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Il “moplen” del Nobel Natta, per ripensare ricerca e sviluppo

Vitalissima, l’Italia di cinquant’anni fa. Per giocare con gli anniversari, ecco il  boom economico, che ha il suo apice proprio nel 1963. E, nello stesso anno, il premio Nobel per la chimica dato a Giulio Natta, per le ricerche che portano alla scoperta del “polipropilene isolattico”, una plastica che avrebbe rivoluzionato la vita quotidiana di milioni di persone: il Moplen. Nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi costumi. Celebrati dall’attor comico Gino Bramieri che, nei popolarissimi “Caroselli” in Tv, si dava da fare con una lunga serie di oggetti, bacinelle e scolapasta, bottiglie e giocattoli, comodi, pratici, puliti, infrangibili, raccomandando, alla fine: “Ma signora / badi ben / che sia fatto / di Moplen”.

Binomio virtuoso, quel Moplen. Frutto della collaborazione avviata già nei primi anni Cinquantra tra il Politecnico di Milano e la Montecatini. Sintesi tra ricerca accademica d’avanguardia e applicazione industriale, sulla scia delle sperimentazioni già avviate, verso la fine degli anni Trenta, appunto da Natta, sulla gomma sintetica (in collaborazione, allora, tra il Politecnico e la Pirelli). Sintesi importante. Ed esemplare. Perché era stata proprio la strategia di confronto tra laboratorio universitario e fabbrica a consentire a Natta e ai suoi collaboratori di far fare radicali passi avanti alle ricerche del tedesco Carl Ziegler (cinvitore del Nobel insieme a Natta), che altrimenti sarebbero rimaste teoria. Italia manifatturiera d’eccellenza, dunque. Terra adatta allo sviluppo del “bello e ben fatto”. Luodo di sintesi di culture d’impresa che univano creatività originale a produzione industriale di massa. Tecnologia d’avanguardia. Desing. Mercati. Successo economico. Tutto attorno a un solido cardine: cultura e ricerca creano sviluppo, ricchezza, occupazione, miglioramento della qualità della vita.

Nel tempo, l’Italia ha perso l’abbrivio positivo della ricerca applicata, sprecando opportunità, tagliando risorse, determinando anche il fallimento di grandi istituzioni d’avanguardia, come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, nato a Napoli nel 1961, su impulso di grandi scienziati come Adriano Buzzati, Luca Cavalli Sforza e Franco Graziosi, ma poi chiuso per insopportabile ostilità di accademie e burocrazie (la vicenda viene ricordata in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia intelligente”, pubblicato da Donzelli).

Le statistcihe dicono che oggi l’Italia, con l’1% di investimenti pubblici e privati in ricerca, è fanalino di coda in Europa. E proprio la miope scelta di sacrificare ricerca, innovazione e cultura (per non tagliare la spesa pubblica improduttiva e clientelare) contribuisce in modo determinante alla crescita piatta del Paese negli ultimi vent’anni e alla drammatica recessione attuale.

Ripensare alla stagione del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, alle attività di Natta e al dinamismo delle imprese italiane, dunque, non è fare “amarcord”. Ma provare a rintracciare, sull’esempio di quegli anni dinamici e densi di intraprendenza e speranza, strategie di sviluppo sensate, dimaniche, internazionali, sostenibili nel tempo. Fare, cioè, scelte lungimiranti di politiche economiche e industriali. Ricostruire ragioni di competitività. Nessuno, naturalmente, si illude che l’Italia possa fare come Israele, che destina a ricerca e sviluppo il 5% del Pil (e vanta dunque un’economia florida, competitiva, hi tech). Ma certo, rappoppiare l’attuale misero 1% si può. E si deve. “Non accetterò tagli alla cultura e alla ricerca, altrimenti mi dimetterò”, ha proclamato il presidente del Consiglio Enrico Letta, nei suoi primi discorsi da premier. Bene. O, piuttosto, meglio di niente. All’Italia, però, servirebbe un po’ di più. E cioè il contrario del tagli. Nuovi investimenti, di lungo periodo. E una nuova culura dello sviluppo.

Vitalissima, l’Italia di cinquant’anni fa. Per giocare con gli anniversari, ecco il  boom economico, che ha il suo apice proprio nel 1963. E, nello stesso anno, il premio Nobel per la chimica dato a Giulio Natta, per le ricerche che portano alla scoperta del “polipropilene isolattico”, una plastica che avrebbe rivoluzionato la vita quotidiana di milioni di persone: il Moplen. Nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi costumi. Celebrati dall’attor comico Gino Bramieri che, nei popolarissimi “Caroselli” in Tv, si dava da fare con una lunga serie di oggetti, bacinelle e scolapasta, bottiglie e giocattoli, comodi, pratici, puliti, infrangibili, raccomandando, alla fine: “Ma signora / badi ben / che sia fatto / di Moplen”.

Binomio virtuoso, quel Moplen. Frutto della collaborazione avviata già nei primi anni Cinquantra tra il Politecnico di Milano e la Montecatini. Sintesi tra ricerca accademica d’avanguardia e applicazione industriale, sulla scia delle sperimentazioni già avviate, verso la fine degli anni Trenta, appunto da Natta, sulla gomma sintetica (in collaborazione, allora, tra il Politecnico e la Pirelli). Sintesi importante. Ed esemplare. Perché era stata proprio la strategia di confronto tra laboratorio universitario e fabbrica a consentire a Natta e ai suoi collaboratori di far fare radicali passi avanti alle ricerche del tedesco Carl Ziegler (cinvitore del Nobel insieme a Natta), che altrimenti sarebbero rimaste teoria. Italia manifatturiera d’eccellenza, dunque. Terra adatta allo sviluppo del “bello e ben fatto”. Luodo di sintesi di culture d’impresa che univano creatività originale a produzione industriale di massa. Tecnologia d’avanguardia. Desing. Mercati. Successo economico. Tutto attorno a un solido cardine: cultura e ricerca creano sviluppo, ricchezza, occupazione, miglioramento della qualità della vita.

Nel tempo, l’Italia ha perso l’abbrivio positivo della ricerca applicata, sprecando opportunità, tagliando risorse, determinando anche il fallimento di grandi istituzioni d’avanguardia, come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, nato a Napoli nel 1961, su impulso di grandi scienziati come Adriano Buzzati, Luca Cavalli Sforza e Franco Graziosi, ma poi chiuso per insopportabile ostilità di accademie e burocrazie (la vicenda viene ricordata in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia intelligente”, pubblicato da Donzelli).

Le statistcihe dicono che oggi l’Italia, con l’1% di investimenti pubblici e privati in ricerca, è fanalino di coda in Europa. E proprio la miope scelta di sacrificare ricerca, innovazione e cultura (per non tagliare la spesa pubblica improduttiva e clientelare) contribuisce in modo determinante alla crescita piatta del Paese negli ultimi vent’anni e alla drammatica recessione attuale.

Ripensare alla stagione del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, alle attività di Natta e al dinamismo delle imprese italiane, dunque, non è fare “amarcord”. Ma provare a rintracciare, sull’esempio di quegli anni dinamici e densi di intraprendenza e speranza, strategie di sviluppo sensate, dimaniche, internazionali, sostenibili nel tempo. Fare, cioè, scelte lungimiranti di politiche economiche e industriali. Ricostruire ragioni di competitività. Nessuno, naturalmente, si illude che l’Italia possa fare come Israele, che destina a ricerca e sviluppo il 5% del Pil (e vanta dunque un’economia florida, competitiva, hi tech). Ma certo, rappoppiare l’attuale misero 1% si può. E si deve. “Non accetterò tagli alla cultura e alla ricerca, altrimenti mi dimetterò”, ha proclamato il presidente del Consiglio Enrico Letta, nei suoi primi discorsi da premier. Bene. O, piuttosto, meglio di niente. All’Italia, però, servirebbe un po’ di più. E cioè il contrario del tagli. Nuovi investimenti, di lungo periodo. E una nuova culura dello sviluppo.

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