I giovani lombardi vogliono fare gli imprenditori ma non avvertono il fascino della manifattura
Fare l’imprenditore. E’ proprio questo il desiderio che sta in cima ai pensieri della maggior parte dei giovani lombardi. O, anche, fare il professionista. Essere, insomma, protagonisti del proprio tempo e della propria vita. Altro che choosy (e cioè pretenziosi, in attesa che cada loro dal cielo il lavoro ideale) oppure bamboccioni, “sdraiati”, inclini alla subcultura del non lavoro. Siamo di fronte a un sorprendente ritratto delle aspettative personali e lavorative delle nuove generazioni. Su cui riflettere attentamente.
Il ritratto emerge da un’indagine condotta da Eumetra per l’Assolombarda, realizzata nel maggio scorso, intervistando 1.000 ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni residenti nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza e Lodi, con un diploma di scuola secondaria in tasca e, nel 36% dei casi, una laurea. E i risultati sono stati presentati e discussi, una settimana fa, durante un convegno su “I giovani, il lavoro e la cultura d’impresa” durante le iniziative del programma di “Pavia capitale della cultura d’impresa”.
Cosa dicono esattamente quei dati? Il 29% degli intervistati si immagina un futuro da imprenditore (la percentuale sale al 35% tra i giovani laureati e al 41% tra i laureati che studiano e lavorano) e un altro 28% da libero professionista. Fatte le somme, il 57% vuole mettersi in proprio. E solo il 28% desidera “un lavoro da dipendente”. Il “posto fisso” tanto caro alle parodie del film di Checco Zalone, insomma, esercita scarso fascino, in Lombardia.
Ma “imprenditorie” o “professionista” per fare esattamente cosa? La “consulenza” è la prima preferenza (17%). Poi, l’ambito sanitario e sociale, il settore bancario, finanziario e assicurativo, il commercio, l’informatica, il turismo, le professioni creative, il mondo pubblico. In coda ci sono il settore manifatturiero e quello energetico e, ultimo, il “no profit”.
Ecco un punto chiave: la fabbrica, anche la neo-fabbrica digitale e sostenibile, attrae poco. Solo il 15% degli intervistati, infatti, indica la manifattura come “settore trainante dell’economia italiana”, attribuendo invece questo ruolo soprattutto al turismo (49% delle risposte). E proprio qui c’è un approfondimento da fare. Dati analoghi, infatti, erano emersi nel 2009 e poi nel 2010 da una indagine condotta da Ipsos, a livello nazionale, per il volume “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) e poi per Assolombarda. E il fatto di ritrovarli confermati adesso, dopo gli anni della ripresa post Covid trainata dalla manifattura e in una zona (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia) segnata da una forte presenza industriale e dei servizi ad alta tecnologia collegati rivela una vera e propria carenza di racconto affidabile da parte dei protagonisti del mondo dell’impresa verso le nuove generazioni e di permanenza di robuste diffidenze nei confronti dell’industria.
Sostiene l’indagine Assolombarda-Eumetra: “Più della metà del campione (54%) considera la manifattura un sintomo di specializzazione e solo il 39% la collega all’innovazione. A conferma di tale percezione, il 53% degli intervistati pensa che le mansioni nell’industria manifatturiera richiedano una maggiore esperienza e competenza tecnica rispetto al passato, mentre solo il 35% ritiene che gli operai abbiano maggiori diritti e tutele rispetto agli ultimi anni e solo il 23% crede che l’ambiente in cui lavorano sia più sicuro e sano di allora”.
La percezione negativa della fabbrica, insomma, continua a pesare sulle nuove generazioni, nonostante il cammino fatto sul versante della sostenibilità ambientale e sociale, della qualità delle nuove architetture industriali (“la fabbrica bella” ben progettata, trasparente, luminosa, sicura) e delle radicali trasformazioni high tech.
C’è un dettaglio che fa comunque sperare: il 42% dei giovani laureati pensa che “l’industria manifatturiera offra buone opportunità per impieghi legati alla sostenibilità ambientale”. Un buon punto di riferimento positivo su cui fare leva.
Ancora un paio di dati, per capire meglio il contesto: il 55% degli intervistati cerca “flessibilità oraria”, il 49% vorrebbe “avere tempo libero per attività extra lavorative” e solo il 35% vorrebbe poter fare affidamento sullo smart working. Anche da qui emerge l’inclinazione a essere “padroni” del proprio tempo. E il valore dominante? Per l’81%, “la famiglia e gli affetti”. Prima, dunque, di successo e carriera.
Fin qui, i dati essenziali dell’indagine Assolombarda. Dati che suscitano alcune riflessioni conclusive, su cui varrebbe la pena approfondire il discorso pubblico sia del mondo politico (che misure mettere in campo, per l’orientamento delle nuove generazioni al lavoro e dunque come spendere bene le risorse pubbliche nazionali ed europee?) sia, soprattutto, delle organizzazioni di rappresentanza imprenditoriali e dei responsabili delle imprese.
I valori dell’intraprendenza e della libertà di scelta nella costruzione del proprio futuro emergono con grande evidenza, naturalmente condizionati positivamente dall’essere, i giovani in questione, cresciuti in ambienti (la Milano metropoli e le sue città collegate) in cui l’imprenditorialità, trasversale a molto settori, è un fattore socio-culturale quanto mai caratterizzante. Sarebbe interessante, dunque, verificare l’indagine anche in altre aree di impresa diffusa, tra Nord Ovest, Nord Est ed Emilia-Romagna e in aree in cui, come il Centro e il Mezzogiorno, l’impresa invece non è un attore forte e storicamente attrattivo.
La seconda riflessione riguarda l’idea di impresa industriale percepita dalle nuove generazioni, da rendere più gratificante e attraente, facendo risaltare, molto meglio di quanto ancora non succeda, la forza dei nuovi paradigmi produttivi ad alta tecnologia ed elevati livelli di qualità e sostenibilità (le affascinanti acciaierie green e le imprese chimiche e farmaceutiche la cui competitività è garantita dal massimo dell’attenzione all’ambiente e all’inclusione sociale).
C’è insomma da insistere sui valori del miglior made in Italy, senza cadere nell’illusione retorica del pittoresco e del “piccolo è bello”. E fare risaltare un mondo di straordinarie opportunità di lavoro e di sviluppo personale e professionale per ragazze e ragazzi intraprendenti, offerte da meccatronica, automotive, industria aerospaziale e nautica, imprese delle life sciences, arredamento, moda, agro-industria, etc.
In sintesi, costruire un “nuovo racconto della fabbrica”, usando tutti i media più efficaci e i linguaggi più adatti alle nuove generazioni, è una sfida ineludibile. Anche per dare concretezza e futuro a quel desiderio giovanile da cui siamo partiti: fare l’imprenditore.
Fare l’imprenditore. E’ proprio questo il desiderio che sta in cima ai pensieri della maggior parte dei giovani lombardi. O, anche, fare il professionista. Essere, insomma, protagonisti del proprio tempo e della propria vita. Altro che choosy (e cioè pretenziosi, in attesa che cada loro dal cielo il lavoro ideale) oppure bamboccioni, “sdraiati”, inclini alla subcultura del non lavoro. Siamo di fronte a un sorprendente ritratto delle aspettative personali e lavorative delle nuove generazioni. Su cui riflettere attentamente.
Il ritratto emerge da un’indagine condotta da Eumetra per l’Assolombarda, realizzata nel maggio scorso, intervistando 1.000 ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni residenti nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza e Lodi, con un diploma di scuola secondaria in tasca e, nel 36% dei casi, una laurea. E i risultati sono stati presentati e discussi, una settimana fa, durante un convegno su “I giovani, il lavoro e la cultura d’impresa” durante le iniziative del programma di “Pavia capitale della cultura d’impresa”.
Cosa dicono esattamente quei dati? Il 29% degli intervistati si immagina un futuro da imprenditore (la percentuale sale al 35% tra i giovani laureati e al 41% tra i laureati che studiano e lavorano) e un altro 28% da libero professionista. Fatte le somme, il 57% vuole mettersi in proprio. E solo il 28% desidera “un lavoro da dipendente”. Il “posto fisso” tanto caro alle parodie del film di Checco Zalone, insomma, esercita scarso fascino, in Lombardia.
Ma “imprenditorie” o “professionista” per fare esattamente cosa? La “consulenza” è la prima preferenza (17%). Poi, l’ambito sanitario e sociale, il settore bancario, finanziario e assicurativo, il commercio, l’informatica, il turismo, le professioni creative, il mondo pubblico. In coda ci sono il settore manifatturiero e quello energetico e, ultimo, il “no profit”.
Ecco un punto chiave: la fabbrica, anche la neo-fabbrica digitale e sostenibile, attrae poco. Solo il 15% degli intervistati, infatti, indica la manifattura come “settore trainante dell’economia italiana”, attribuendo invece questo ruolo soprattutto al turismo (49% delle risposte). E proprio qui c’è un approfondimento da fare. Dati analoghi, infatti, erano emersi nel 2009 e poi nel 2010 da una indagine condotta da Ipsos, a livello nazionale, per il volume “Orgoglio industriale” (pubblicato da Mondadori) e poi per Assolombarda. E il fatto di ritrovarli confermati adesso, dopo gli anni della ripresa post Covid trainata dalla manifattura e in una zona (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia) segnata da una forte presenza industriale e dei servizi ad alta tecnologia collegati rivela una vera e propria carenza di racconto affidabile da parte dei protagonisti del mondo dell’impresa verso le nuove generazioni e di permanenza di robuste diffidenze nei confronti dell’industria.
Sostiene l’indagine Assolombarda-Eumetra: “Più della metà del campione (54%) considera la manifattura un sintomo di specializzazione e solo il 39% la collega all’innovazione. A conferma di tale percezione, il 53% degli intervistati pensa che le mansioni nell’industria manifatturiera richiedano una maggiore esperienza e competenza tecnica rispetto al passato, mentre solo il 35% ritiene che gli operai abbiano maggiori diritti e tutele rispetto agli ultimi anni e solo il 23% crede che l’ambiente in cui lavorano sia più sicuro e sano di allora”.
La percezione negativa della fabbrica, insomma, continua a pesare sulle nuove generazioni, nonostante il cammino fatto sul versante della sostenibilità ambientale e sociale, della qualità delle nuove architetture industriali (“la fabbrica bella” ben progettata, trasparente, luminosa, sicura) e delle radicali trasformazioni high tech.
C’è un dettaglio che fa comunque sperare: il 42% dei giovani laureati pensa che “l’industria manifatturiera offra buone opportunità per impieghi legati alla sostenibilità ambientale”. Un buon punto di riferimento positivo su cui fare leva.
Ancora un paio di dati, per capire meglio il contesto: il 55% degli intervistati cerca “flessibilità oraria”, il 49% vorrebbe “avere tempo libero per attività extra lavorative” e solo il 35% vorrebbe poter fare affidamento sullo smart working. Anche da qui emerge l’inclinazione a essere “padroni” del proprio tempo. E il valore dominante? Per l’81%, “la famiglia e gli affetti”. Prima, dunque, di successo e carriera.
Fin qui, i dati essenziali dell’indagine Assolombarda. Dati che suscitano alcune riflessioni conclusive, su cui varrebbe la pena approfondire il discorso pubblico sia del mondo politico (che misure mettere in campo, per l’orientamento delle nuove generazioni al lavoro e dunque come spendere bene le risorse pubbliche nazionali ed europee?) sia, soprattutto, delle organizzazioni di rappresentanza imprenditoriali e dei responsabili delle imprese.
I valori dell’intraprendenza e della libertà di scelta nella costruzione del proprio futuro emergono con grande evidenza, naturalmente condizionati positivamente dall’essere, i giovani in questione, cresciuti in ambienti (la Milano metropoli e le sue città collegate) in cui l’imprenditorialità, trasversale a molto settori, è un fattore socio-culturale quanto mai caratterizzante. Sarebbe interessante, dunque, verificare l’indagine anche in altre aree di impresa diffusa, tra Nord Ovest, Nord Est ed Emilia-Romagna e in aree in cui, come il Centro e il Mezzogiorno, l’impresa invece non è un attore forte e storicamente attrattivo.
La seconda riflessione riguarda l’idea di impresa industriale percepita dalle nuove generazioni, da rendere più gratificante e attraente, facendo risaltare, molto meglio di quanto ancora non succeda, la forza dei nuovi paradigmi produttivi ad alta tecnologia ed elevati livelli di qualità e sostenibilità (le affascinanti acciaierie green e le imprese chimiche e farmaceutiche la cui competitività è garantita dal massimo dell’attenzione all’ambiente e all’inclusione sociale).
C’è insomma da insistere sui valori del miglior made in Italy, senza cadere nell’illusione retorica del pittoresco e del “piccolo è bello”. E fare risaltare un mondo di straordinarie opportunità di lavoro e di sviluppo personale e professionale per ragazze e ragazzi intraprendenti, offerte da meccatronica, automotive, industria aerospaziale e nautica, imprese delle life sciences, arredamento, moda, agro-industria, etc.
In sintesi, costruire un “nuovo racconto della fabbrica”, usando tutti i media più efficaci e i linguaggi più adatti alle nuove generazioni, è una sfida ineludibile. Anche per dare concretezza e futuro a quel desiderio giovanile da cui siamo partiti: fare l’imprenditore.