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I rischi per lo sviluppo, tra inverno demografico e crollo dei laureati: chi progetta il futuro?

Il rischio che corre l’Italia, paese creativo e ancora capace di sorprendenti riprese, è ritrovarsi a corto di risorse essenziali per lo sviluppo: le persone. I giovani, soprattutto. Ci avviamo verso un “inverno demografico”, con un crollo della natalità e un crescente invecchiamento della popolazione. Una vera e propria “decrescita infelice”. E subiamo una crisi già acuta della formazione, particolarmente grave man mano che la competizione e la qualità della crescita economica e sociale sono fortemente segnate dal primato della “economia della conoscenza”. Le sfide della cosiddetta “economia digitale” e della diffusione dell’Intelligenza Artificiale chiedono persone dotate di un robusto bagaglio culturale critico. Ma, per numero di laureati, siamo in coda alle classifiche Ue. E, nei prossimi anni, ne avremo sempre meno. Il declino, dunque, è inevitabile? Non saremo più capaci di scrivere “una storia al futuro”?

Per capire meglio, guardiamo alcuni numeri, ricavati dai recenti dati diffusi dall’Istat (Il Sole24Ore e La Stampa, 8 aprile). Nel ’22, per la prima volta dall’Unità d’Italia, sono nati meno di 400mila bambini (393mila, per l’esattezza), con 713mila decessi. In sintesi: ogni mille abitanti abbiamo avuto 7 neonati e 13 morti, quasi il doppio, cioè.

In cinque anni, l’Italia ha perso un milione di abitanti, scendendo sotto quota 59 milioni (con il Sud devastato da una emigrazione crescente: 629mila abitanti in meno dal 2018). Ed è invecchiato: l’età media è di 46 anni, gli over 65 sono più di 14 milioni e costituiscono il 24% della popolazione (dopo il Giappone, insomma, siamo il paese più vecchio del mondo).

“L’Italia sta scomparendo”, ha twittato, catastrofico, Elon Musk. Più meditativo e responsabile Giuseppe De Rita, presidente del Censis, l’istituto di ricerca più sensibile alle mutazioni sociali: “Siamo un Paese senza un’idea di futuro, senza motivazioni, senza obiettivi. I ragazzi non solo non fanno figli, ma nemmeno si sposano più. Non si pongono almeno un traguardo minimo nel fare famiglia” (Corriere della Sera, 8 aprile). Precarietà del lavoro per gran parte delle nuove generazioni, alto costo della vita nelle grandi città, scarsa diffusione dei servizi per la famiglia (scuole, asili nido, etc.) e disattenzione per l’impegno lavorativo femminile sono tra le cause della sfiducia diffusa.

Una sintesi di problemi e prospettive sta nelle parole di Chiara Saraceno, sociologa attenta ai temi delle disuguaglianze: “Sostenere le scelte positive di fecondità implica impegnarsi in politiche integrate e continuative che consentono ai giovani di poter pensare con ragionevole fiducia al futuro e creino contesti accoglienti sia per chi nasce e cresce, sia per chi mette al mondo”.

I confronti internazionali mostrano che “in Europa i tassi di fecondità più alti (anche se per lo più al di sotto del livello di riproduzione), perciò anche un minore squilibrio tra le varie fasce di età, si trovano nei paesi che offrono maggiori opportunità ai giovani, che sono meglio dotati di servizi, insieme più accoglienti per i bambini fin dalla nascita e più amichevoli nei confronti delle lavoratrici madri. I trasferimenti monetari sono importanti, se continuativi e di importo significativo, ma meno dei servizi educativi per la prima infanzia, del sostegno all’uguaglianza di genere, delle politiche di conciliazione”.

Abbiamo, insomma, un problema demografico, di tenuta del tessuto sociale e di riforme. Ma anche di qualità e formazione delle risorse umane e dunque di produttività e competitività dell’economia, dall’industria ai servizi. “Tra vent’anni avremo solo 80mila laureati”, calcola con grande preoccupazione Francesco Profumo, presidente della Compagnia di San Paolo ed ex ministro dell’Università e dell’Istruzione (nel governo Monti) ed ex presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Il conto è presto fatto. Agli esami di maturità di quest’anno avremo circa 500mila studenti (nati prevalentemente nel 2004). Ma in quel 2004, gli studenti della maturità erano 800mila. In quasi vent’anni, insomma, quella popolazione studentesca si è poco meno che dimezzata. Dei 500mila studenti attuali, il 60% si iscriverà all’università, 300mila, dunque. E solo il 60% si laureerà tra quattro, cinque anni: 180mila. Continuando questa tendenza, dei 390mila bambini nati quest’anno, nel 2041 faranno la maturità in 240mila. 140mila andranno all’università. E 80mila si laureeranno. Troppo pochi, appunto.

Che fare? Insistere su nuove politiche demografiche, sapendo che però il loro corso, per dare risultati, sarà ventennale. E intanto, spiega Profumo, “imparare a gestire l’immigrazione”. Pensare, insomma, a lungo termine ad attrarre in Italia giovani con voglia di crescita e di futuro, formarli, dare loro prospettive di avvenire.

Ancora Profumo: “La questione demografica, come quella immigratoria e l’istruzione sono centrali per il futuro. Ma i partiti vogliono avere dei risultati immediati. E questo certamente non aiuta l’Italia”.

Siamo “un Paese inconsapevole delle dinamiche che governano il mondo”, sostiene Luca De Biase (Il Sole24Ore, 8 aprile. Un Paese, cioè, disattento all’innovazione, poco sensibile alle sfide di una modernità oggi nel cuore di una intensa e impetuosa “metamorfosi” da twin transition, ambientale e digitale.

La creatività e l’intraprendenza innovativa, qualità italiane ben emerse dal boom economico al dinamismo degli anni Ottanta, dagli impegni per l’Europa e l’euro allo slancio di risposta post pandemia da Covid19 rischiano oggi di essere frustrate proprio dalla caduta di fiducia e dalle carenze formative e culturali che investono le nuove generazioni.

Abbiamo dunque bisogno di formazione secondo valori e criteri da “cultura politecnica” che mescoli saperi umanistici e conoscenze scientifiche, di multidisciplinarietà tra cyberscienziati, filosofi, matematici, giuristi e sociologhi per scrivere le nuove “mappe degli algoritmi” dell’Intelligenza artificiale. Di intelligenze tecniche, progettuali e creative, dalla manifattura ai servizi. E di un’educazione a una coscienza critica e propositiva per le smart cities e per tutte le nuove declinazioni dell’economia circolare e civile, fondata sulla sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.

Serve, insomma, ricostruire “l’idea di futuro”. E tornare a rendere possibile l’innovazione. La buona politica sta tutta qua.

(foto Getty Images)

Il rischio che corre l’Italia, paese creativo e ancora capace di sorprendenti riprese, è ritrovarsi a corto di risorse essenziali per lo sviluppo: le persone. I giovani, soprattutto. Ci avviamo verso un “inverno demografico”, con un crollo della natalità e un crescente invecchiamento della popolazione. Una vera e propria “decrescita infelice”. E subiamo una crisi già acuta della formazione, particolarmente grave man mano che la competizione e la qualità della crescita economica e sociale sono fortemente segnate dal primato della “economia della conoscenza”. Le sfide della cosiddetta “economia digitale” e della diffusione dell’Intelligenza Artificiale chiedono persone dotate di un robusto bagaglio culturale critico. Ma, per numero di laureati, siamo in coda alle classifiche Ue. E, nei prossimi anni, ne avremo sempre meno. Il declino, dunque, è inevitabile? Non saremo più capaci di scrivere “una storia al futuro”?

Per capire meglio, guardiamo alcuni numeri, ricavati dai recenti dati diffusi dall’Istat (Il Sole24Ore e La Stampa, 8 aprile). Nel ’22, per la prima volta dall’Unità d’Italia, sono nati meno di 400mila bambini (393mila, per l’esattezza), con 713mila decessi. In sintesi: ogni mille abitanti abbiamo avuto 7 neonati e 13 morti, quasi il doppio, cioè.

In cinque anni, l’Italia ha perso un milione di abitanti, scendendo sotto quota 59 milioni (con il Sud devastato da una emigrazione crescente: 629mila abitanti in meno dal 2018). Ed è invecchiato: l’età media è di 46 anni, gli over 65 sono più di 14 milioni e costituiscono il 24% della popolazione (dopo il Giappone, insomma, siamo il paese più vecchio del mondo).

“L’Italia sta scomparendo”, ha twittato, catastrofico, Elon Musk. Più meditativo e responsabile Giuseppe De Rita, presidente del Censis, l’istituto di ricerca più sensibile alle mutazioni sociali: “Siamo un Paese senza un’idea di futuro, senza motivazioni, senza obiettivi. I ragazzi non solo non fanno figli, ma nemmeno si sposano più. Non si pongono almeno un traguardo minimo nel fare famiglia” (Corriere della Sera, 8 aprile). Precarietà del lavoro per gran parte delle nuove generazioni, alto costo della vita nelle grandi città, scarsa diffusione dei servizi per la famiglia (scuole, asili nido, etc.) e disattenzione per l’impegno lavorativo femminile sono tra le cause della sfiducia diffusa.

Una sintesi di problemi e prospettive sta nelle parole di Chiara Saraceno, sociologa attenta ai temi delle disuguaglianze: “Sostenere le scelte positive di fecondità implica impegnarsi in politiche integrate e continuative che consentono ai giovani di poter pensare con ragionevole fiducia al futuro e creino contesti accoglienti sia per chi nasce e cresce, sia per chi mette al mondo”.

I confronti internazionali mostrano che “in Europa i tassi di fecondità più alti (anche se per lo più al di sotto del livello di riproduzione), perciò anche un minore squilibrio tra le varie fasce di età, si trovano nei paesi che offrono maggiori opportunità ai giovani, che sono meglio dotati di servizi, insieme più accoglienti per i bambini fin dalla nascita e più amichevoli nei confronti delle lavoratrici madri. I trasferimenti monetari sono importanti, se continuativi e di importo significativo, ma meno dei servizi educativi per la prima infanzia, del sostegno all’uguaglianza di genere, delle politiche di conciliazione”.

Abbiamo, insomma, un problema demografico, di tenuta del tessuto sociale e di riforme. Ma anche di qualità e formazione delle risorse umane e dunque di produttività e competitività dell’economia, dall’industria ai servizi. “Tra vent’anni avremo solo 80mila laureati”, calcola con grande preoccupazione Francesco Profumo, presidente della Compagnia di San Paolo ed ex ministro dell’Università e dell’Istruzione (nel governo Monti) ed ex presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Il conto è presto fatto. Agli esami di maturità di quest’anno avremo circa 500mila studenti (nati prevalentemente nel 2004). Ma in quel 2004, gli studenti della maturità erano 800mila. In quasi vent’anni, insomma, quella popolazione studentesca si è poco meno che dimezzata. Dei 500mila studenti attuali, il 60% si iscriverà all’università, 300mila, dunque. E solo il 60% si laureerà tra quattro, cinque anni: 180mila. Continuando questa tendenza, dei 390mila bambini nati quest’anno, nel 2041 faranno la maturità in 240mila. 140mila andranno all’università. E 80mila si laureeranno. Troppo pochi, appunto.

Che fare? Insistere su nuove politiche demografiche, sapendo che però il loro corso, per dare risultati, sarà ventennale. E intanto, spiega Profumo, “imparare a gestire l’immigrazione”. Pensare, insomma, a lungo termine ad attrarre in Italia giovani con voglia di crescita e di futuro, formarli, dare loro prospettive di avvenire.

Ancora Profumo: “La questione demografica, come quella immigratoria e l’istruzione sono centrali per il futuro. Ma i partiti vogliono avere dei risultati immediati. E questo certamente non aiuta l’Italia”.

Siamo “un Paese inconsapevole delle dinamiche che governano il mondo”, sostiene Luca De Biase (Il Sole24Ore, 8 aprile. Un Paese, cioè, disattento all’innovazione, poco sensibile alle sfide di una modernità oggi nel cuore di una intensa e impetuosa “metamorfosi” da twin transition, ambientale e digitale.

La creatività e l’intraprendenza innovativa, qualità italiane ben emerse dal boom economico al dinamismo degli anni Ottanta, dagli impegni per l’Europa e l’euro allo slancio di risposta post pandemia da Covid19 rischiano oggi di essere frustrate proprio dalla caduta di fiducia e dalle carenze formative e culturali che investono le nuove generazioni.

Abbiamo dunque bisogno di formazione secondo valori e criteri da “cultura politecnica” che mescoli saperi umanistici e conoscenze scientifiche, di multidisciplinarietà tra cyberscienziati, filosofi, matematici, giuristi e sociologhi per scrivere le nuove “mappe degli algoritmi” dell’Intelligenza artificiale. Di intelligenze tecniche, progettuali e creative, dalla manifattura ai servizi. E di un’educazione a una coscienza critica e propositiva per le smart cities e per tutte le nuove declinazioni dell’economia circolare e civile, fondata sulla sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo.

Serve, insomma, ricostruire “l’idea di futuro”. E tornare a rendere possibile l’innovazione. La buona politica sta tutta qua.

(foto Getty Images)

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