Il “Museo del futuro” e la “fabbrica bella”: le discussioni Aspen su cultura e impresa
Può sembrare un ossimoro, dire “il museo del futuro“. Due parole che si negano a vicenda. Una, usata per definire il luogo di conservazione del passato. L’altra, per indicare l’orizzonte di tutto ciò che è ancora da fare. Eppure, a pensarci bene, la contraddizione è solo apparente. Perché proprio la riflessione critica sul passato offre straordinarie chiavi di miglior comprensione della contemporaneità. E l’innovazione, per quanto caratterizzata da discontinuità, ha comunque bisogno di una robusta e radicale rielaborazione delle esperienze già fatte, prima di diventare essa stessa esperienza, storia, documento da conservare e valorizzare. Memoria e futuro, dunque, come sintesi, sinergia dialettica fertile. Conoscenze orientate al cambiamento.
Sta probabilmente qui la radice della scelta dell’Aspen Institute Italia di organizzare una delle sue discussioni proprio su “Il Museo del futuro”, nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera, la scorsa settimana, a Milano, mettendo a confronto imprenditori, manager, responsabili di istituzioni, personalità della cultura ed esperti d’arte di generazioni diverse (più di metà, trentenni) per discutere di valorizzazione dei beni culturali nel rapporto tra “pubblico” e “privato”, di nuove professioni culturali, di valore della “grande bellezza” di cui l’Italia è principale testimone internazionale (anche se troppo spesso ne è custode mediocre e scadente promotore) e soprattutto di relazione tra patrimonio storico e artistico e tecnologie digitali (“A cosa serve un museo nell’era di Internet?”).
Un dibattito approfondito. Utile per muoversi nel vasto e stimolante territorio contenuto da due confini: il rifiuto di considerare il museo come “cimitero di culture passate” e la consapevolezza di dover andare oltre “il rischio del positivismo tecnologico”, oltre cioè la falsa credenza che l’esperienza sia racchiudibile “dentro” uno schermo hi tech, grazie al quale, senza alzarsi dal divano di casa, muoversi nelle sale d’un museo, “esplorare” la Cappella Sistina, visitare una collezione d’arte, assistere a un’opera teatrale.
Sfuggendo alla falsa contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, c’è da capire come usare gli strumenti digital per conoscere e capire meglio (divertendosi) i quadri di Caravaggio e di Mantegna custoditi, appunto, a Brera. Cos’è dunque oggi un museo?
Il museo è un luogo della comunità, in cui si conserva e si valorizza una conoscenza che è cardine di una identità ricca, molteplice, capace di emozionare e formare nuove generazioni. Ed è anche uno spazio in cui testimoniare l’evoluzione della conoscenza e l’incrocio creativo tra scienze umane e tecnologie, sanando, proprio oggi, la falsa frattura tra umanesimo e scienza. Un esempio: fermarsi davanti a un quadro di Antonello da Messina, guardarne in profondità la forza di raffigurazione del volto d’una Madonna o dell'”Ignoto marinaio” e rivivere, sullo schermo d’un computer, l’appassionata ricerca delle vernici in grado di dare, all’olio della pittura, una inedita luminosità, una straordinaria intensità della luce. Antonello come artista e come chimico d’avanguardia. Antonello da esporre al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.
Già, proprio a Milano, città in cui da sempre, nella storia, creatività artistica e innovazione scientifica hanno camminato insieme, sino ai tempi dell’eccellenza di Leonardo (il Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana ne è sintesi straordinaria), alle migliori sperimentazioni del Futurismo nelle stagioni dell’avvio dell’industrializzazione di massa, ai tempi (anni Cinquanta e Sessanta) di Lucio Fontana nei bar e negli atelier di Brera e di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, nei laboratori delle grandi industrie (Pirelli e Montecatini) e dell’università.
Museo, ancora, come luogo della storia. E degli stimoli d’una cultura “pop” che giochi in continuazione sull’espressione della contemporaneità, con sguardo futuribile. Museo come nodo d’una rete che colleghi spazi storici e gallerie d’arte, centri di ricerca universitari pubblici e privati. E imprese, biblioteche e aule in cui ridiscutere la nuova attualità di grandi autori del Novecento europeo, dal Gramsci dei “Quaderni del carcere” (studiato a fondo proprio sui temi della cultura popolare da ricercatori negli Usa e in Gran Bretagna) all’Heidegger di “Essere e Tempo” le cui riedizioni critiche, al di là delle polemiche politiche, riaprono dibattiti sulle relazioni autentico-inautentico, su alcuni temi cardine delle responsabilità del fare cultura.
Musei, dunque, come centri dell’innovazione. Proprio nel cuore della cultura d’impresa.
Che rapporti dunque costruire su impresa e museo, tra produzione, conservazione, valorizzazione? Il punto di sintesi sta nella lezione di un grande storico come Carlo Maria Cipolla sull’attitudine degli italiani “a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Stabilire e rinnovare un rapporto tra impresa e cultura, manifattura e creatività, è indispensabile per rafforzare la competitività dell’industria. Giocata sulla qualità, sul “bello e ben fatto”.
La relazione è ancora più profonda.
Nel tempo della crisi e della rottura di tradizionali paradigmi sociali ed economici (ne abbiamo scritto più volte in questo blog), servono nuove mappe per raccontare interessi, conflitti, scambi. Per tracciare, insomma, un’originale geo-economia della competizione internazionale. Resta troppo forte l’influenza di una finanza speculativa che domina e distorce la globalizzazione. E troppo debole una politica che abdica al proprio diritto-dovere di e fare rispettare regole di sviluppo più equilibrato, giusto, sostenibile.
E’ necessaria dunque una cultura ispirata a un nuovo “umanesimo industriale”, una cultura politecnica che tenga insieme conoscenze umanistiche e competenze scientifiche, secondo l’ispirazione che nel corso lungo della storia d’Europa ha determinato il pensiero critico del progresso, della ricerca, delle libertà. E tra i luoghi privilegiati di questo “umanesimo” c’è il “museo del futuro”. E ci sono le “neo-fabbriche” dove le tradizionali competenze manifatturiere della cultura del “made in Italy” si incrociano con le tecnologie creative e produttive “digital” e “hi tech”. Musei come spazi in cui la memoria ha un futuro e definisce futuri migliori (anche i musei e gli archivi d’impresa, naturalmente). E fabbriche come luoghi in cui si producono ricchezza, lavoro, innovazione. Una rinnovata “civiltà delle macchine”.
Può sembrare un ossimoro, dire “il museo del futuro“. Due parole che si negano a vicenda. Una, usata per definire il luogo di conservazione del passato. L’altra, per indicare l’orizzonte di tutto ciò che è ancora da fare. Eppure, a pensarci bene, la contraddizione è solo apparente. Perché proprio la riflessione critica sul passato offre straordinarie chiavi di miglior comprensione della contemporaneità. E l’innovazione, per quanto caratterizzata da discontinuità, ha comunque bisogno di una robusta e radicale rielaborazione delle esperienze già fatte, prima di diventare essa stessa esperienza, storia, documento da conservare e valorizzare. Memoria e futuro, dunque, come sintesi, sinergia dialettica fertile. Conoscenze orientate al cambiamento.
Sta probabilmente qui la radice della scelta dell’Aspen Institute Italia di organizzare una delle sue discussioni proprio su “Il Museo del futuro”, nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera, la scorsa settimana, a Milano, mettendo a confronto imprenditori, manager, responsabili di istituzioni, personalità della cultura ed esperti d’arte di generazioni diverse (più di metà, trentenni) per discutere di valorizzazione dei beni culturali nel rapporto tra “pubblico” e “privato”, di nuove professioni culturali, di valore della “grande bellezza” di cui l’Italia è principale testimone internazionale (anche se troppo spesso ne è custode mediocre e scadente promotore) e soprattutto di relazione tra patrimonio storico e artistico e tecnologie digitali (“A cosa serve un museo nell’era di Internet?”).
Un dibattito approfondito. Utile per muoversi nel vasto e stimolante territorio contenuto da due confini: il rifiuto di considerare il museo come “cimitero di culture passate” e la consapevolezza di dover andare oltre “il rischio del positivismo tecnologico”, oltre cioè la falsa credenza che l’esperienza sia racchiudibile “dentro” uno schermo hi tech, grazie al quale, senza alzarsi dal divano di casa, muoversi nelle sale d’un museo, “esplorare” la Cappella Sistina, visitare una collezione d’arte, assistere a un’opera teatrale.
Sfuggendo alla falsa contrapposizione tra “apocalittici” e “integrati”, c’è da capire come usare gli strumenti digital per conoscere e capire meglio (divertendosi) i quadri di Caravaggio e di Mantegna custoditi, appunto, a Brera. Cos’è dunque oggi un museo?
Il museo è un luogo della comunità, in cui si conserva e si valorizza una conoscenza che è cardine di una identità ricca, molteplice, capace di emozionare e formare nuove generazioni. Ed è anche uno spazio in cui testimoniare l’evoluzione della conoscenza e l’incrocio creativo tra scienze umane e tecnologie, sanando, proprio oggi, la falsa frattura tra umanesimo e scienza. Un esempio: fermarsi davanti a un quadro di Antonello da Messina, guardarne in profondità la forza di raffigurazione del volto d’una Madonna o dell'”Ignoto marinaio” e rivivere, sullo schermo d’un computer, l’appassionata ricerca delle vernici in grado di dare, all’olio della pittura, una inedita luminosità, una straordinaria intensità della luce. Antonello come artista e come chimico d’avanguardia. Antonello da esporre al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano.
Già, proprio a Milano, città in cui da sempre, nella storia, creatività artistica e innovazione scientifica hanno camminato insieme, sino ai tempi dell’eccellenza di Leonardo (il Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana ne è sintesi straordinaria), alle migliori sperimentazioni del Futurismo nelle stagioni dell’avvio dell’industrializzazione di massa, ai tempi (anni Cinquanta e Sessanta) di Lucio Fontana nei bar e negli atelier di Brera e di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica, nei laboratori delle grandi industrie (Pirelli e Montecatini) e dell’università.
Museo, ancora, come luogo della storia. E degli stimoli d’una cultura “pop” che giochi in continuazione sull’espressione della contemporaneità, con sguardo futuribile. Museo come nodo d’una rete che colleghi spazi storici e gallerie d’arte, centri di ricerca universitari pubblici e privati. E imprese, biblioteche e aule in cui ridiscutere la nuova attualità di grandi autori del Novecento europeo, dal Gramsci dei “Quaderni del carcere” (studiato a fondo proprio sui temi della cultura popolare da ricercatori negli Usa e in Gran Bretagna) all’Heidegger di “Essere e Tempo” le cui riedizioni critiche, al di là delle polemiche politiche, riaprono dibattiti sulle relazioni autentico-inautentico, su alcuni temi cardine delle responsabilità del fare cultura.
Musei, dunque, come centri dell’innovazione. Proprio nel cuore della cultura d’impresa.
Che rapporti dunque costruire su impresa e museo, tra produzione, conservazione, valorizzazione? Il punto di sintesi sta nella lezione di un grande storico come Carlo Maria Cipolla sull’attitudine degli italiani “a produrre, fin dal Medio Evo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Stabilire e rinnovare un rapporto tra impresa e cultura, manifattura e creatività, è indispensabile per rafforzare la competitività dell’industria. Giocata sulla qualità, sul “bello e ben fatto”.
La relazione è ancora più profonda.
Nel tempo della crisi e della rottura di tradizionali paradigmi sociali ed economici (ne abbiamo scritto più volte in questo blog), servono nuove mappe per raccontare interessi, conflitti, scambi. Per tracciare, insomma, un’originale geo-economia della competizione internazionale. Resta troppo forte l’influenza di una finanza speculativa che domina e distorce la globalizzazione. E troppo debole una politica che abdica al proprio diritto-dovere di e fare rispettare regole di sviluppo più equilibrato, giusto, sostenibile.
E’ necessaria dunque una cultura ispirata a un nuovo “umanesimo industriale”, una cultura politecnica che tenga insieme conoscenze umanistiche e competenze scientifiche, secondo l’ispirazione che nel corso lungo della storia d’Europa ha determinato il pensiero critico del progresso, della ricerca, delle libertà. E tra i luoghi privilegiati di questo “umanesimo” c’è il “museo del futuro”. E ci sono le “neo-fabbriche” dove le tradizionali competenze manifatturiere della cultura del “made in Italy” si incrociano con le tecnologie creative e produttive “digital” e “hi tech”. Musei come spazi in cui la memoria ha un futuro e definisce futuri migliori (anche i musei e gli archivi d’impresa, naturalmente). E fabbriche come luoghi in cui si producono ricchezza, lavoro, innovazione. Una rinnovata “civiltà delle macchine”.