Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli..

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione e l’accessiblità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o scrivere a visite@fondazionepirelli.org

I pericoli della crescita piatta e del declino europeo: servono nuove scelte di politica fiscale e industriale  

Ed eccola qua, la “crescita zero” per l’economia italiana. La documenta l’Istat, nel terzo trimestre di quest’anno. Con effetti di trascinamento anche sul quarto trimestre e sull’anno prossimo, quando la crescita del Pil dell’1% o addirittura 1,2% prevista dal governo somiglia proprio un miraggio e sembrano invece più realistiche le previsioni di chi parla di uno 0,5%, come fa il Centro Studi Confindustria. Niente recessione, per ora (nell’area Ue, ne soffre solo la Germania, che però è il nostro principale partner commerciale e anche il Paese cui fanno capo molte delle catene di subfornitura delle imprese italiane). Ma i timori di rallentamento e dunque di nuovi e maggiori squilibri per il rapporto tra debito pubblico e Pil sono quanto mai fondati.

Non c’è però alcuna ricaduta negativa, statisticamente, sull’occupazione. I posti di lavoro, sempre secondo l’Istat, sono aumentati, nel settembre ‘23, di 42mila unità rispetto al mese precedente. E, guardando al confronto anno su anno, si registra un incremento di 512mila posti di lavoro, la stragrande maggioranza dei quali (443mila) posti fissi. “Tanto lavoro, poco Pil”, sintetizza Dario Di Vico su “Il Foglio” (4 novembre), parlando di “produttività ferma ma occupazione in crescita” e cercandone la spiegazione o in una “resilienza” delle imprese che non si liberano di mano d’opera aspettando una ripresa che si stima vicina (l’inflazione si riduce, i tassi smetteranno di crescere e ripartiranno gli investimenti) o, a essere pessimisti, in un aumento dei lavori a bassi costo e bassi salari, come succede in tempi di crisi.

Il tempo, e le nuove statistiche, ci diranno quali tendenze prevarranno nel prossimo futuro. Resta fermo, comunque, un dato: le imprese continuano a non trovare persone da assumere (l’ultimo allarme arriva dalle fabbriche meccaniche del Nord Est; “la Repubblica”, 28 ottobre) mentre i baby boomers (i figli degli anni Cinquanta e Sessanta) se ne vanno in pensione al ritmo di mezzo milione all’anno e, secondo Prometeia, “le forze di rincalzo siano nell’ordine di 400mila persone all’anno, da qui al 2030, con un buco, dunque, di 100mila unità di difficile rimpiazzo” (“la Repubblica”, 3 novembre).

Eppure, nonostante tutto, la nave Italia va, con un lungo e ostinato sforzo delle imprese manifatturiere che, anche in tempi difficili, producono, innovano, investono, affrontano la difficile twin transition ambientale e digitale e continuano a esportare e a conquistare nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali (lo abbiamo documentato e spiegato nel blog della scorsa settimana).

Le imprese, però, non possono fare tutto da sole. Hanno bisogno di scelte politiche, sia nazionali che europee, sapienti e coerenti con le strategie di lungo periodo dell’attuale fase di sviluppo della “economia della conoscenza”. E invece si ritrovano con una finanziaria che “destina appena l’8% alle imprese” e non sostiene gli investimenti, come ripete da tempo Confindustria. E con una Ue che non ha messo in campo adeguate politiche comuni per fronteggiare sia l’Ira (Inflation and Reduction Act) degli Usa sia i giganteschi investimenti della Cina per sostenere le proprie imprese high tech.

Ecco il punto di riflessione essenziale, per evitare i rischi di declino. Come muoversi? Per capire meglio, sono utili le considerazioni di Marco Buti e Marcello Messori, un grand commis di Bruxelles a lungo capo di Gabinetto del Commissario Ue Paolo Gentiloni e un economista di spessore europeo, affidate a una serie di articoli su “Il Sole24Ore” (14 e 22 settembre) su “Le strade che l’Italia deve percorrere per rilanciarsi” e su “Un modello produttivo per accompagnare la Ue nel futuro”.

Sostengono Buti e Messori che “il rischio di stagflazione non è stato scongiurato” e spiegano che proprio un modello produttivo dominato dalla Germania e fondato, tra l’altro, sull’export di prodotti manifatturieri frutto di tecnologie solide ma mature, su piccole imprese poco innovative, su dipendenze da fonti energetiche concentrate e poco sicure (l’invasione russa dell’Ucraina ha reso drammatico un fenomeno già evidente da tempo), su servizi high tech non sufficientemente competitivi rende difficile “l’effettivo integrazione del mercato unico europeo che, pure, rappresenta uno punto di forza dell’area”.

Ci sono “ritardi europei nel digitale e nell’intelligenza artificiale rispetto a Usa e Cina” e “nuovi rischi di divergenza all’interno della Ue”, accentuati proprio dalla “relativa debolezza dell’economia tedesca che si ripercuote sui paesi più integrati nella sua catena del valore (Olanda e Italia)”.

L’economia europea, “senza un cambio di passo, sarebbe condannata a ruoli marginali e a un progressivo indebolimento del proprio modello sociale”. Il quadro è aggravato da “una demografia stagnante”. E dunque “il benessere europeo può essere salvaguardato solo se la Ue saprà costruire un modello produttivo più competitivo”.

Come? “Gli ingredienti sono noti, perché alla base dell’iniziativa adottata in risposta allo shock pandemico: Next Generation Eu. Si tratta della tripla transizione ‘verde’, digitale e sociale”. Risorse comuni europee per la sostenibilità vissuta come fattore competitivo, per il potenziamento dell’economia della conoscenza, per la formazione e la ricerca.

Una “strada impervia”, è vero. Ma indispensabile. Da percorrere “rafforzando la capacità fiscale europea e raccordandola a un’allocazione efficiente delle risorse, pubbliche e private, dei singoli Stati membri”.

Più Europa integrata, dunque, pensando anche alle questioni della sicurezza in tutti i loro aspetti, ai fondi comuni Ue per l’energia e le materie prime strategiche.

Tutto il contrario dei neo-nazionalismi e dell’idea di usare l’Europa come un bancomat per singoli vantaggi dei vari paesi, sottovalutando vincoli, obblighi, valori comuni.

E l’Italia? Sostengono Buti e Messori che è nel nostro massimo interesse “superare l’attuale stallo istituzionale sulla governance economica della Ue”, contribuendo a approvare “nuove regole fiscali che, in conformità alla proposta della Commissione dell’aprile scorso, calibrino gli aggiustamenti nazionali di bilancio in base alle specificità dei singoli Paesi, nel rispetto della crescita macroeconomica e della sostenibilità fiscale”. Regole indispensabili, appunto, per un’Italia che, dato l’altissimo debito pubblico, ha pochissimo spazio di manovra per usare la leva della spesa pubblica per investimenti produttivi e stimoli alle imprese. Anche una rapida approvazione del Mes, finalmente, rientra in questo quadro positivo.

Secondo punto: “Fare sì che i detentori privati della consistente ricchezza finanziaria del Paese sottoscrivano non solo strumenti liquidi ma anche attività per il finanziamento delle produzioni”. Con stimoli fiscali adeguati. E dunque con una ben diversa idea del fisco, che non premi gli evasori (con condoni comunque rivestiti) o i ceti protetti corporativamente da licenze e concessioni a basso costo ma agevoli chi investe e produce.

Terzo punto: l’utilizzo puntuale e corretto delle grandi risorse messe a disposizione dal Pnrr, il vero “sostegno fiscale” alla crescita. Insomma, “solo percorrendo tali strade, l’Italia non rimarrà intrappolata in politiche fiscali pro-cicliche e potrà contribuire a quel modello imprenditore per la decarbonizzazione dell’industria” invocato, a metà settembre, dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione europea. Europa, sviluppo sostenibile ed economia civile, appunto. Una strada adatta all’Italia.

(immagine Getty Images)

Ed eccola qua, la “crescita zero” per l’economia italiana. La documenta l’Istat, nel terzo trimestre di quest’anno. Con effetti di trascinamento anche sul quarto trimestre e sull’anno prossimo, quando la crescita del Pil dell’1% o addirittura 1,2% prevista dal governo somiglia proprio un miraggio e sembrano invece più realistiche le previsioni di chi parla di uno 0,5%, come fa il Centro Studi Confindustria. Niente recessione, per ora (nell’area Ue, ne soffre solo la Germania, che però è il nostro principale partner commerciale e anche il Paese cui fanno capo molte delle catene di subfornitura delle imprese italiane). Ma i timori di rallentamento e dunque di nuovi e maggiori squilibri per il rapporto tra debito pubblico e Pil sono quanto mai fondati.

Non c’è però alcuna ricaduta negativa, statisticamente, sull’occupazione. I posti di lavoro, sempre secondo l’Istat, sono aumentati, nel settembre ‘23, di 42mila unità rispetto al mese precedente. E, guardando al confronto anno su anno, si registra un incremento di 512mila posti di lavoro, la stragrande maggioranza dei quali (443mila) posti fissi. “Tanto lavoro, poco Pil”, sintetizza Dario Di Vico su “Il Foglio” (4 novembre), parlando di “produttività ferma ma occupazione in crescita” e cercandone la spiegazione o in una “resilienza” delle imprese che non si liberano di mano d’opera aspettando una ripresa che si stima vicina (l’inflazione si riduce, i tassi smetteranno di crescere e ripartiranno gli investimenti) o, a essere pessimisti, in un aumento dei lavori a bassi costo e bassi salari, come succede in tempi di crisi.

Il tempo, e le nuove statistiche, ci diranno quali tendenze prevarranno nel prossimo futuro. Resta fermo, comunque, un dato: le imprese continuano a non trovare persone da assumere (l’ultimo allarme arriva dalle fabbriche meccaniche del Nord Est; “la Repubblica”, 28 ottobre) mentre i baby boomers (i figli degli anni Cinquanta e Sessanta) se ne vanno in pensione al ritmo di mezzo milione all’anno e, secondo Prometeia, “le forze di rincalzo siano nell’ordine di 400mila persone all’anno, da qui al 2030, con un buco, dunque, di 100mila unità di difficile rimpiazzo” (“la Repubblica”, 3 novembre).

Eppure, nonostante tutto, la nave Italia va, con un lungo e ostinato sforzo delle imprese manifatturiere che, anche in tempi difficili, producono, innovano, investono, affrontano la difficile twin transition ambientale e digitale e continuano a esportare e a conquistare nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali (lo abbiamo documentato e spiegato nel blog della scorsa settimana).

Le imprese, però, non possono fare tutto da sole. Hanno bisogno di scelte politiche, sia nazionali che europee, sapienti e coerenti con le strategie di lungo periodo dell’attuale fase di sviluppo della “economia della conoscenza”. E invece si ritrovano con una finanziaria che “destina appena l’8% alle imprese” e non sostiene gli investimenti, come ripete da tempo Confindustria. E con una Ue che non ha messo in campo adeguate politiche comuni per fronteggiare sia l’Ira (Inflation and Reduction Act) degli Usa sia i giganteschi investimenti della Cina per sostenere le proprie imprese high tech.

Ecco il punto di riflessione essenziale, per evitare i rischi di declino. Come muoversi? Per capire meglio, sono utili le considerazioni di Marco Buti e Marcello Messori, un grand commis di Bruxelles a lungo capo di Gabinetto del Commissario Ue Paolo Gentiloni e un economista di spessore europeo, affidate a una serie di articoli su “Il Sole24Ore” (14 e 22 settembre) su “Le strade che l’Italia deve percorrere per rilanciarsi” e su “Un modello produttivo per accompagnare la Ue nel futuro”.

Sostengono Buti e Messori che “il rischio di stagflazione non è stato scongiurato” e spiegano che proprio un modello produttivo dominato dalla Germania e fondato, tra l’altro, sull’export di prodotti manifatturieri frutto di tecnologie solide ma mature, su piccole imprese poco innovative, su dipendenze da fonti energetiche concentrate e poco sicure (l’invasione russa dell’Ucraina ha reso drammatico un fenomeno già evidente da tempo), su servizi high tech non sufficientemente competitivi rende difficile “l’effettivo integrazione del mercato unico europeo che, pure, rappresenta uno punto di forza dell’area”.

Ci sono “ritardi europei nel digitale e nell’intelligenza artificiale rispetto a Usa e Cina” e “nuovi rischi di divergenza all’interno della Ue”, accentuati proprio dalla “relativa debolezza dell’economia tedesca che si ripercuote sui paesi più integrati nella sua catena del valore (Olanda e Italia)”.

L’economia europea, “senza un cambio di passo, sarebbe condannata a ruoli marginali e a un progressivo indebolimento del proprio modello sociale”. Il quadro è aggravato da “una demografia stagnante”. E dunque “il benessere europeo può essere salvaguardato solo se la Ue saprà costruire un modello produttivo più competitivo”.

Come? “Gli ingredienti sono noti, perché alla base dell’iniziativa adottata in risposta allo shock pandemico: Next Generation Eu. Si tratta della tripla transizione ‘verde’, digitale e sociale”. Risorse comuni europee per la sostenibilità vissuta come fattore competitivo, per il potenziamento dell’economia della conoscenza, per la formazione e la ricerca.

Una “strada impervia”, è vero. Ma indispensabile. Da percorrere “rafforzando la capacità fiscale europea e raccordandola a un’allocazione efficiente delle risorse, pubbliche e private, dei singoli Stati membri”.

Più Europa integrata, dunque, pensando anche alle questioni della sicurezza in tutti i loro aspetti, ai fondi comuni Ue per l’energia e le materie prime strategiche.

Tutto il contrario dei neo-nazionalismi e dell’idea di usare l’Europa come un bancomat per singoli vantaggi dei vari paesi, sottovalutando vincoli, obblighi, valori comuni.

E l’Italia? Sostengono Buti e Messori che è nel nostro massimo interesse “superare l’attuale stallo istituzionale sulla governance economica della Ue”, contribuendo a approvare “nuove regole fiscali che, in conformità alla proposta della Commissione dell’aprile scorso, calibrino gli aggiustamenti nazionali di bilancio in base alle specificità dei singoli Paesi, nel rispetto della crescita macroeconomica e della sostenibilità fiscale”. Regole indispensabili, appunto, per un’Italia che, dato l’altissimo debito pubblico, ha pochissimo spazio di manovra per usare la leva della spesa pubblica per investimenti produttivi e stimoli alle imprese. Anche una rapida approvazione del Mes, finalmente, rientra in questo quadro positivo.

Secondo punto: “Fare sì che i detentori privati della consistente ricchezza finanziaria del Paese sottoscrivano non solo strumenti liquidi ma anche attività per il finanziamento delle produzioni”. Con stimoli fiscali adeguati. E dunque con una ben diversa idea del fisco, che non premi gli evasori (con condoni comunque rivestiti) o i ceti protetti corporativamente da licenze e concessioni a basso costo ma agevoli chi investe e produce.

Terzo punto: l’utilizzo puntuale e corretto delle grandi risorse messe a disposizione dal Pnrr, il vero “sostegno fiscale” alla crescita. Insomma, “solo percorrendo tali strade, l’Italia non rimarrà intrappolata in politiche fiscali pro-cicliche e potrà contribuire a quel modello imprenditore per la decarbonizzazione dell’industria” invocato, a metà settembre, dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione europea. Europa, sviluppo sostenibile ed economia civile, appunto. Una strada adatta all’Italia.

(immagine Getty Images)

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?