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Il futuro di Milano sta nel sentirsi più civitas contro squilibri economici e fratture sociali 

Per parlare del futuro di Milano, in una stagione di radicali mutamenti dei contesti geopolitici, economici e socio-culturali, potrebbe essere utile ricordare che gli antichi romani, per parlare di “città”, usavano due ben diverse parole: urbs e civitas. La prima indicava l’insieme degli edifici e delle infrastrutture, le strade e le piazze, i palazzi del potere pubblico e i teatri, i templi e i mercati. La seconda, invece, riguardava la dimensione dei cives, dei cittadini, considerati come comunità resa viva dall’insieme dei diritti e dei doveri, politici e personali, che avevano a che fare con la cittadinanza e il suo status giuridico.

I luoghi. E le regole, i vincoli comunitari, i progetti.

I mattoni. E l’equilibrio giuridico e culturale su cui fondare il futuro.

Il latino, si sa, è lingua “precisa, essenziale”, inadeguata “a demagoghi e ciarlatani”, come amava ricordare un acuto scrittore maestro d’ironia, Giovanni Guareschi. E quella distinzione tra urbs e civitas, tra i luoghi fisici e l’anima giuridica, politica e culturale, oggi ci suggerisce che serve rilanciare proprio lo spirito della convivenza, della comunità, dell’appartenenza civile, delle norme e dei pensieri comuni per cercare di evitare che i rischi di degrado che in tanti avvertiamo travolgano questa nostra città che è ancora, nonostante tutto, così aperta, innovativa, europea, densa di intraprendenza e, contemporaneamente, di spirito sociale solidale. Per bloccare cioè un destino di strade e piazze affollate da city users e sempre meno abitate da cives, da cittadini.

Il dibattito sul futuro di Milano si è intensificato, negli ultimi mesi, sia sui quotidiani più autorevoli sia sui social media. Riguarda questioni che sono, naturalmente, generali sulla qualità della vita e del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, comprese le europee Londra e Parigi. Ma investe e rischia di travolgere soprattutto alcune caratteristiche che hanno fatto, nel corso del tempo, proprio di Milano un caso molto particolare: una città che non è capitale ma ha una proiezione internazionale di primissimo piano, un contesto demografico tutto sommato di medie dimensioni (1,4 milioni di abitanti) ma ben più ampio per relazioni metropolitane e intrecci di affari e scambi, un dinamismo sociale tutt’altro che provinciale e dunque originale nel contesto italiano, un intreccio di attività economiche e finanziarie di respiro globale che ne fanno centro di attenzioni per investimenti e progetti di multinazionali ma anche una spiccata tendenza all’integrazione sociale (lo stile civico milanese subito assorbito da chi vi arriva, come peraltro notavano già Alessandro Manzoni e Stendhal).

Milano città di relazioni e molteplicità, di diversità come ricchezza, di spirito da “milanesi si diventa” con un rapporto molto forte tra consapevolezza storica e inclinazione per l’innovazione, tra orgoglio ambrosiano e gusto dell’identità aperta, dialettica, meticcia. Contemporaneamente urbs e civitas.

Sono punti di forza ancora attuali, naturalmente. Ma messi in crisi da una serie di fenomeni recenti che stanno aprendo crepe e ferite. Quelle, appunto, di cui si discute.

Che fenomeni? L’alto e sempre crescente costo della vita, a cominciare dai valori immobiliari, dai prezzi delle case in vendita e in affitto, che tende ad allontanare verso le periferie o addirittura verso la provincia ceti medi, giovani coppie, settori sociali “creativi” e innovativi di non alto reddito. Una condizione generale di insicurezza, sia reale che “percepita” (ma la “percezione” rivela comunque un crescente disagio sociale diffuso). L’idea di una trasformazione che privilegia gli aspetti più vistosi della ricchezza esibita e dell’apparenza social, svalutando nell’opinione corrente la tradizionale laboriosità borghese e imprenditrice. Una pseudocultura dell’istante e del “presentismo” che va sostituendo l’inclinazione solida alla partecipazione culturale di qualità, su cui hanno fondato le loro radici teatri e spazi per la musica e l’arte. Insomma, le “mille luci” amate dai city users e dai retori della versione più superficiale di “the place to be” e non la robustezza e la lungimiranza dell’economia produttiva e della solidarietà sociale.

L’ultimo monito arriva da Ferruccio Resta, ex Rettore del Politecnico, che ricorda il patrimonio rappresentato dai 200mila studenti nelle università milanesi, sollecita politiche giovanili adeguate (formazione, opportunità di lavoro, mobilità facile, cultura stimolante, sport, vita sociale non dispendiosa) e mette in guardia Milano dal “rischio di fuga dei giovani se non investiamo su di loro” (Corriere della Sera, 6 maggio). Il dibattito è destinato, per fortuna, a continuare. Le sette tende piantate, nei giorni scorsi, da gruppi di studenti davanti al Politecnico per manifestare in modo simbolicamente visibile contro il caro-affitti sono una testimonianza che sta raccogliendo consensi e adesioni.

Ecco il punto. Milano ha bisogno di progetti. Di investimenti di ampio respiro. E di buona politica. Come aveva insegnato la cultura di governo illuminista dei Verri e di Beccaria e poi l’intelligenza economica e sociale di Carlo Cattaneo. E, in tempi più recenti, dal dopoguerra in poi, l’esempio di sindaci e politici ispirati dal riformismo socialista e laico e dal cattolicesimo sociale, il cui effetto positivo ancora si avverte con chiarezza e che può ispirare anche scelte delle attuali amministrazioni.

Milano, infatti, ancora oggi sa tenere insieme la qualità dell’amministrazione pubblica e l’autonomia economica di imprese private forti di una sofisticata cultura e capaci di “pensieri generali” e pratica di buoni valori civili. E continua ad avere spazi in cui fare crescere un discorso pubblico attento alla qualità della vita sociale e dello sviluppo economico. Tutte caratteristiche che, se messe a fattor comune, possono evitare il degrado dell’effimero e della “fiera delle vanità” dei nuovi ricchi, fragili, ombrosi, poco lungimiranti. Evitare che prevalga “il milanese imbruttito”. E trovi invece nuovo impulso la città borghese, produttiva, solidale. Con grande dignità.

Il dibattito pubblico economico, d’altronde, ha messo in luce da tempo la centralità della “qualità dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale”, rispetto all’ossessione della crescita quantitativa. Un numero crescente di imprese, pur attente ai profitti, insiste sui valori che interessano gli stakeholders (lavoratori, fornitori, consumatori, membri delle comunità con cui l’impresa ha rapporti) e non solo gli shareholders, gli azionisti. L’economia “civile” e “circolare” è al centro dell’attenzione anche delle organizzazioni imprenditoriali (a cominciare dall’Assolombarda).

Ci sono cioè tutte le condizioni perché a Milano abbiano ancora ruolo e peso le energie positive che costruiscono sviluppo di qualità. Una “città che sale”, come storia e rappresentazione artistica raccontano. E non una città che si gonfia in bolle speculative e crescenti e intollerabili disparità sociali.

Ci sono riferimenti positivi, su cui fare leva. Tanto per fare solo un esempio, la ristrutturazione dell’ex area Falck a Sesto San Giovanni, una delle più grandi operazioni di riqualificazione immobiliare d’Europa. Qui, dopo un’iniziale stagione d’attenzione per terziario e abitazioni di lusso, va avanti un nuovo accordo per privilegiare una vocazione residenziale a prezzi adatti per acquirenti di ceto medio e una quota rilevante di social housing con affitti a basso costo (adatti per esempio a studenti e giovani laureati). Sesto, tecnicamente, non è Milano, ma un comune autonomo. Della città metropolitana, comunque, fa parte. E gli attori dell’operazione, Hines, Coima di Manfredi Catella in buoni rapporti con le cooperative, Redo (Fondazione Cariplo e Cdp) e, come protagonista finanziario, Intesa San Paolo) sono protagonisti di primo piano della scena economica milanese. Il paradigma si può replicare e ampliare. E Comune e Regione possono trovare significative convergenze di buon governo. Evitando il degrado sociale e civile..

Di sentirsi civitas, ha infatti bisogno Milano. E, d’altronde, d’una Milano “civile” ha uno straordinario bisogno l’Italia.

(photo Getty Images)

Per parlare del futuro di Milano, in una stagione di radicali mutamenti dei contesti geopolitici, economici e socio-culturali, potrebbe essere utile ricordare che gli antichi romani, per parlare di “città”, usavano due ben diverse parole: urbs e civitas. La prima indicava l’insieme degli edifici e delle infrastrutture, le strade e le piazze, i palazzi del potere pubblico e i teatri, i templi e i mercati. La seconda, invece, riguardava la dimensione dei cives, dei cittadini, considerati come comunità resa viva dall’insieme dei diritti e dei doveri, politici e personali, che avevano a che fare con la cittadinanza e il suo status giuridico.

I luoghi. E le regole, i vincoli comunitari, i progetti.

I mattoni. E l’equilibrio giuridico e culturale su cui fondare il futuro.

Il latino, si sa, è lingua “precisa, essenziale”, inadeguata “a demagoghi e ciarlatani”, come amava ricordare un acuto scrittore maestro d’ironia, Giovanni Guareschi. E quella distinzione tra urbs e civitas, tra i luoghi fisici e l’anima giuridica, politica e culturale, oggi ci suggerisce che serve rilanciare proprio lo spirito della convivenza, della comunità, dell’appartenenza civile, delle norme e dei pensieri comuni per cercare di evitare che i rischi di degrado che in tanti avvertiamo travolgano questa nostra città che è ancora, nonostante tutto, così aperta, innovativa, europea, densa di intraprendenza e, contemporaneamente, di spirito sociale solidale. Per bloccare cioè un destino di strade e piazze affollate da city users e sempre meno abitate da cives, da cittadini.

Il dibattito sul futuro di Milano si è intensificato, negli ultimi mesi, sia sui quotidiani più autorevoli sia sui social media. Riguarda questioni che sono, naturalmente, generali sulla qualità della vita e del lavoro nelle metropoli di tutto il mondo, comprese le europee Londra e Parigi. Ma investe e rischia di travolgere soprattutto alcune caratteristiche che hanno fatto, nel corso del tempo, proprio di Milano un caso molto particolare: una città che non è capitale ma ha una proiezione internazionale di primissimo piano, un contesto demografico tutto sommato di medie dimensioni (1,4 milioni di abitanti) ma ben più ampio per relazioni metropolitane e intrecci di affari e scambi, un dinamismo sociale tutt’altro che provinciale e dunque originale nel contesto italiano, un intreccio di attività economiche e finanziarie di respiro globale che ne fanno centro di attenzioni per investimenti e progetti di multinazionali ma anche una spiccata tendenza all’integrazione sociale (lo stile civico milanese subito assorbito da chi vi arriva, come peraltro notavano già Alessandro Manzoni e Stendhal).

Milano città di relazioni e molteplicità, di diversità come ricchezza, di spirito da “milanesi si diventa” con un rapporto molto forte tra consapevolezza storica e inclinazione per l’innovazione, tra orgoglio ambrosiano e gusto dell’identità aperta, dialettica, meticcia. Contemporaneamente urbs e civitas.

Sono punti di forza ancora attuali, naturalmente. Ma messi in crisi da una serie di fenomeni recenti che stanno aprendo crepe e ferite. Quelle, appunto, di cui si discute.

Che fenomeni? L’alto e sempre crescente costo della vita, a cominciare dai valori immobiliari, dai prezzi delle case in vendita e in affitto, che tende ad allontanare verso le periferie o addirittura verso la provincia ceti medi, giovani coppie, settori sociali “creativi” e innovativi di non alto reddito. Una condizione generale di insicurezza, sia reale che “percepita” (ma la “percezione” rivela comunque un crescente disagio sociale diffuso). L’idea di una trasformazione che privilegia gli aspetti più vistosi della ricchezza esibita e dell’apparenza social, svalutando nell’opinione corrente la tradizionale laboriosità borghese e imprenditrice. Una pseudocultura dell’istante e del “presentismo” che va sostituendo l’inclinazione solida alla partecipazione culturale di qualità, su cui hanno fondato le loro radici teatri e spazi per la musica e l’arte. Insomma, le “mille luci” amate dai city users e dai retori della versione più superficiale di “the place to be” e non la robustezza e la lungimiranza dell’economia produttiva e della solidarietà sociale.

L’ultimo monito arriva da Ferruccio Resta, ex Rettore del Politecnico, che ricorda il patrimonio rappresentato dai 200mila studenti nelle università milanesi, sollecita politiche giovanili adeguate (formazione, opportunità di lavoro, mobilità facile, cultura stimolante, sport, vita sociale non dispendiosa) e mette in guardia Milano dal “rischio di fuga dei giovani se non investiamo su di loro” (Corriere della Sera, 6 maggio). Il dibattito è destinato, per fortuna, a continuare. Le sette tende piantate, nei giorni scorsi, da gruppi di studenti davanti al Politecnico per manifestare in modo simbolicamente visibile contro il caro-affitti sono una testimonianza che sta raccogliendo consensi e adesioni.

Ecco il punto. Milano ha bisogno di progetti. Di investimenti di ampio respiro. E di buona politica. Come aveva insegnato la cultura di governo illuminista dei Verri e di Beccaria e poi l’intelligenza economica e sociale di Carlo Cattaneo. E, in tempi più recenti, dal dopoguerra in poi, l’esempio di sindaci e politici ispirati dal riformismo socialista e laico e dal cattolicesimo sociale, il cui effetto positivo ancora si avverte con chiarezza e che può ispirare anche scelte delle attuali amministrazioni.

Milano, infatti, ancora oggi sa tenere insieme la qualità dell’amministrazione pubblica e l’autonomia economica di imprese private forti di una sofisticata cultura e capaci di “pensieri generali” e pratica di buoni valori civili. E continua ad avere spazi in cui fare crescere un discorso pubblico attento alla qualità della vita sociale e dello sviluppo economico. Tutte caratteristiche che, se messe a fattor comune, possono evitare il degrado dell’effimero e della “fiera delle vanità” dei nuovi ricchi, fragili, ombrosi, poco lungimiranti. Evitare che prevalga “il milanese imbruttito”. E trovi invece nuovo impulso la città borghese, produttiva, solidale. Con grande dignità.

Il dibattito pubblico economico, d’altronde, ha messo in luce da tempo la centralità della “qualità dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale”, rispetto all’ossessione della crescita quantitativa. Un numero crescente di imprese, pur attente ai profitti, insiste sui valori che interessano gli stakeholders (lavoratori, fornitori, consumatori, membri delle comunità con cui l’impresa ha rapporti) e non solo gli shareholders, gli azionisti. L’economia “civile” e “circolare” è al centro dell’attenzione anche delle organizzazioni imprenditoriali (a cominciare dall’Assolombarda).

Ci sono cioè tutte le condizioni perché a Milano abbiano ancora ruolo e peso le energie positive che costruiscono sviluppo di qualità. Una “città che sale”, come storia e rappresentazione artistica raccontano. E non una città che si gonfia in bolle speculative e crescenti e intollerabili disparità sociali.

Ci sono riferimenti positivi, su cui fare leva. Tanto per fare solo un esempio, la ristrutturazione dell’ex area Falck a Sesto San Giovanni, una delle più grandi operazioni di riqualificazione immobiliare d’Europa. Qui, dopo un’iniziale stagione d’attenzione per terziario e abitazioni di lusso, va avanti un nuovo accordo per privilegiare una vocazione residenziale a prezzi adatti per acquirenti di ceto medio e una quota rilevante di social housing con affitti a basso costo (adatti per esempio a studenti e giovani laureati). Sesto, tecnicamente, non è Milano, ma un comune autonomo. Della città metropolitana, comunque, fa parte. E gli attori dell’operazione, Hines, Coima di Manfredi Catella in buoni rapporti con le cooperative, Redo (Fondazione Cariplo e Cdp) e, come protagonista finanziario, Intesa San Paolo) sono protagonisti di primo piano della scena economica milanese. Il paradigma si può replicare e ampliare. E Comune e Regione possono trovare significative convergenze di buon governo. Evitando il degrado sociale e civile..

Di sentirsi civitas, ha infatti bisogno Milano. E, d’altronde, d’una Milano “civile” ha uno straordinario bisogno l’Italia.

(photo Getty Images)

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