Il “liberalismo inclusivo” e il riformismo del governo Draghi rilanciano la politica
Nel tempo della crisi, tra pandemia che lentamente si smorza dopo una lunga stagione di dolori e fatiche e difficoltà economiche che si aggravano per i timori di inflazione e squilibri globali (il boom dei prezzi dell’energia è soltanto una delle manifestazioni), più che sperare in un impossibile ritorno al “come eravamo”, vale la pena costruire nuovi pensieri economici e sociali. “Liberalismo inclusivo”, scrivono Michele Salvati e Norberto Dilmore, per Feltrinelli, cercando di delineare “un futuro possibile per il nostro angolo di mondo”. Salvati è uno dei più lucidi studiosi italiani di politica, impegnato da tempo a ragionare su come coniugare libertà e migliori equilibri sociali. Dilmore è lo pseudonimo scelto da un esponente del nostro mondo economico, che accompagna un nome fortemente evocativo, Norberto, per ricordare la figura di uno dei più autorevoli intellettuali, interprete lungimirante dei tentativi di coniugare la cultura liberale (Piero Gobetti, i fratelli Rosselli) con il miglior socialismo riformista. Con una prospettiva: andare oltre la tradizionale contrapposizione tra Keynes e Friedman e individuare originali strade di interpretazione e governo delle nuove dimensioni della “società digitale”, delle relazioni tra crescita economica e qualità degli equilibri sociali.
Ecco il punto di riferimento: proprio nella ricerca di un “cambio di paradigma” per costruire una economia meno segnata dagli squilibri di una globalizzazione mal governata e produttrice di crescenti divari geografici, sociali, personali, di genere e cultura, vale la pena ripercorrere il grande pensiero politico europeo e ragionare di sostenibilità, riforme, lotta alle diseguaglianze, nuove e migliori opportunità di sviluppo soprattutto per le nuove generazioni. Liberalismo inclusivo e riformismo. Dinamismo imprenditoriale e inclusione sociale. Competitività e solidarietà. Tutti valori che si ritrovano nelle pagine del libro di Salvati e Dilmore e appartengono all’originale cultura di fondo dell’Europa: democrazia liberale e welfare, promozione dei diritti individuali e responsabilità sociale. Una strada che proprio adesso, in tempi di crisi e radicali trasformazioni, ha una straordinaria forza di attualità.
C’è un’altra indicazione possibile, nella migliore letteratura economica contemporanea, accanto alle riflessioni di Stiglitz, Krugman, Fitoussi e alla rilettura di un economista come Federico Caffè, originale interprete di Keynes e maestro del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Un triangolo virtuoso formato da imprese, Stato e società civile”, per identificare nuove strade di sviluppo, fuori dal tradizionale interrogativo dialettico “più Stato o più mercato?”. Lo propone Philippe Aghion, economista francese, professore alla London School of Economics, ad Harvard e al Collège de France, nelle pagine di “Il potere della distruzione creatrice – Innovazione, crescita e futuro del capitalismo”, un libro pubblicato da Marsilio e scritto con altri due economisti del Collège de France, Céline Antonin e Simon Brunelli. Il riferimento, fin dal titolo, è alle teorie di Joseph Schumpeter, sulla forza creativa dell’innovazione e però anche sulla tendenza degli attori più dinamici del mercato a diventare monopolisti, distruggendo così proprio il mercato in cui sono nati. L’obiettivo è dimostrare come un rapporto equilibrato e originale tra politica, imprenditori e società civile possa contrastare sia il declino del capitalismo sia il populismo demagogico, rilanciando così l’economia di mercato (trasparente, ben regolata, sostenibile) e soprattutto la stessa democrazia liberale. Gli autori analizzano le evoluzioni tecnologiche, polemizzano con le bizzarre teorie di chi vorrebbe tassare i robot per bloccare l’evoluzione digitale delle imprese e difendere i lavori tradizionali, rifiutano le idee di “decrescita felice” e propongono nuove relazioni tra l’innovazione d’impronta anglosassone e le migliori tradizioni europee del welfare.
Ecco il punto. Per potere ragionale di “liberalismo inclusivo” e di riformismo c’è un grande bisogno di buona politica. Gli anni che abbiamo appena vissuto, della politica riformatrice hanno purtroppo visto il declino, sotto la spinta delle pressioni populiste e sovraniste, risposte sbagliate e improduttive di soluzioni credibili a problemi reali di disagio sociale e crollo di fiducia nelle possibilità di un futuro migliore.
Adesso, però, proprio in Italia e, più in generale, in Europa, si colgono segni che consentono una pur fragile speranza di ripresa. La rielezione al Quirinale di un presidente come Sergio Mattarella e il rafforzamento del governo Draghi, con l’impegnativo programma di riforme lungo le direttrici del Recovery Plan della Ue (ambiente, economia digitale, innovazione, formazione, conoscenza guardando alla Next Generation) sono punti fermi di ripartenza. Le indicazioni, nel discorso di Mattarella, sulla “dignità” del lavoro, della cultura, delle istituzioni, della giustizia, dei diritti di donne e giovani, sono pilastri per una rifondazione della politica, per ricostruire fiducia e migliori opportunità di futuro.
In gioco ci sono la democrazia e lo sviluppo. Nonostante la pesantezza della crisi. Ma proprio in questi tempi difficili e nonostante incertezze, cadute, ombre e comportanti irresponsabili proprio nel cuore del mondo politico, l’Italia sta dimostrando di avere un “capitale sociale” positivo, una straordinaria forza di ripresa.
Lo notano anche anche autorevoli osservatori internazionali, come conferma per esempio “The Economist”. Nel dicembre scorso aveva indicato l’Italia come “paese dell’anno 2021”, mettendo temporaneamente da parte l’abitudine storica alle critiche severe, perfino impietose verso il nostro Paese. Adesso, nel numero in edicola, il settimanale britannico nota che “Southern Europe is reforming itself”, ricordando come i “vecchi Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, riuniti in un acronimo che sapeva di insulto) “volano, anche se i paesi del Nord cadono sulla Terra”. Nella crescita del peso dell’Europa mediterranea, anche per la modifica degli assetti internazionali, “The Economist” continua a riconoscere all’Italia guidata da Mario Draghi una spinta riformatrice positiva, su giustizia, pensione, economia. Con effetti positivi sul resto della Ue. Restano le ombre, è vero. Ma emergono le forze positive. Il “liberalismo inclusivo” può fare strada.
Nel tempo della crisi, tra pandemia che lentamente si smorza dopo una lunga stagione di dolori e fatiche e difficoltà economiche che si aggravano per i timori di inflazione e squilibri globali (il boom dei prezzi dell’energia è soltanto una delle manifestazioni), più che sperare in un impossibile ritorno al “come eravamo”, vale la pena costruire nuovi pensieri economici e sociali. “Liberalismo inclusivo”, scrivono Michele Salvati e Norberto Dilmore, per Feltrinelli, cercando di delineare “un futuro possibile per il nostro angolo di mondo”. Salvati è uno dei più lucidi studiosi italiani di politica, impegnato da tempo a ragionare su come coniugare libertà e migliori equilibri sociali. Dilmore è lo pseudonimo scelto da un esponente del nostro mondo economico, che accompagna un nome fortemente evocativo, Norberto, per ricordare la figura di uno dei più autorevoli intellettuali, interprete lungimirante dei tentativi di coniugare la cultura liberale (Piero Gobetti, i fratelli Rosselli) con il miglior socialismo riformista. Con una prospettiva: andare oltre la tradizionale contrapposizione tra Keynes e Friedman e individuare originali strade di interpretazione e governo delle nuove dimensioni della “società digitale”, delle relazioni tra crescita economica e qualità degli equilibri sociali.
Ecco il punto di riferimento: proprio nella ricerca di un “cambio di paradigma” per costruire una economia meno segnata dagli squilibri di una globalizzazione mal governata e produttrice di crescenti divari geografici, sociali, personali, di genere e cultura, vale la pena ripercorrere il grande pensiero politico europeo e ragionare di sostenibilità, riforme, lotta alle diseguaglianze, nuove e migliori opportunità di sviluppo soprattutto per le nuove generazioni. Liberalismo inclusivo e riformismo. Dinamismo imprenditoriale e inclusione sociale. Competitività e solidarietà. Tutti valori che si ritrovano nelle pagine del libro di Salvati e Dilmore e appartengono all’originale cultura di fondo dell’Europa: democrazia liberale e welfare, promozione dei diritti individuali e responsabilità sociale. Una strada che proprio adesso, in tempi di crisi e radicali trasformazioni, ha una straordinaria forza di attualità.
C’è un’altra indicazione possibile, nella migliore letteratura economica contemporanea, accanto alle riflessioni di Stiglitz, Krugman, Fitoussi e alla rilettura di un economista come Federico Caffè, originale interprete di Keynes e maestro del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Un triangolo virtuoso formato da imprese, Stato e società civile”, per identificare nuove strade di sviluppo, fuori dal tradizionale interrogativo dialettico “più Stato o più mercato?”. Lo propone Philippe Aghion, economista francese, professore alla London School of Economics, ad Harvard e al Collège de France, nelle pagine di “Il potere della distruzione creatrice – Innovazione, crescita e futuro del capitalismo”, un libro pubblicato da Marsilio e scritto con altri due economisti del Collège de France, Céline Antonin e Simon Brunelli. Il riferimento, fin dal titolo, è alle teorie di Joseph Schumpeter, sulla forza creativa dell’innovazione e però anche sulla tendenza degli attori più dinamici del mercato a diventare monopolisti, distruggendo così proprio il mercato in cui sono nati. L’obiettivo è dimostrare come un rapporto equilibrato e originale tra politica, imprenditori e società civile possa contrastare sia il declino del capitalismo sia il populismo demagogico, rilanciando così l’economia di mercato (trasparente, ben regolata, sostenibile) e soprattutto la stessa democrazia liberale. Gli autori analizzano le evoluzioni tecnologiche, polemizzano con le bizzarre teorie di chi vorrebbe tassare i robot per bloccare l’evoluzione digitale delle imprese e difendere i lavori tradizionali, rifiutano le idee di “decrescita felice” e propongono nuove relazioni tra l’innovazione d’impronta anglosassone e le migliori tradizioni europee del welfare.
Ecco il punto. Per potere ragionale di “liberalismo inclusivo” e di riformismo c’è un grande bisogno di buona politica. Gli anni che abbiamo appena vissuto, della politica riformatrice hanno purtroppo visto il declino, sotto la spinta delle pressioni populiste e sovraniste, risposte sbagliate e improduttive di soluzioni credibili a problemi reali di disagio sociale e crollo di fiducia nelle possibilità di un futuro migliore.
Adesso, però, proprio in Italia e, più in generale, in Europa, si colgono segni che consentono una pur fragile speranza di ripresa. La rielezione al Quirinale di un presidente come Sergio Mattarella e il rafforzamento del governo Draghi, con l’impegnativo programma di riforme lungo le direttrici del Recovery Plan della Ue (ambiente, economia digitale, innovazione, formazione, conoscenza guardando alla Next Generation) sono punti fermi di ripartenza. Le indicazioni, nel discorso di Mattarella, sulla “dignità” del lavoro, della cultura, delle istituzioni, della giustizia, dei diritti di donne e giovani, sono pilastri per una rifondazione della politica, per ricostruire fiducia e migliori opportunità di futuro.
In gioco ci sono la democrazia e lo sviluppo. Nonostante la pesantezza della crisi. Ma proprio in questi tempi difficili e nonostante incertezze, cadute, ombre e comportanti irresponsabili proprio nel cuore del mondo politico, l’Italia sta dimostrando di avere un “capitale sociale” positivo, una straordinaria forza di ripresa.
Lo notano anche anche autorevoli osservatori internazionali, come conferma per esempio “The Economist”. Nel dicembre scorso aveva indicato l’Italia come “paese dell’anno 2021”, mettendo temporaneamente da parte l’abitudine storica alle critiche severe, perfino impietose verso il nostro Paese. Adesso, nel numero in edicola, il settimanale britannico nota che “Southern Europe is reforming itself”, ricordando come i “vecchi Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, riuniti in un acronimo che sapeva di insulto) “volano, anche se i paesi del Nord cadono sulla Terra”. Nella crescita del peso dell’Europa mediterranea, anche per la modifica degli assetti internazionali, “The Economist” continua a riconoscere all’Italia guidata da Mario Draghi una spinta riformatrice positiva, su giustizia, pensione, economia. Con effetti positivi sul resto della Ue. Restano le ombre, è vero. Ma emergono le forze positive. Il “liberalismo inclusivo” può fare strada.