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Il doppio volto dell’Italia: è malinconica, ma soprattutto vitale per il boom dell’industria

Un’Italia malinconica. Ma anche vitalista, energica, capace di orgogliosi scatti in avanti dell’economia. In disagio e in declino, a cominciare da quello demografico, troppi anziani in difficoltà, pochi giovani energici. Eppure capace di meritarsi un “10,9 e lode”, per trasformare in un voto la percentuale di crescita del Pil nel biennio ‘20-‘21, la migliore del G7, i grandi dell’economia mondiale. Roba che non si vedeva dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto sorprendente da essere definito “miracolo”. Di cosa parliamo, allora, quando cerchiamo di raccontare il nostro Paese? Il ritratto è ambiguo, ambivalente, contrastato. Ma certo tanto complesso da non meritare di essere schiacciato solo sui toni cupi dell’incertezza, della paura, delle preoccupazioni per le bollette dell’energia, l’inflazione, la recessione, le difficoltà per il lavoro e il reddito, l’insieme delle ombre che fanno temere, agli economisti, di essere entrati “nell’era della grande stagflazione” (ne parla Nouriel Roubini su “IlSole24Ore” del 9 dicembre, legando i rischi dell’incrocio tra inflazione e stagnazione economica, la palude in cui l’economia non cresce e i prezzi aumentano, aggravando così l’impoverimento diffuso).

Italia in crisi, dunque? Certo. A patto, però, di considerare il reale significato della parola “crisi”, che condensa i segni del pericolo e delle opportunità. In sintesi: un’Italia che, nonostante tutto, vuole recuperare fiducia. In un migliore futuro. Soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni.

Partiamo dalla malinconia, allora, dalla parola chiave dei 56° rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana, da gran tempo il termometro migliore sugli umori e le tendenze degli italiani (altri osservatori e investigatori sociali, sui media, parlano di “risacca”, “nostalgia” o perfino di “vita agra”, rispolverando le suggestioni di un grande scrittore come Luciano Bianciardi).

Sono malinconici soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati (sempre più infastiditi dal dover sopportare gran parte del carico fiscale per finanziare servizi pubblici e welfare di tutti gli altri italiani, evasori fiscali compresi) ma anche gli imprenditori seri e i lavoratori autonomi che non fatto i furbi con le regole e il fisco. Il nucleo del “ceto medio” impoverito e in difficoltà, l’asse portante del capitale sociale positivo e, naturalmente, della stessa democrazia.

Secondo il Censis, l’89,7% degli italiani prova “tristezza” dopo Covid, guerra e crisi ambientale, il 59% teme che la guerra in Ucraina porti all’uso della bomba atomica, il 58% si sente stanco per l’uso continuo dei dispositivi digitali, mentre l’85% delle donne pensa che la violenza contro di loro sia aumentata. Non sembra che si sia “sull’orlo di una crisi di nervi” né è più dominante quel “rancore” che aveva segnato i Rapporti Censis degli anni precedenti.

C’è semmai una “ritrazione silenziosa” rispetto ai valori e ai legami sociali (come conferma il fatto che un italia non su due non vada più a votare). E un disincanto per i miti della demagogia populista e della comunicazione di massa sulla bella vita: l’83% non è disposto a “fare sacrifici per seguire gli influencer” (ben venga finalmente, il loro tramonto…), l’81% rifiuta i sacrifici “per seguire la moda” e il 63,5% quelli per “sembrare più giovani”. Meno apparenza, più sostanza, proprio in tempi di crisi, sembra dire la stragrande maggioranza degli italiani. Meno chiacchiere, più scelte politiche, culturali ed economiche serie e responsabili. Che si sia alle soglie, proprio grazie alla crisi, di una straordinaria svolta di consapevolezza per la qualità di vita, lavoro, futuro? Si può sperare.

Malinconia, d’altronde, non vuol dire depressione. Né angoscia. Semmai, indica un disagio che si intende superare. Come spiega bene (“La Stampa”, 3 dicembre) uno scrittore acuto e brillante, Diego De Silva, che del suo personaggio, l’avvocato Malinconico (di nome e di fatto), ha fatto un eroe di successo di romanzi e serie Tv: “La malinconia, come ben sanno quelli che ce l’hanno in dotazione, non è incompatibile con la speranza”.

Guardiamoli, allora, i dati sulla speranza. Cominciando proprio con quell’incremento del Pil nel biennio post Covid del 10,9% (stando agli incrementi registrati nel terzo trimestre ‘22: se ci fosse un dato negativo dell’ultimo trimestre, per effetto del boom dei prezzi dell’energia, sino a -1,5%, si arriverebbe comunque a un biennio positivo del 10,4%).

Non un semplice “rimbalzo”, dunque, dopo il crollo del 2020, l’anno del Covid e dei lockdown, ma una vera e propria crescita, con caratteristiche di forza strutturale della nostra economia. La spinta del ‘21, con il Pil in crescita del 6,7%, è stata determinata in gran parte dall’industria manifatturiera e dall’export; nel ‘22 hanno giocato in positivo i servizi (a cominciare dal turismo) e le costruzioni.

“La rivincita del modello italiano: industria 4.0 innovativa e digitale, filiere produttive corte, diversificazione dei prodotti: ecco le ragioni che fanno volare l’export. L’economia nazionale degli ultimi 6 o 7 anni non è più quella che ha stentato sino al 2015”, spiega Marco Fortis, professore di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano e direttore della Fondazione Edison (“Il Foglio”, 5 dicembre), spiegando come gli imprenditori, dopo la Grande Crisi del 2008, hanno saputo usare con intelligenza e intraprendenza gli stimoli fiscali del Piano Industria 4.0 (voluti soprattutto dai governi Renzi e Letta, con impulso determinante dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) per investire in macchinari, transizione digitale, innovazioni di processo e di prodotto, export, qualità, per rafforzare produttività e competitività e guidare così la crescita del Paese.

La nostra industria, insomma, è stata motore di sviluppo. E ha stimolato pure tutti i servizi collegati, logistica, ricerca, finanza, etc. Confermando i nostri primati manifatturieri in Europa e nel mondo.

Analoghi risultati emergono anche da altri studi: dal “campioni della crescita” censiti dal “Corriere della Sera” e raccontati durante i “Festival Città Impresa” di Italy Post al “Rapporto Controvento” di Nomisma (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 12 dicembre) sulle 5.198 migliori aziende manifatturiere italiane dette, appunto, “le fabbriche del Pil”: “L’industria italiana ha capacità, creatività e storia”, conferma Alberto Vacchi che, con la sua Ima, meccatronica d’avanguardia, è tra le migliori imprese multinazionali del Paese.

Nel caos globale degli scambi, in stagioni complesse di reshoring (si torna a produrre nel cuore dell’Europa industriale) e di twin transition, ambientale e digitale, le imprese italiane crescono bene, si rafforzano, sono uno straordinario capitale sociale che garantisce ricchezza, benessere, lavoro, strumenti per continuare a innovare a crescere.

Le indagini di Fortis per la Fondazione Edison mostrano come il buon governo sia essenziale. L’intelligenza economica e politica del governo Draghi, la ricostruzione di fiducia nello sviluppo sostenibile, l’autorevolezza internazionale acquisita per tutto il sistema Paese, lo sguardo lungo sulle trasformazioni necessaria sono state leve fondamentali per rafforzare questa nostra “Italia da 10,9 e lode” di cui stiamo parlando. Peccato, dunque, che improvvidamente e irresponsabilmente, nel luglio scorso, al governo Draghi sia stata staccata la spina, con una crisi che non è piaciuta affatto al mondo dell’impresa.

E adesso? Insiste Fortis: “E’ auspicabile che il nuovo governo Meloni non disperda il potenziale di  crescita e di competitività accumulato”. Appunto.

Un’Italia malinconica. Ma anche vitalista, energica, capace di orgogliosi scatti in avanti dell’economia. In disagio e in declino, a cominciare da quello demografico, troppi anziani in difficoltà, pochi giovani energici. Eppure capace di meritarsi un “10,9 e lode”, per trasformare in un voto la percentuale di crescita del Pil nel biennio ‘20-‘21, la migliore del G7, i grandi dell’economia mondiale. Roba che non si vedeva dai tempi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, tanto sorprendente da essere definito “miracolo”. Di cosa parliamo, allora, quando cerchiamo di raccontare il nostro Paese? Il ritratto è ambiguo, ambivalente, contrastato. Ma certo tanto complesso da non meritare di essere schiacciato solo sui toni cupi dell’incertezza, della paura, delle preoccupazioni per le bollette dell’energia, l’inflazione, la recessione, le difficoltà per il lavoro e il reddito, l’insieme delle ombre che fanno temere, agli economisti, di essere entrati “nell’era della grande stagflazione” (ne parla Nouriel Roubini su “IlSole24Ore” del 9 dicembre, legando i rischi dell’incrocio tra inflazione e stagnazione economica, la palude in cui l’economia non cresce e i prezzi aumentano, aggravando così l’impoverimento diffuso).

Italia in crisi, dunque? Certo. A patto, però, di considerare il reale significato della parola “crisi”, che condensa i segni del pericolo e delle opportunità. In sintesi: un’Italia che, nonostante tutto, vuole recuperare fiducia. In un migliore futuro. Soprattutto per quel che riguarda le nuove generazioni.

Partiamo dalla malinconia, allora, dalla parola chiave dei 56° rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana, da gran tempo il termometro migliore sugli umori e le tendenze degli italiani (altri osservatori e investigatori sociali, sui media, parlano di “risacca”, “nostalgia” o perfino di “vita agra”, rispolverando le suggestioni di un grande scrittore come Luciano Bianciardi).

Sono malinconici soprattutto i lavoratori dipendenti e i pensionati (sempre più infastiditi dal dover sopportare gran parte del carico fiscale per finanziare servizi pubblici e welfare di tutti gli altri italiani, evasori fiscali compresi) ma anche gli imprenditori seri e i lavoratori autonomi che non fatto i furbi con le regole e il fisco. Il nucleo del “ceto medio” impoverito e in difficoltà, l’asse portante del capitale sociale positivo e, naturalmente, della stessa democrazia.

Secondo il Censis, l’89,7% degli italiani prova “tristezza” dopo Covid, guerra e crisi ambientale, il 59% teme che la guerra in Ucraina porti all’uso della bomba atomica, il 58% si sente stanco per l’uso continuo dei dispositivi digitali, mentre l’85% delle donne pensa che la violenza contro di loro sia aumentata. Non sembra che si sia “sull’orlo di una crisi di nervi” né è più dominante quel “rancore” che aveva segnato i Rapporti Censis degli anni precedenti.

C’è semmai una “ritrazione silenziosa” rispetto ai valori e ai legami sociali (come conferma il fatto che un italia non su due non vada più a votare). E un disincanto per i miti della demagogia populista e della comunicazione di massa sulla bella vita: l’83% non è disposto a “fare sacrifici per seguire gli influencer” (ben venga finalmente, il loro tramonto…), l’81% rifiuta i sacrifici “per seguire la moda” e il 63,5% quelli per “sembrare più giovani”. Meno apparenza, più sostanza, proprio in tempi di crisi, sembra dire la stragrande maggioranza degli italiani. Meno chiacchiere, più scelte politiche, culturali ed economiche serie e responsabili. Che si sia alle soglie, proprio grazie alla crisi, di una straordinaria svolta di consapevolezza per la qualità di vita, lavoro, futuro? Si può sperare.

Malinconia, d’altronde, non vuol dire depressione. Né angoscia. Semmai, indica un disagio che si intende superare. Come spiega bene (“La Stampa”, 3 dicembre) uno scrittore acuto e brillante, Diego De Silva, che del suo personaggio, l’avvocato Malinconico (di nome e di fatto), ha fatto un eroe di successo di romanzi e serie Tv: “La malinconia, come ben sanno quelli che ce l’hanno in dotazione, non è incompatibile con la speranza”.

Guardiamoli, allora, i dati sulla speranza. Cominciando proprio con quell’incremento del Pil nel biennio post Covid del 10,9% (stando agli incrementi registrati nel terzo trimestre ‘22: se ci fosse un dato negativo dell’ultimo trimestre, per effetto del boom dei prezzi dell’energia, sino a -1,5%, si arriverebbe comunque a un biennio positivo del 10,4%).

Non un semplice “rimbalzo”, dunque, dopo il crollo del 2020, l’anno del Covid e dei lockdown, ma una vera e propria crescita, con caratteristiche di forza strutturale della nostra economia. La spinta del ‘21, con il Pil in crescita del 6,7%, è stata determinata in gran parte dall’industria manifatturiera e dall’export; nel ‘22 hanno giocato in positivo i servizi (a cominciare dal turismo) e le costruzioni.

“La rivincita del modello italiano: industria 4.0 innovativa e digitale, filiere produttive corte, diversificazione dei prodotti: ecco le ragioni che fanno volare l’export. L’economia nazionale degli ultimi 6 o 7 anni non è più quella che ha stentato sino al 2015”, spiega Marco Fortis, professore di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano e direttore della Fondazione Edison (“Il Foglio”, 5 dicembre), spiegando come gli imprenditori, dopo la Grande Crisi del 2008, hanno saputo usare con intelligenza e intraprendenza gli stimoli fiscali del Piano Industria 4.0 (voluti soprattutto dai governi Renzi e Letta, con impulso determinante dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda) per investire in macchinari, transizione digitale, innovazioni di processo e di prodotto, export, qualità, per rafforzare produttività e competitività e guidare così la crescita del Paese.

La nostra industria, insomma, è stata motore di sviluppo. E ha stimolato pure tutti i servizi collegati, logistica, ricerca, finanza, etc. Confermando i nostri primati manifatturieri in Europa e nel mondo.

Analoghi risultati emergono anche da altri studi: dal “campioni della crescita” censiti dal “Corriere della Sera” e raccontati durante i “Festival Città Impresa” di Italy Post al “Rapporto Controvento” di Nomisma (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 12 dicembre) sulle 5.198 migliori aziende manifatturiere italiane dette, appunto, “le fabbriche del Pil”: “L’industria italiana ha capacità, creatività e storia”, conferma Alberto Vacchi che, con la sua Ima, meccatronica d’avanguardia, è tra le migliori imprese multinazionali del Paese.

Nel caos globale degli scambi, in stagioni complesse di reshoring (si torna a produrre nel cuore dell’Europa industriale) e di twin transition, ambientale e digitale, le imprese italiane crescono bene, si rafforzano, sono uno straordinario capitale sociale che garantisce ricchezza, benessere, lavoro, strumenti per continuare a innovare a crescere.

Le indagini di Fortis per la Fondazione Edison mostrano come il buon governo sia essenziale. L’intelligenza economica e politica del governo Draghi, la ricostruzione di fiducia nello sviluppo sostenibile, l’autorevolezza internazionale acquisita per tutto il sistema Paese, lo sguardo lungo sulle trasformazioni necessaria sono state leve fondamentali per rafforzare questa nostra “Italia da 10,9 e lode” di cui stiamo parlando. Peccato, dunque, che improvvidamente e irresponsabilmente, nel luglio scorso, al governo Draghi sia stata staccata la spina, con una crisi che non è piaciuta affatto al mondo dell’impresa.

E adesso? Insiste Fortis: “E’ auspicabile che il nuovo governo Meloni non disperda il potenziale di  crescita e di competitività accumulato”. Appunto.

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