I valori del patrimonio industriale per sviluppare conoscenze high tech e una migliore competitività
L’industria italiana, in tempi così controversi di crisi e metamorfosi, prova a scrivere i nuovi itinerari di una migliore “storia al futuro”. Fa leva sul patrimonio di idee, conoscenze, esperienze, per ridefinire i cardini della competitività. Insiste sulla forza di un “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale”. E usa una parola che sa di antico, heritage, eredità, per ragionare su come costruire più solide radici produttive, nella stagione della “ri-globalizzazione selettiva” (ne abbiamo parlato in blog precedenti), in mercati diventati più esigenti e severi. L’industria, dunque, è di fronte a una vera e propria sfida culturale, innanzitutto.
Ecco la prospettiva su cui soffermarsi: “l’avvenire della memoria”, nella relazione critica tra la consapevolezza della storia e la volontà di costruzione di un’innovazione sostenibile. La responsabilità di tutte le donne e gli uomini d’impresa e dunque di cultura politecnica, sta nell’investire sul nostro patrimonio (luoghi, prodotti e processi produttivi, tecniche di ricerca e lavoro, brevetti, relazioni industriali, rapporti di mercato, linguaggi) e farne leva di competitività e di sviluppo sostenibile ambientale e sociale. Gli “Stati Generali del Patrimonio Industriale”, organizzati a Roma dal 9 all’11 giugno da Aipai, Ticcih (The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage) e Museimpresa, sono un appuntamento fondamentale di questo impegno, con un rapporto essenziale tra il mondo universitario e quello della cultura d’impresa, tra la storia e il futuro. Dando alla nostalgia il posto che le spetta e riducendo al minimo gli spazi per la “retrotopia”, l’illusione, così ben individuata da Zygmunt Bauman, di chi idealizza il passato come tempo più rassicurante ed è incapace di guardare ai tempi in arrivo “con speranza e fiducia”.
Che ruolo ha, dunque, la conoscenza storica nella cultura d’impresa? E come legarla alle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la crescita? Perché, insomma, investire sulla valorizzazione del patrimonio industriale e sui musei e gli archivi d’impresa?
Una prima risposta la si può trovare nelle parole di Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del Novecento: “Essere stati è una condizione per essere”. Storia con l’attenzione rivolta al futuro.
Ci si può affidare anche alle pagine di Edmondo Berselli, straordinario scrittore capace di mescolare l’osservazione politica e sociale allo sguardo ironico su costumi e culture del quotidiano: “La vita va salvata per intero e c’è un unico modo per farlo: riscrivendola, trasfigurando sulla pagina il suo respiro. Rianimandola di continuo, grazie all’uso della memoria”. Dopo la sua prematura scomparsa, nel 2010, restano sempre forti, di lui, i ricordi e la sapienza dei buoni libri: “E’ un principio dell’ermeneutica: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista, quindi cambia anche il testo”. E proprio così quel testo, il testo della vita vissuta, dell’esperienza, della conoscenza e dunque della storia, continua a vivere.
La memoria sfida il tempo e costruisce le basi del futuro. L’avvenire della memoria si svela come l’opposto del suo apparente ossimoro. E trova posto nel mondo dell’innovazione, delle radicali trasformazioni che innervano l’economia, le relazioni di produzione e consumo, l’industria.
I musei e gli archivi storici delle imprese riuniti in Museimpresa, l’associazione nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, ne offrono testimonianze esemplari.
Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, proprio qui in Italia, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi.Una cultura trasformativa.
Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono, appunto, luoghi paradigmatici. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle competenze, tra ingegneria e filosofia, meccatronica e sociologia, economia e neuroscienze, ridisegnando così nuove mappe del sapere e del fare.
Sono proprio queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, tra conseguenze del Climate change, pandemia, recessione e guerra.
C’è, appunto, una grande capacità produttiva su cui fare leva per competere in condizioni migliori, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».
È da qui che si può ricominciare. Da una civiltà urbana che segue il cambiamento e si mette in relazione più equilibrata con il suo territorio. E da un’industria che affonda le radici della propria competitività internazionale nella sapienza dei territori. Eredità industriale e sguardo al futuro.
I musei e gli archivi d’impresa e le associazioni culturali e accademiche che si occupano di patrimonio industriale mostrano, in questo contesto, dimensioni e peculiarità specifiche. Sono luoghi di conservazione della Storia che si racconta attraverso prodotti, immagini, documenti, brevetti, contratti di lavoro, disegni tecnici, etc. Testimoniano le relazioni tra le manifatture e i territori circostanti, nascono all’interno di un percorso imprenditoriale e raccontano il passato in funzione dell’innovazione.
Alla base, c’è la consapevolezza del legame forte tra il patrimonio culturale e l’attitudine a costruire, nelle imprese, lavoro, benessere, inclusione sociale. Si testimonia, attraverso oggetti e documenti, che c’è una profonda cultura del “saper fare, e fare bene” e che la cultura materiale (come hanno insegnato gli storici riuniti attorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale in Francia) è un aspetto fondamentale della storia e della cultura generale. Storia, dunque, in quanto storia della fabbrica, del produrre, dei servizi, delle relazioni dentro le trasformazioni economiche e sociali.
Una testimonianza cardine è quella del design. Qualità, bellezza, funzionalità, distintività. Perché in un oggetto di design, in un robot industriale, in una componente del vasto mondo dell’automotive e dell’industria aeronautica, meccatronica, chimica e della gomma c’è sempre anche l’immagine del Paese e delle sue molteplici qualità.
Gio Ponti, architetto e designer italiano fra i più importanti del dopoguerra, progettista del Grattacielo Pirelli (da oltre sessant’anni simbolo della più dinamica identità industriale italiana) sintetizza il fenomeno con poche e decisive parole: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ed è per questo che l’industria è un fatto culturale”. Ecco perché il patrimonio industriale e i musei d’impresa, con i luoghi, gli oggetti e i documenti che custodiscono e valorizzano, finiscono con il diventare ambasciatori dello stile italiano nel mondo. E dunque asset di competitività.
L’industria italiana, in tempi così controversi di crisi e metamorfosi, prova a scrivere i nuovi itinerari di una migliore “storia al futuro”. Fa leva sul patrimonio di idee, conoscenze, esperienze, per ridefinire i cardini della competitività. Insiste sulla forza di un “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale”. E usa una parola che sa di antico, heritage, eredità, per ragionare su come costruire più solide radici produttive, nella stagione della “ri-globalizzazione selettiva” (ne abbiamo parlato in blog precedenti), in mercati diventati più esigenti e severi. L’industria, dunque, è di fronte a una vera e propria sfida culturale, innanzitutto.
Ecco la prospettiva su cui soffermarsi: “l’avvenire della memoria”, nella relazione critica tra la consapevolezza della storia e la volontà di costruzione di un’innovazione sostenibile. La responsabilità di tutte le donne e gli uomini d’impresa e dunque di cultura politecnica, sta nell’investire sul nostro patrimonio (luoghi, prodotti e processi produttivi, tecniche di ricerca e lavoro, brevetti, relazioni industriali, rapporti di mercato, linguaggi) e farne leva di competitività e di sviluppo sostenibile ambientale e sociale. Gli “Stati Generali del Patrimonio Industriale”, organizzati a Roma dal 9 all’11 giugno da Aipai, Ticcih (The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage) e Museimpresa, sono un appuntamento fondamentale di questo impegno, con un rapporto essenziale tra il mondo universitario e quello della cultura d’impresa, tra la storia e il futuro. Dando alla nostalgia il posto che le spetta e riducendo al minimo gli spazi per la “retrotopia”, l’illusione, così ben individuata da Zygmunt Bauman, di chi idealizza il passato come tempo più rassicurante ed è incapace di guardare ai tempi in arrivo “con speranza e fiducia”.
Che ruolo ha, dunque, la conoscenza storica nella cultura d’impresa? E come legarla alle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la crescita? Perché, insomma, investire sulla valorizzazione del patrimonio industriale e sui musei e gli archivi d’impresa?
Una prima risposta la si può trovare nelle parole di Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del Novecento: “Essere stati è una condizione per essere”. Storia con l’attenzione rivolta al futuro.
Ci si può affidare anche alle pagine di Edmondo Berselli, straordinario scrittore capace di mescolare l’osservazione politica e sociale allo sguardo ironico su costumi e culture del quotidiano: “La vita va salvata per intero e c’è un unico modo per farlo: riscrivendola, trasfigurando sulla pagina il suo respiro. Rianimandola di continuo, grazie all’uso della memoria”. Dopo la sua prematura scomparsa, nel 2010, restano sempre forti, di lui, i ricordi e la sapienza dei buoni libri: “E’ un principio dell’ermeneutica: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista, quindi cambia anche il testo”. E proprio così quel testo, il testo della vita vissuta, dell’esperienza, della conoscenza e dunque della storia, continua a vivere.
La memoria sfida il tempo e costruisce le basi del futuro. L’avvenire della memoria si svela come l’opposto del suo apparente ossimoro. E trova posto nel mondo dell’innovazione, delle radicali trasformazioni che innervano l’economia, le relazioni di produzione e consumo, l’industria.
I musei e gli archivi storici delle imprese riuniti in Museimpresa, l’associazione nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, ne offrono testimonianze esemplari.
Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, proprio qui in Italia, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi.Una cultura trasformativa.
Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono, appunto, luoghi paradigmatici. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle competenze, tra ingegneria e filosofia, meccatronica e sociologia, economia e neuroscienze, ridisegnando così nuove mappe del sapere e del fare.
Sono proprio queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, tra conseguenze del Climate change, pandemia, recessione e guerra.
C’è, appunto, una grande capacità produttiva su cui fare leva per competere in condizioni migliori, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».
È da qui che si può ricominciare. Da una civiltà urbana che segue il cambiamento e si mette in relazione più equilibrata con il suo territorio. E da un’industria che affonda le radici della propria competitività internazionale nella sapienza dei territori. Eredità industriale e sguardo al futuro.
I musei e gli archivi d’impresa e le associazioni culturali e accademiche che si occupano di patrimonio industriale mostrano, in questo contesto, dimensioni e peculiarità specifiche. Sono luoghi di conservazione della Storia che si racconta attraverso prodotti, immagini, documenti, brevetti, contratti di lavoro, disegni tecnici, etc. Testimoniano le relazioni tra le manifatture e i territori circostanti, nascono all’interno di un percorso imprenditoriale e raccontano il passato in funzione dell’innovazione.
Alla base, c’è la consapevolezza del legame forte tra il patrimonio culturale e l’attitudine a costruire, nelle imprese, lavoro, benessere, inclusione sociale. Si testimonia, attraverso oggetti e documenti, che c’è una profonda cultura del “saper fare, e fare bene” e che la cultura materiale (come hanno insegnato gli storici riuniti attorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale in Francia) è un aspetto fondamentale della storia e della cultura generale. Storia, dunque, in quanto storia della fabbrica, del produrre, dei servizi, delle relazioni dentro le trasformazioni economiche e sociali.
Una testimonianza cardine è quella del design. Qualità, bellezza, funzionalità, distintività. Perché in un oggetto di design, in un robot industriale, in una componente del vasto mondo dell’automotive e dell’industria aeronautica, meccatronica, chimica e della gomma c’è sempre anche l’immagine del Paese e delle sue molteplici qualità.
Gio Ponti, architetto e designer italiano fra i più importanti del dopoguerra, progettista del Grattacielo Pirelli (da oltre sessant’anni simbolo della più dinamica identità industriale italiana) sintetizza il fenomeno con poche e decisive parole: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ed è per questo che l’industria è un fatto culturale”. Ecco perché il patrimonio industriale e i musei d’impresa, con i luoghi, gli oggetti e i documenti che custodiscono e valorizzano, finiscono con il diventare ambasciatori dello stile italiano nel mondo. E dunque asset di competitività.