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I valori dell’informazione per imprese e mercati e la responsabilità di formare giovani giornalisti

Alle imprese serve una buona informazione. Libera, indipendente, di qualità e dunque autorevole, capace di “dare voce a chi voce non ha”, di rappresentare, di fronte ai decisori politici e ai protagonisti dei vari poteri, i valori e gli interessi di cui si nutre una “società aperta”, una democrazia liberale. E, naturalmente, di dare spazio critico ai valori di chi intraprende, stimola ricerca e innovazione, costruisce lavoro e benessere, si rivela fattore di cambiamento. Perché i mercati su cui le imprese competono vivono di fiducia, basata appunto sulla possibilità di verificare fatti, dati, indicazioni secondo cui orientare gli investimenti e le scelte di produzione e consumo. Perché le “asimmetrie informative” sono nemiche di una competizione efficace. E perché l’incrocio tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, interessi individuali e visioni generali, di cui appunto vive l’impresa, ha bisogno di luoghi e spazi in cui fare crescere il confronto delle idee, esprimere critiche, orientare in modo trasparente i giudizi.

Dette così, sono parole di buona teoria politica generale, solide nel corso del tempo, valide per tutti i processi politici, economici e culturali in cui siamo abituati a vivere.
Democrazia, concorrenza, libertà d’impresa, sostenibilità ambientale e sociale si tengono insieme. E non c’è sviluppo economico che possa essere pensato fuori dai binari su cui viaggiano i valori democratici, le strutture del welfare, la ricerca scientifica, i più equilibrati rapporti sociali. L’intera cultura politica europea e occidentale del Novecento ne è ricca di testimonianze.

Ma su queste parole è indispensabile insistere, ancora una volta, proprio nei nostri tempi così controversi e contraddittori, animati da drammatiche tensioni geopolitiche e avviliti dalla prepotenza di tentazioni autoritarie, ascoltate teorie sulle “democrazie illiberali”, derive populiste e inquietanti diffusioni di fake news, fattoidi e post-verità. E in cui la straordinaria, rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi processi creativi non solo incide profondamente sulla rappresentazione della realtà ma può “crearla”, costruendo discorsi e immagini fake ma all’apparenza reali e in grado di condizionare radicalmente giudizi politici, orientamenti culturali, costumi e consumi. Una “verità artificiale” che inquina la vita reale.

E’ utile, per riflettere su questo stato di cose, il giudizio di un uomo d’impresa, Marco Tronchetti Provera, leader della Pirelli, che da quest’anno è sostenitrice del “Premiolino”, antico e prestigioso riconoscimento per le migliori “firme” del giornalismo italiano: “Nel mondo di oggi avere ancora il senso del valore della firma di chi scrive, di chi dà una notizia ma anche la sua interpretazione, credo che sia un cardine per la democrazia”. E dunque, “se noi terremo in futuro al centro della nostra attenzione le firme, il valore del giornalista, la sua formazione culturale e daremo spazio ai giovani perché possano crescere, garantiremo che si possa continuare a essere un paese libero. E’ un tema non solo italiano, ma che esiste un po’ ovunque”.

Puntare sui giovani giornalisti è una scelta strategica. Nonostante la crisi della stampa, insiste Tronchetti, “l’informazione è valorizzata dalle persone che guardano i fatti, cercano di capirli e li raccontano, sui giornali, in Tv e sugli altri media”. Da formare e fare crescere, “per continuare a garantire, nel corso del tempo, a chi legge la possibilità di farsi un’opinione”.
Il “Premiolino”, presieduto da Chiara Beria di Argentine, da questo punto di vista, non è solo un premio. Ma anche l’occasione per fare il punto, anno dopo anno, sullo stato di salute dell’informazione e ribadire i fondamenti del rapporto tra libertà di stampa e democrazia, con un occhio attento pure all’importanza dell’informazione qualificata rispetto all’economia, alla finanza, al lavoro e alla trasparenza del mercato (i sostenitori iniziali del premio, alla sua nascita, nel 1960, erano due imprenditori milanesi con una solida cultura di valori pubblici, Piero e Giansandro Bassetti).

Tra i riferimenti culturali e istituzionali che hanno caratterizzato l’ultima edizione (con la premiazione dei vincitori, il 2 ottobre scorso, al Piccolo Teatro di Milano), accanto all’articolo 21 della Costituzione italiana (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”) e al 1°Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (“Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti”), sono risuonate le parole di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Usa, in una lettera del 1787 all’amico Edward Carrington.
Parole considerate un vero e proprio cardine della libertà d’informazione per una comunità democratica. Eccole: “Sono persuaso che il buon senso delle persone sarà sempre considerato il miglior esercito. Potrebbero essere in errore per un lasso di tempo, ma presto finiranno per correggersi. Il popolo è l’unico censore dei suoi governanti: e anche gli errori terranno questi ultimi più stretti ai principi della loro istituzione. Punire questi errori in maniera troppo severa significherebbe sopprimere l’unica salvaguardia della libertà pubblica”. Dunque, insiste Jefferson, “il modo per prevenire queste interposizioni irregolari è fornire alle persone di informazioni complete sui loro affari attraverso il canale dei giornali pubblici e fare in modo che quei giornali si diffondano a tutte le masse”.
La conclusione è netta: “Le fondamenta dei nostri governi sono le opinioni della gente, il primo obiettivo dovrebbe essere quello di mantenere questo diritto; e se toccasse a me decidere se dovremmo avere un governo senza giornali o i giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire la seconda ipotesi”.

Alle imprese serve una buona informazione. Libera, indipendente, di qualità e dunque autorevole, capace di “dare voce a chi voce non ha”, di rappresentare, di fronte ai decisori politici e ai protagonisti dei vari poteri, i valori e gli interessi di cui si nutre una “società aperta”, una democrazia liberale. E, naturalmente, di dare spazio critico ai valori di chi intraprende, stimola ricerca e innovazione, costruisce lavoro e benessere, si rivela fattore di cambiamento. Perché i mercati su cui le imprese competono vivono di fiducia, basata appunto sulla possibilità di verificare fatti, dati, indicazioni secondo cui orientare gli investimenti e le scelte di produzione e consumo. Perché le “asimmetrie informative” sono nemiche di una competizione efficace. E perché l’incrocio tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, interessi individuali e visioni generali, di cui appunto vive l’impresa, ha bisogno di luoghi e spazi in cui fare crescere il confronto delle idee, esprimere critiche, orientare in modo trasparente i giudizi.

Dette così, sono parole di buona teoria politica generale, solide nel corso del tempo, valide per tutti i processi politici, economici e culturali in cui siamo abituati a vivere.
Democrazia, concorrenza, libertà d’impresa, sostenibilità ambientale e sociale si tengono insieme. E non c’è sviluppo economico che possa essere pensato fuori dai binari su cui viaggiano i valori democratici, le strutture del welfare, la ricerca scientifica, i più equilibrati rapporti sociali. L’intera cultura politica europea e occidentale del Novecento ne è ricca di testimonianze.

Ma su queste parole è indispensabile insistere, ancora una volta, proprio nei nostri tempi così controversi e contraddittori, animati da drammatiche tensioni geopolitiche e avviliti dalla prepotenza di tentazioni autoritarie, ascoltate teorie sulle “democrazie illiberali”, derive populiste e inquietanti diffusioni di fake news, fattoidi e post-verità. E in cui la straordinaria, rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi processi creativi non solo incide profondamente sulla rappresentazione della realtà ma può “crearla”, costruendo discorsi e immagini fake ma all’apparenza reali e in grado di condizionare radicalmente giudizi politici, orientamenti culturali, costumi e consumi. Una “verità artificiale” che inquina la vita reale.

E’ utile, per riflettere su questo stato di cose, il giudizio di un uomo d’impresa, Marco Tronchetti Provera, leader della Pirelli, che da quest’anno è sostenitrice del “Premiolino”, antico e prestigioso riconoscimento per le migliori “firme” del giornalismo italiano: “Nel mondo di oggi avere ancora il senso del valore della firma di chi scrive, di chi dà una notizia ma anche la sua interpretazione, credo che sia un cardine per la democrazia”. E dunque, “se noi terremo in futuro al centro della nostra attenzione le firme, il valore del giornalista, la sua formazione culturale e daremo spazio ai giovani perché possano crescere, garantiremo che si possa continuare a essere un paese libero. E’ un tema non solo italiano, ma che esiste un po’ ovunque”.

Puntare sui giovani giornalisti è una scelta strategica. Nonostante la crisi della stampa, insiste Tronchetti, “l’informazione è valorizzata dalle persone che guardano i fatti, cercano di capirli e li raccontano, sui giornali, in Tv e sugli altri media”. Da formare e fare crescere, “per continuare a garantire, nel corso del tempo, a chi legge la possibilità di farsi un’opinione”.
Il “Premiolino”, presieduto da Chiara Beria di Argentine, da questo punto di vista, non è solo un premio. Ma anche l’occasione per fare il punto, anno dopo anno, sullo stato di salute dell’informazione e ribadire i fondamenti del rapporto tra libertà di stampa e democrazia, con un occhio attento pure all’importanza dell’informazione qualificata rispetto all’economia, alla finanza, al lavoro e alla trasparenza del mercato (i sostenitori iniziali del premio, alla sua nascita, nel 1960, erano due imprenditori milanesi con una solida cultura di valori pubblici, Piero e Giansandro Bassetti).

Tra i riferimenti culturali e istituzionali che hanno caratterizzato l’ultima edizione (con la premiazione dei vincitori, il 2 ottobre scorso, al Piccolo Teatro di Milano), accanto all’articolo 21 della Costituzione italiana (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”) e al 1°Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (“Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti”), sono risuonate le parole di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Usa, in una lettera del 1787 all’amico Edward Carrington.
Parole considerate un vero e proprio cardine della libertà d’informazione per una comunità democratica. Eccole: “Sono persuaso che il buon senso delle persone sarà sempre considerato il miglior esercito. Potrebbero essere in errore per un lasso di tempo, ma presto finiranno per correggersi. Il popolo è l’unico censore dei suoi governanti: e anche gli errori terranno questi ultimi più stretti ai principi della loro istituzione. Punire questi errori in maniera troppo severa significherebbe sopprimere l’unica salvaguardia della libertà pubblica”. Dunque, insiste Jefferson, “il modo per prevenire queste interposizioni irregolari è fornire alle persone di informazioni complete sui loro affari attraverso il canale dei giornali pubblici e fare in modo che quei giornali si diffondano a tutte le masse”.
La conclusione è netta: “Le fondamenta dei nostri governi sono le opinioni della gente, il primo obiettivo dovrebbe essere quello di mantenere questo diritto; e se toccasse a me decidere se dovremmo avere un governo senza giornali o i giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire la seconda ipotesi”.

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