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I nuovi pericoli della “economia della scarsità” e le mosse della Ue protagonista industriale

The shortage economy”, titola in copertina l’ultimo numero di “The Economist”, raccontando come una nuova stagione di scarsità di materie prime e di semilavorati stia minacciando la prosperità globale. Dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, abbiamo vissuto un lungo periodo di austerità, di limiti alla spesa pubblica, di freno agli investimenti. Poi la pandemia da Covid19 ha radicalmente cambiato il quadro, determinando un forte aumento della spesa pubblica sia per assistenza sia per investimenti, per fare fronte alla malattia, rafforzare il sistema sanitario, trovare, sperimentare, produrre e distribuire i vaccini, rispondere alla crisi sociale di chi perdeva lavoro e redditi per i lock down indispensabili ad arginare il contagio da coronavirus.

La pandemia ha fatto anche da straordinario acceleratore di parecchi processi economici e sociali: ha portato al centro dell’attenzione delle opinioni pubbliche mondiali le questioni della salute e della qualità della vita, ha rilanciato i temi della sostenibilità e dell’economia circolare e civile, ha imposto un’agenda pubblica internazionale incardinata sui temi del clima, dell’ambiente, della salvaguardia di una serie di valori che investono il nostro modo di vivere, produrre, consumare.
Alla ribalta, il necessario “cambio di paradigma” dall’ossessione per la crescita economica quantitativa (il predominio del Pil, l’indice che misura la ricchezza prodotta) all’assunzione di responsabilità per uno sviluppo di qualità, calcolato secondo il “Better Life Index” o, per usare un metro statistico italiano, il Bes, che misura il “benessere equo e sostenibile” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana).

La pandemia è tutt’altro che finita, colpisce ancora con dolorosa durezza aree geografiche e nazioni in cui il vaccino non è ancora diffuso (o covano le irresponsabili resistenze dei no vax). Ma certo, soprattutto in Europa e in altri paesi a forte livello di industrializzazione, l’economia è ripartita. Ma…
Ecco il nuovo pericolo, segnalato con autorevolezza del settimanale di riferimento degli ambienti economici internazionali. La “shortage economy”, l’economia della scarsità – si spiega – è il prodotto di due forze profonde. Innanzitutto, le scelte politiche sulla decarbonizzazione, accelerando il passaggio dai carbone alle energie rinnovabili, con un’impennata conseguente dei prezzi del gas e, più in generale, di tutti i prezzi dell’energia. L’industria e parte dei consumi ne hanno pesantemente risentito.
Il passaggio alle energie rinnovabili e non inquinanti è indispensabile e urgente, certo. Ma va governato con intelligenza politica, per non caricarlo di pesanti costi economici e sociali (le tematiche legate all’auto elettrica, con le conseguenze sulla dipendenza da materie prime strategiche particolari e sullo smaltimento delle batterie consumiate ne sono una testimonianza)

La seconda ragione della “shortage economy” sta nell’effetto delle politiche protezionistiche che si diffondono nel mondo, con un appesantimento del conflitto tra Usa e Cina e una lunga fila di conseguenze sul commercio internazionale. L’ombra della crescita dell’inflazione legata ai due fenomeni rende incerto il clima economico generale. In alcuni ambienti – racconta “The Economist” – si teme il ritorno della stagflazione (inflazione combinata con bassa crescita economica), pur ricordando che il passato, gli anni Settanta cioè, non è la miglior guida per il presente.

Sul mercato mancano anche semi-lavorati essenziali, a cominciare dai microchip, con effetti su moltissime produzioni, dall’auto all’aeronautica e a una lunga serie di altri settori industriali. La ripresa post-pandemia ne risente parecchio. I mercati finanziari sono in fibrillazione. L’ottimismo sulla crescita si smorza. Ecco il quadro generale con cui fare i conti, per discutere seriamente di politica economica e di prospettive delle imprese.

Un punto è certo. La stagione delle lunghe supply chain va verso il tramonto: troppo fragili, troppe esposte alle fratture dei grandi eventi traumatici (pandemie, alterazioni climatiche ma anche crisi che investono la  cybersecurity) . Restano, naturalmente, le connessioni tra le varie economie mondiali. Ma quelle supply chain vanno radicalmente ripensate. E molte produzioni di semilavorati vanno riportate più a ridosso degli impianti di produzione finale di beni e servizi.
L’Europa è uno spazio adatto, per evitare i piccoli protezionismi nazionalistiche e rafforzare la Ue come grande attore economico. L’Europa con una comune politica industriale, fiscale, della ricerca e della formazione e, perché no?, della difesa (con le ricadute industriali conseguenti). L’Europa con la sua autonomia energetica e industriale, come è necessario per essere un attore economico fondamentale nella grande “partita a tre” accanto a Usa e Cina (dal titolo di un interessante libro scritto per Il Mulino da Paolo Guerrieri, professore a Science Po di Parigi e all’università di San Diego, California).

La globalizzazione resta come riferimento, ma non più assoluto. Si ridisegnano, appunto, equilibri, mercati, catene di produzione e abitudini di consumo. E proprio la Ue, con il suo dinamismo economico e l’incrocio tra economia di mercato e sistemi di protezione sociale, può fare da paradigma per il resto del mondo ed essere un protagonista forte di una solida capacità di dialogo e di confronto. Contribuendo a frenare la “shortage economy”, cioè la “decrescita infelice”.

The shortage economy”, titola in copertina l’ultimo numero di “The Economist”, raccontando come una nuova stagione di scarsità di materie prime e di semilavorati stia minacciando la prosperità globale. Dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, abbiamo vissuto un lungo periodo di austerità, di limiti alla spesa pubblica, di freno agli investimenti. Poi la pandemia da Covid19 ha radicalmente cambiato il quadro, determinando un forte aumento della spesa pubblica sia per assistenza sia per investimenti, per fare fronte alla malattia, rafforzare il sistema sanitario, trovare, sperimentare, produrre e distribuire i vaccini, rispondere alla crisi sociale di chi perdeva lavoro e redditi per i lock down indispensabili ad arginare il contagio da coronavirus.

La pandemia ha fatto anche da straordinario acceleratore di parecchi processi economici e sociali: ha portato al centro dell’attenzione delle opinioni pubbliche mondiali le questioni della salute e della qualità della vita, ha rilanciato i temi della sostenibilità e dell’economia circolare e civile, ha imposto un’agenda pubblica internazionale incardinata sui temi del clima, dell’ambiente, della salvaguardia di una serie di valori che investono il nostro modo di vivere, produrre, consumare.
Alla ribalta, il necessario “cambio di paradigma” dall’ossessione per la crescita economica quantitativa (il predominio del Pil, l’indice che misura la ricchezza prodotta) all’assunzione di responsabilità per uno sviluppo di qualità, calcolato secondo il “Better Life Index” o, per usare un metro statistico italiano, il Bes, che misura il “benessere equo e sostenibile” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana).

La pandemia è tutt’altro che finita, colpisce ancora con dolorosa durezza aree geografiche e nazioni in cui il vaccino non è ancora diffuso (o covano le irresponsabili resistenze dei no vax). Ma certo, soprattutto in Europa e in altri paesi a forte livello di industrializzazione, l’economia è ripartita. Ma…
Ecco il nuovo pericolo, segnalato con autorevolezza del settimanale di riferimento degli ambienti economici internazionali. La “shortage economy”, l’economia della scarsità – si spiega – è il prodotto di due forze profonde. Innanzitutto, le scelte politiche sulla decarbonizzazione, accelerando il passaggio dai carbone alle energie rinnovabili, con un’impennata conseguente dei prezzi del gas e, più in generale, di tutti i prezzi dell’energia. L’industria e parte dei consumi ne hanno pesantemente risentito.
Il passaggio alle energie rinnovabili e non inquinanti è indispensabile e urgente, certo. Ma va governato con intelligenza politica, per non caricarlo di pesanti costi economici e sociali (le tematiche legate all’auto elettrica, con le conseguenze sulla dipendenza da materie prime strategiche particolari e sullo smaltimento delle batterie consumiate ne sono una testimonianza)

La seconda ragione della “shortage economy” sta nell’effetto delle politiche protezionistiche che si diffondono nel mondo, con un appesantimento del conflitto tra Usa e Cina e una lunga fila di conseguenze sul commercio internazionale. L’ombra della crescita dell’inflazione legata ai due fenomeni rende incerto il clima economico generale. In alcuni ambienti – racconta “The Economist” – si teme il ritorno della stagflazione (inflazione combinata con bassa crescita economica), pur ricordando che il passato, gli anni Settanta cioè, non è la miglior guida per il presente.

Sul mercato mancano anche semi-lavorati essenziali, a cominciare dai microchip, con effetti su moltissime produzioni, dall’auto all’aeronautica e a una lunga serie di altri settori industriali. La ripresa post-pandemia ne risente parecchio. I mercati finanziari sono in fibrillazione. L’ottimismo sulla crescita si smorza. Ecco il quadro generale con cui fare i conti, per discutere seriamente di politica economica e di prospettive delle imprese.

Un punto è certo. La stagione delle lunghe supply chain va verso il tramonto: troppo fragili, troppe esposte alle fratture dei grandi eventi traumatici (pandemie, alterazioni climatiche ma anche crisi che investono la  cybersecurity) . Restano, naturalmente, le connessioni tra le varie economie mondiali. Ma quelle supply chain vanno radicalmente ripensate. E molte produzioni di semilavorati vanno riportate più a ridosso degli impianti di produzione finale di beni e servizi.
L’Europa è uno spazio adatto, per evitare i piccoli protezionismi nazionalistiche e rafforzare la Ue come grande attore economico. L’Europa con una comune politica industriale, fiscale, della ricerca e della formazione e, perché no?, della difesa (con le ricadute industriali conseguenti). L’Europa con la sua autonomia energetica e industriale, come è necessario per essere un attore economico fondamentale nella grande “partita a tre” accanto a Usa e Cina (dal titolo di un interessante libro scritto per Il Mulino da Paolo Guerrieri, professore a Science Po di Parigi e all’università di San Diego, California).

La globalizzazione resta come riferimento, ma non più assoluto. Si ridisegnano, appunto, equilibri, mercati, catene di produzione e abitudini di consumo. E proprio la Ue, con il suo dinamismo economico e l’incrocio tra economia di mercato e sistemi di protezione sociale, può fare da paradigma per il resto del mondo ed essere un protagonista forte di una solida capacità di dialogo e di confronto. Contribuendo a frenare la “shortage economy”, cioè la “decrescita infelice”.

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