti per rendicontare l’andamento e gli effetti degli investimenti. Un ragionamento analogo va fatto per il Mes, da usare per rafforzare il settore della salute e della sanità (senza più giocare con i veti ideologici che tanto appassionano i grillini)
Ma c’è anche altro da fare. Muoversi finalmente per rilanciare la produttività complessiva del paese, ferma da vent’anni. E passare rapidamente dalla “Repubblica dei sussidi” all’Italia che valorizza le imprese, il lavoro qualificato, il benessere diffuso, la competitività. Le scelte fatte finora, compresi il reddito di cittadinanza e “quota 100” per le pensioni (una condizione che le nazioni del Nord a noi ostili non hanno), non vanno certo in direzione di una nostra credibilità come paese riformatore, pronto ad archiviare le cattive abitudini dell’assistenzialismo. Tutt’altro. Dunque, i nostri compiti a casa sono ben chiari: il “cambio di paradigma” dal sussidio all’intraprendenza, dalla spesa pubblica improduttiva crescente all’innovazione e alla produttività. Non perché “ce lo chiede l’Europa” ma perché serve innanzitutto a noi, alla migliore crescita economica e civile del Paese.
“Ce lo chiede l’Europa”. Per anni è stato il mantra di una lunga serie di posizioni politiche, di fronte a un’opinione pubblica e a larghi settori di classi dirigenti restii a favorire cambiamenti e riforme. Un utile ricorso al “vincolo esterno” per avere ragione dei vizi italiani inclini all’assistenzialismo e alla spesa pubblica facile per clientele diffuse e corporazioni potenti. Ma, alla lunga, un mantra che ha molto allentato il senso di responsabilità di tanti italiani e costruito “il nemico”: Bruxelles, “i burocrati europei”, le “regole stupide” di Maastricht, l’egoismo degli altri paesi oltranzisti del “rigore”. Una “invenzione del nemico” che ha alimentato la propaganda populista e sovranista, fomentato paure e rancori, drammatizzato un reale disagio sociale e avvelenato il confronto politico. Sarebbe stato meglio, invece, con senso di responsabilità, spiegare che era innanzitutto interesse di noi italiani avere conti pubblici in regola, debito pubblico ridotto, spesa pubblica produttiva e non assistenziale, welfare meno sbilenco sulle pensioni, riforme serie per rendere la nostra economia competitiva.
Sono queste le considerazioni che vengono in mente a margine dei lunghi giorni della difficile trattativa sul Recovery Fund della Ue. E pongono, al di là degli esiti del Consiglio Europeo, una questione di fondo che riguarda, appunto, noi italiani: come costruire non un nuovo capitolo di “attendismo senza partecipazione” (per usare un’efficace frase di Giuseppe De Rita) ma un ambizioso e responsabile processo di cambiamento degli attori e delle culture della nostra crescita economica e sociale.
Lasciamo stare, qui, le ragioni politiche dei paesi che si autodefiniscono, impropriamente, “frugali”, Olanda in testa, e che considerano la Ue al massimo come un mercato, da cui trarre il massimo dei vantaggi pagando il minimo prezzo degli obblighi (tutto il contrario dello spirito politico dei “padri fondatori” dell’Europa, Olanda compresa). Mettiamo nel conto le contorsioni di chi, facendo il rigorista contro i paesi mediterranei, prova a blandire i populisti e i sovranisti di casa propria. E, tanto per completare il quadro, prendiamo atto positivamente dei due dati politici fondamentali di questa tormentata serie di incontri del Consiglio Ue: innanzitutto, la scelta, accettata, di rafforzare il bilancio Ue e andare a cercare, sul mercato, proprio come Ue, parte delle risorse necessarie a finanziare il Recovery Fund (dunque, un avvio di politica economica comune, che rafforza le potenzialità della moneta comune); e, secondo dato strategico, la scelta responsabile di Angela Merkel, con la presidenza tedesca del semestre europeo, di rilanciare valori ideali e forza politica della Ue, nella lungimirante consapevolezza che non serve “una Europa tedesca, ma una Germania europea” (secondo la lucidissima lezione di Thomas Mann). L’asse Merkel-Macron fa parte di questa strategia. La vicinanza a Italia e Spagna (i paesi più colpiti dalla pandemia da Covid 19) la rafforza. Europa lacerata? Semmai, una Europa in cerca, nonostante tutto, di una migliore coesione.
A noi italiani, al di là della battagliera gestione delle trattative da parte del presidente del Consiglio Conte, tocca adesso dimostrare che il nostro Paese sa essere un protagonista serio e credibile del rilancio della Ue. Come? Innanzitutto, presentando un programma ben costruito di riforme e di investimenti da finanziare con il Recovery Fund, secondo le indicazioni strategiche della green economy e della digital economy, guardando alla qualità dello sviluppo e alla indicazione di opportunità per la Next Generation Ue: scuola, formazione continua, ricerca, innovazione, utilizzo dell’intelligenza artificiale come “intelligenza umana aumentata”, etc.
Nella definizione dei progetti, si sa, siamo ancora molto indietro. I prossimi mesi dovranno essere ben impiegati per arrivare a Bruxelles non con proposte generiche, ma con programmi ben articolati e con indicazioni chiare degli obiettivi e degli strumenti per rendicontare l’andamento e gli effetti degli investimenti. Un ragionamento analogo va fatto per il Mes, da usare per rafforzare il settore della salute e della sanità (senza più giocare con i veti ideologici che tanto appassionano i grillini)
Ma c’è anche altro da fare. Muoversi finalmente per rilanciare la produttività complessiva del paese, ferma da vent’anni. E passare rapidamente dalla “Repubblica dei sussidi” all’Italia che valorizza le imprese, il lavoro qualificato, il benessere diffuso, la competitività. Le scelte fatte finora, compresi il reddito di cittadinanza e “quota 100” per le pensioni (una condizione che le nazioni del Nord a noi ostili non hanno), non vanno certo in direzione di una nostra credibilità come paese riformatore, pronto ad archiviare le cattive abitudini dell’assistenzialismo. Tutt’altro. Dunque, i nostri compiti a casa sono ben chiari: il “cambio di paradigma” dal sussidio all’intraprendenza, dalla spesa pubblica improduttiva crescente all’innovazione e alla produttività. Non perché “ce lo chiede l’Europa” ma perché serve innanzitutto a noi, alla migliore crescita economica e civile del Paese.