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Il Papa chiede agli imprenditori: la persona e la sua dignità siano al centro dell’impresa

Papa Francesco dice agli imprenditori: “Il bene comune sia bussola per l’attività produttiva”. Chiede “un nuovo umanesimo del lavoro”. Riconosce il ruolo cardine dell’impresa per lo sviluppo, per quell’”economia giusta” che gli sta tanto a cuore e ha rilanciato nei suoi discorsi. E sollecita “nuove strategie, stili, atteggiamenti” per “investire in progetti che sappiano coinvolgere soggetti spesso dimenticati o trascurati”, cioè gli anziani “troppo spesso scartati perché inutili o improduttivi” e i giovani “prigionieri della precarietà o di una troppo lunga disoccupazione”. Insiste perché “la persona sia al centro dell’impresa”. Ed esorta uomini e donne d’impresa: “La via maestra sia sempre la giustizia, che rifiuta le scorciatoie delle raccomandazioni e dei favoritismi e le deviazioni pericolose della disonestà e dei facili compromessi”. Il monito è netto: “Assoluta è la dignità, non il mercato”. Gli imprenditori applaudono.

Sono in settemila, riuniti della grande e solenne Sala Nervi del Vaticano, in un sabato mattina grigio e piovigginoso. Settemila tra imprenditori e familiari. Sono riuniti per il “Giubileo dell’industria”. E ascoltano il Papa con attenzione, rispetto, partecipazione sincera. Poco prima del discorso del Santo Padre, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, in un breve intervento, ha ricordato come “l’unico vero antidoto alla speculazione è l’impresa”, con i suoi valori, la sua attenzione alle persona, la sua idea che la dignità sia nel lavoro ben fatto.

E’ un incontro importante, quello tra il Papa e gli imprenditori di Confindustria. Una novità assoluta. E mostra come in tempi di crisi, la risposta non sia da trovare nelle secche economiciste, ma in una nuova visione della persona, del lavoro, dell’intraprendere. Nei valori.

Ecco il punto chiave. Il valore. È una parola cardine, nel lessico dell’impresa. “Creare valore per gli azionisti”, si chiede a chi l’amministra: redditività, cioè, profitti, crescita dei titoli quotati in Borsa, dividendi, risorse finanziarie per avviare nuovi investimenti e dunque fare aumentare ancora di più “il valore”.

Questa parola si può, appunto, declinare al plurale: “valori”. E, facendo ancora un passo avanti rispetto alla visione più specifica dello “spirito del capitalismo”, ha senso affermare che oggi non si crea alcun valore se non si sta con l’attenzione vigile rivolta, appunto, ai valori: il rispetto delle persone e dell’ambiente, la sicurezza, la tutela dei diritti di lavoratori e consumatori, l’armonia tra l’impresa e i territori in cui si avverte la sua presenza. Non solo non c’è contraddizione tra valore (anche nel senso specifico del profitto d’impresa) e valori. Ma solo in questa nuova prospettiva le imprese possono crescere e il Paese avere uno sviluppo equilibrato, migliore, più “giusto”.

Fare impresa per creare valori”, scrive il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, sulla prima pagina de “Il Sole24Ore”, presentando il seminario “Fare insieme“, l’incontro tra Confindustria e Vaticano che si è svolto venerdì 26 febbraio al Centro Congressi Augustinianum alla vigilia dell’udienza papale. E, in modo speculare, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha scritto un articolo su “Avvenire”, cercando “risposte alle domande difficili” appunto sui valori, il senso del fare impresa, la responsabilità di “costruire in modo creativo opportunità di crescita anche per chi ha meno, per innovare, generare nuovo lavoro e capitale sociale”, definire insomma “insieme” (ecco la parola che ricorre) “un nuovo contratto sociale”.

È un’iniziativa inedita, un incontro importante, quello tra la Chiesa e l’organizzazione degli imprenditori italiani: nasce nel segno del dialogo, del confronto sincero tra posizioni diverse in cerca di convergenze e sintesi comuni, guarda con impegno condiviso allo sviluppo non solo economico, ma anche e soprattutto umano e sociale, prova a coniugare l’importanza del “fare” (l’intraprendenza, il lavoro, la costruzione di qualcosa che non c’era) caro agli imprenditori con i valori dell'”insieme”: la solidarietà, la comunità, l’inclusione.

Con l’incontro di venerdì (cui hanno partecipato economisti, imprenditori, esponenti vaticani, intellettuali sensibili ai temi dell’etica e dell’economia) si è andati oltre l’abituale confronto tra Chiesa e imprenditori cattolici per cercare di inserire l’impresa in quanto tale dentro un universo di significati positivi.

L’impresa si confronta con valori generali, in parte già suoi, in parte da accogliere come sfide, in cerca anche di una nuova e migliore legittimazione sociale, che permetta di mettere da canto quelle culture anti-impresa purtroppo ancora diffuse in Italia. La Chiesa, autorità morale tra le poche oggi riconosciute ed ascoltate, si pone di fronte ai temi d’una modernità che può conoscere allarmanti derive individualistiche (egoistiche, sarebbe meglio dire) o invece indirizzarsi su strade nuove di condivisione e solidarietà. E proprio l’impresa può essere, come nelle stagioni migliori d’una storia che si rinnova, luogo d’inclusione, cittadinanza, elaborazione di sintesi positive tra diritti e doveri, responsabilità personale e valenze solidali.

“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”, ha sostenuto Papa Francesco, nella sua “Evangelii Gaudium“, cercando di delineare i tratti di una “economia giusta” che sappia andare oltre “il feticismo del denaro”. Sulla scia delle parole del Papa, il filosofo Michael Novak commenta: “Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà”.). “L’industria ha incontrato il Santo Padre”, sintetizza il cardinale Ravasi, in cerca di un “ethos comune” su temi come “la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, , il lavoro, la fede autentica e la morale”. Parole importanti. Da declinare “liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti” e dando loro nuovo senso, concreto, di vita vissuta e orizzonti possibili di lavoro comune.

D’altronde, una parola cara alla letteratura d’impresa, “competizione” o anche “competitività”, va proprio ricondotta ai valori già espressi nelle sue radici, in quel latino “cum petere”, andare insieme verso un obiettivo, cui oggi guardano non solo le imprese migliori ma anche un modo economico che parla di “economia circolare”, sostenibilità, nuove condizioni di collaborazione e condivisione. C’è sempre un “cum”, in tutti questi discorsi. Comunità. Riprendendo e recuperando anche la bella lezione di Adriano Olivetti, dei Pirelli, degli imprenditori più colti, attenti, socialmente responsabili.

Viviamo in un mondo alla ricerca di migliori ragioni di sviluppo e di crescita non solo quantitativa (quella misurata dal Pil) ma soprattutto qualitativa (il benessere, secondo nuovi indicatori che già l’Istat ha messo a punto, il Bes, “benessere equo e sostenibile”, appunto, una sofisticata strumentazione cui anche l’Onu guarda con molto interesse, per il suo “indice di sviluppo umano”). E dopo la Grande Crisi dell’economia di carta e dei disastri provocati dalla rapacità della finanza d’assalto, anche il mondo dell’impresa italiana si interroga sull’importanza della sostenibilità ambientale e sociale ed elabora una “nuova cultura d’impresa” in cui proprio la “responsabilità sociale” va considerata come strumento fondamentale di competitività. Per dirla in sintesi: le imprese crescono e si affermano, in un universo competitivo internazionale molto selettivo, se puntano sulla qualità di processi e prodotti, sulle positive relazioni  non solo con gli shareholders (gli azionisti) ma soprattutto con gli stakeholders (clienti, fornitori, dipendenti, i sindacati e le associazioni territoriali, etc.). Si torna anche lungo questa strada ai valori. Di cui, appunto, si è a lungo parlato negli incontri in Vaticano. Un confronto da continuare.

Papa Francesco dice agli imprenditori: “Il bene comune sia bussola per l’attività produttiva”. Chiede “un nuovo umanesimo del lavoro”. Riconosce il ruolo cardine dell’impresa per lo sviluppo, per quell’”economia giusta” che gli sta tanto a cuore e ha rilanciato nei suoi discorsi. E sollecita “nuove strategie, stili, atteggiamenti” per “investire in progetti che sappiano coinvolgere soggetti spesso dimenticati o trascurati”, cioè gli anziani “troppo spesso scartati perché inutili o improduttivi” e i giovani “prigionieri della precarietà o di una troppo lunga disoccupazione”. Insiste perché “la persona sia al centro dell’impresa”. Ed esorta uomini e donne d’impresa: “La via maestra sia sempre la giustizia, che rifiuta le scorciatoie delle raccomandazioni e dei favoritismi e le deviazioni pericolose della disonestà e dei facili compromessi”. Il monito è netto: “Assoluta è la dignità, non il mercato”. Gli imprenditori applaudono.

Sono in settemila, riuniti della grande e solenne Sala Nervi del Vaticano, in un sabato mattina grigio e piovigginoso. Settemila tra imprenditori e familiari. Sono riuniti per il “Giubileo dell’industria”. E ascoltano il Papa con attenzione, rispetto, partecipazione sincera. Poco prima del discorso del Santo Padre, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, in un breve intervento, ha ricordato come “l’unico vero antidoto alla speculazione è l’impresa”, con i suoi valori, la sua attenzione alle persona, la sua idea che la dignità sia nel lavoro ben fatto.

E’ un incontro importante, quello tra il Papa e gli imprenditori di Confindustria. Una novità assoluta. E mostra come in tempi di crisi, la risposta non sia da trovare nelle secche economiciste, ma in una nuova visione della persona, del lavoro, dell’intraprendere. Nei valori.

Ecco il punto chiave. Il valore. È una parola cardine, nel lessico dell’impresa. “Creare valore per gli azionisti”, si chiede a chi l’amministra: redditività, cioè, profitti, crescita dei titoli quotati in Borsa, dividendi, risorse finanziarie per avviare nuovi investimenti e dunque fare aumentare ancora di più “il valore”.

Questa parola si può, appunto, declinare al plurale: “valori”. E, facendo ancora un passo avanti rispetto alla visione più specifica dello “spirito del capitalismo”, ha senso affermare che oggi non si crea alcun valore se non si sta con l’attenzione vigile rivolta, appunto, ai valori: il rispetto delle persone e dell’ambiente, la sicurezza, la tutela dei diritti di lavoratori e consumatori, l’armonia tra l’impresa e i territori in cui si avverte la sua presenza. Non solo non c’è contraddizione tra valore (anche nel senso specifico del profitto d’impresa) e valori. Ma solo in questa nuova prospettiva le imprese possono crescere e il Paese avere uno sviluppo equilibrato, migliore, più “giusto”.

Fare impresa per creare valori”, scrive il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, sulla prima pagina de “Il Sole24Ore”, presentando il seminario “Fare insieme“, l’incontro tra Confindustria e Vaticano che si è svolto venerdì 26 febbraio al Centro Congressi Augustinianum alla vigilia dell’udienza papale. E, in modo speculare, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha scritto un articolo su “Avvenire”, cercando “risposte alle domande difficili” appunto sui valori, il senso del fare impresa, la responsabilità di “costruire in modo creativo opportunità di crescita anche per chi ha meno, per innovare, generare nuovo lavoro e capitale sociale”, definire insomma “insieme” (ecco la parola che ricorre) “un nuovo contratto sociale”.

È un’iniziativa inedita, un incontro importante, quello tra la Chiesa e l’organizzazione degli imprenditori italiani: nasce nel segno del dialogo, del confronto sincero tra posizioni diverse in cerca di convergenze e sintesi comuni, guarda con impegno condiviso allo sviluppo non solo economico, ma anche e soprattutto umano e sociale, prova a coniugare l’importanza del “fare” (l’intraprendenza, il lavoro, la costruzione di qualcosa che non c’era) caro agli imprenditori con i valori dell'”insieme”: la solidarietà, la comunità, l’inclusione.

Con l’incontro di venerdì (cui hanno partecipato economisti, imprenditori, esponenti vaticani, intellettuali sensibili ai temi dell’etica e dell’economia) si è andati oltre l’abituale confronto tra Chiesa e imprenditori cattolici per cercare di inserire l’impresa in quanto tale dentro un universo di significati positivi.

L’impresa si confronta con valori generali, in parte già suoi, in parte da accogliere come sfide, in cerca anche di una nuova e migliore legittimazione sociale, che permetta di mettere da canto quelle culture anti-impresa purtroppo ancora diffuse in Italia. La Chiesa, autorità morale tra le poche oggi riconosciute ed ascoltate, si pone di fronte ai temi d’una modernità che può conoscere allarmanti derive individualistiche (egoistiche, sarebbe meglio dire) o invece indirizzarsi su strade nuove di condivisione e solidarietà. E proprio l’impresa può essere, come nelle stagioni migliori d’una storia che si rinnova, luogo d’inclusione, cittadinanza, elaborazione di sintesi positive tra diritti e doveri, responsabilità personale e valenze solidali.

“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”, ha sostenuto Papa Francesco, nella sua “Evangelii Gaudium“, cercando di delineare i tratti di una “economia giusta” che sappia andare oltre “il feticismo del denaro”. Sulla scia delle parole del Papa, il filosofo Michael Novak commenta: “Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà”.). “L’industria ha incontrato il Santo Padre”, sintetizza il cardinale Ravasi, in cerca di un “ethos comune” su temi come “la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, , il lavoro, la fede autentica e la morale”. Parole importanti. Da declinare “liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti” e dando loro nuovo senso, concreto, di vita vissuta e orizzonti possibili di lavoro comune.

D’altronde, una parola cara alla letteratura d’impresa, “competizione” o anche “competitività”, va proprio ricondotta ai valori già espressi nelle sue radici, in quel latino “cum petere”, andare insieme verso un obiettivo, cui oggi guardano non solo le imprese migliori ma anche un modo economico che parla di “economia circolare”, sostenibilità, nuove condizioni di collaborazione e condivisione. C’è sempre un “cum”, in tutti questi discorsi. Comunità. Riprendendo e recuperando anche la bella lezione di Adriano Olivetti, dei Pirelli, degli imprenditori più colti, attenti, socialmente responsabili.

Viviamo in un mondo alla ricerca di migliori ragioni di sviluppo e di crescita non solo quantitativa (quella misurata dal Pil) ma soprattutto qualitativa (il benessere, secondo nuovi indicatori che già l’Istat ha messo a punto, il Bes, “benessere equo e sostenibile”, appunto, una sofisticata strumentazione cui anche l’Onu guarda con molto interesse, per il suo “indice di sviluppo umano”). E dopo la Grande Crisi dell’economia di carta e dei disastri provocati dalla rapacità della finanza d’assalto, anche il mondo dell’impresa italiana si interroga sull’importanza della sostenibilità ambientale e sociale ed elabora una “nuova cultura d’impresa” in cui proprio la “responsabilità sociale” va considerata come strumento fondamentale di competitività. Per dirla in sintesi: le imprese crescono e si affermano, in un universo competitivo internazionale molto selettivo, se puntano sulla qualità di processi e prodotti, sulle positive relazioni  non solo con gli shareholders (gli azionisti) ma soprattutto con gli stakeholders (clienti, fornitori, dipendenti, i sindacati e le associazioni territoriali, etc.). Si torna anche lungo questa strada ai valori. Di cui, appunto, si è a lungo parlato negli incontri in Vaticano. Un confronto da continuare.

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